22 febbraio 2008

Stonecash: il voto non è solo questione di razza o genere

Martino Mazzonis
(New York)

Il gioco americano del momento è quello di studiare la mappa politica e demografica del Paese per cercare di capire come andrà il voto di martedì prossimo (Super-duper tuesday o Tsunami tuesday, come lo chiamano). Quanti indipendenti e quanti elettori cristiani, quante donne e quanti lavoratori bianchi sindacalizzati. Nel campo democratico, dopo l'uscita di scena di Edwards, questi ultimi sono tra i voti da conquistare per Hillary Clinton e Barack Obama. Negli Stati del Sud formano una delle parti determinanti del voto democratico assieme agli afroamericani. In Arizona e California i latinos pesano intorno al 15 per cento e saranno determinanti sul fronte democratico. In altri Stati saranno gli evangelici a pesare e il fatto che ci sia ancora Huckabee in giro penalizzerà, dicono gli esperti, Mitt Romney. L'appartenenza ad una comunità tende spesso ad essere la lente attraverso la quale si legge il voto. Alle primarie così come alle elezioni vere. I neri stanno coi democratici e a Sud il voto bianco sceglie repubblicano per contrapposizione. Al nord, le grandi città, la struttura economica, i bianchi più liberal e alcune sacche di voto nero (Illinois, New York, New Jersey) regalano ai democratici la maggior parte dei seggi al Congresso. Questa almeno è una parta della lettura. Jeffrey Stonecash, che insegna politica alla Maxwell school dell'Università di Syracuse ha un'idea diversa. Prendiamo l'ultimo voto, quello in South Carolina. "Non credo che quei risultati possano essere interpretati solo su base razziale. Gli scienziati politici tendono a dare questa interpretazione, specie dopo che negli anni 70 il voto per i democratici si è spostato al Nord. L'idea è che i bianchi poveri siano spinti verso il voto ai repubblicani perché temono di venire superati e che i più ricchi preferiscano puntare sulle divisioni razziali per offuscare, far sparire dalle campagne elettorali il tema della loro ricchezza. Io credo che la cosa sia almeno in parte diversa". Stonecash studia i partiti e la loro base elettorale usando molti numeri e secondo lui il censo pesa specie da quando dagli anni 80 la forbice dei redditi si è allargata e i repubblicani hanno guadagnato voti grazie a generosi tagli di tasse. "Quello del Sud è un voto anche di classe perché la popolazione afroamericana del Sud è quella più povera, vota democratico - ed è andata in massa a votare. Quei voti sono di persone che vogliono un governo capace di offrire qualcosa sul piano della sanità, del lavoro, della qualità delle scuole. Nessuno ha poi osservato che ci sono anche i giovani ad aver votato Obama. Sono giovani e vanno alla ricerca di una politica che dia loro opporunità che temono di non avere, di aver perso. E' presto per capire bene dove stanno i giovani bianchi che hanno votato Obama, lo capiremo dopo il 5 febbraio, quando si sarà votato in più stati".



Le campagne? Cercano di dare risposte a queste richieste?

Un elemento da sottolineare, che distingue le primarie del 2008, è che mai come in questa occasione i candidati alla presidenza di entrambi i partiti si siano posizionati in maniera netta: i democratici portano avanti un'agenda sociale mentre i repubblicani insistono su tagli alle tasse, meno spese e bonus fiscali per la sanità. Nessuno dirà che è un posizionamento di classe, non è un discorso che la politica americana fa così, ma il tema è quello. La forza dei democratici, forse, ma è troppo presto per dirlo adesso, io guardo ai numeri almeno sul medio termine, è anche dovuta alla paura che attraversa la middle class. Potrebbe diventare una forza, spostare voti da un partito all'altro in maniera consistente.



La enorme partecipazione alle primarie democratiche – comprese quelle inutili della Florida – fanno pensare su una rimonta anche al Sud. Sta funzionando la scelta di Howard Dean (il presidente del Democratic national comitee) di puntare su 50 Stati anziché concentrarsi per consolidare la presenza dove il partito è già forte? O è la crisi economica alle porte?

Ci sono differenze Stato per Stato, particolarità specifiche, bisogna aspettare anche in questo caso, almeno fino al 5 febbraio. Non saprei se dire che è la strategia dei 50 Stati che sta funzionando. Ed è difficile dire se il voto è solo dovuto alle questioni sociali. Per adesso il vento sembra questo, ma attenzione all'effetto Bush, a quanto questa presidenza sia stata disastrosa per i repubblicani. In otto anni il presidente ha demolito il suo partito e per ricostruirlo ci vorrà del tempo. Nel 2000 avano l'America in mano e uno avrebbe pensato che sarebbero rimasti alla guida del Paese per molto tempo ancora. Oggi non è più così e il G.O.P. dovrà mettersi a ragionare bene su quale coalizione tentare di costruire, pensare se riposizionarsi al centro o provare a mobilitare di nuovo il voto degli evangelici. Poi ci sono gli elettori indipendenti e quelli moderati: Iraq e crociate conservatrici tipo quella contro gli omosessuali li hanno allontanati. Specie al Nord, dove i repubblicani erano riusciti a mettere le mani su qualche Stato. Ma ripeto, attenzione all'effetto Bush, non è detto che svanito quello le cose tornino a girare bene per i repubblicani.



Dunque a novembre non c'è da scommettere ad occhi chiusi su una valanga democratica in Congresso e per la presidenza?

Il pubblico ci mette molto a cambiare idea in maniera profonda. Io faccio rilevazioni per i candidati e seguo da vicino le rilevazioni. Sono due anni che la gente parla di Iraq e nient'altro. Ora forse la marea sta cambiando e si comincia a parlare di economia. Ma negli ultimi due-tre anni era tutto pro o contro la guerra, pro o anti Bush. Forse la crisi economica potrebbe far tornare di moda i temi sociali, ma questa è una società individualistica, la gente ci crede talmente tanto che l'equilibrio che i democratici ci dovranno mettere sarà cruciale per capire come andrà a finire.

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