29 febbraio 2008

Sherrod Brown

Sherrod Brown ha conquistato un seggio al Senato nel 2006. Per lui il partito democratico deve essere il partito dei valori e della giustizia sociale. E’ assolutamente contro la guerra, contro la pena di morte, contro i tagli alle tasse. E’ uno dei più strenui sostenitori della scuola pubblica e della riforma dell’assistenza sanitaria.
Il senatore dell’Ohio esprime il disagio della Rust Belt (la cintura della ruggine), ex motore dell’industria americana che oggi soffre la delocalizzazione e la globalizzazione. E’ la voce delle classi medio basse che si sentono minacciate e dalle “fast track policies” adottate da Clinton e Bush e dalla crisi dell’industria meccanica americana. Vorrebbe uscire dal WTO e commerciare il meno possibile con la Cina. E’ famoso per aver guidato gli oppositori della CAFTA (area di libero scambio con il Centro America) nel 2005. E’ anche autore di The Myths of Free Trade: Why American Trade Policy Has Failed in cui denuncia: “Washington ha tradito la classe media e gli operai”.
Per ora i suoi elettori, tradizionalmente democratici, anche se da sempre contrari candidati del Nord Est, sembrano preferire Hillary Clinton.

Sondaggi primarie Ohio. http://www.pollster.com/08-OH-Dem-Pres-Primary.php
Sito di Brown al Senato http://brown.senate.gov/
Sito Brown http://www.sherrodbrown.com/
Record elettorale http://www.ontheissues.org/Senate/Sherrod_Brown.htm
Cos’è la CAFTA http://www.caftaintelligencecenter.com/subpages/What_is_CAFTA.asp

(Matteo Dian)

Quando i repubblicani persero l'Ohio

Due anni fa i cittadini dell'Ohio hanno eletto il presidente degli Stati Uniti d'America. Poco più di undici di milioni di persone, una percentuale di maggiorenni votanti ovviamente più bassa che, schiacciando un tasto su una macchina elettorale decidono il futuro dell'Iraq, dell'Afghanistan e di molte altre cose. Se l'Unione europea fosse una federazione come gli Usa, staremmo parlando più o meno del Belgio. E proprio come uno stato europeo, l'Ohio non è una realtà omogenea, a percorrerlo in auto si vede subito. Al nord gli insediamenti già industriali, Cleveland, recentemente eletta città più povera degli Stati Uniti (quasi uno su tre adulti e metà dei bambini è sotto la soglia di povertà), Akron e le zone intorno, che hanno perso posti di lavoro per merito dell'internazionalizzazione dei mercati. In un negozio vendono una cartina degli Usa per bambini, un disegnino per rappresentare ogni stato. Per l'Ohio ci sono un auto e una fabbrica. Avrebbero dovuto cambiare disegno: tra 2000 e 2004 in Ohio si sono persi 102mila posti di lavoro e durante la presidenza Bush la disoccupazione è aumentata di un punto e mezzo percentuale. Non siamo lontani da Detroit e da altre zone abbandonate dalle grandi fabbriche di auto. Sherrod Brown, candidato senatore per il seggio dello stato in ballo il 7 novembre ha fatto della denuncia degli accordi internazionali di libero commercio un suo cavallo di battaglia. Va su e giù per le aree dove le fabbriche hanno chiuso a spiegare che bisogna tornare a produrre qui, accusando i repubblicani di aver favorito le compagnie farmaceutiche e petrolifere. Brown è contro i trattati commerciali che (a dire il vero) gli Usa hanno imposto al Centroamerica e le sue idee sono difficili da sostenere senza un tale cambiamento di politica economica che nessuno a Washington potrebbe sostenere.
Il candidato Brown viene da Mansfield, a metà strada tra la capitale dello Stato, Columbus e Cleveland. "Born and raised here" (Nato e cresciuto qui) come recita la propaganda che in questa zona dell'Ohio è più visibile che altrove. Intorno boschi, fiumi e laghetti e qualche parco naturale – e una marea di carcasse di beste accoppate dalle auto sul ciglio della strada – in città una grande strada, qualche chiesa e edificio pubblico primi 900 e un palazzo della Chase Manhattan bank. In periferia un sacco di grandi capannoni industriali vecchi di almeno 50 anni, la metà abbandonati gli altri magazzini o cementifici. "Brown vuole riportare il lavoro negli States, qui lavoro ce n'è sempre meno", spiega Bob, cinquant'anni portati male, capelli lunghi, barba incolta, occhi e pelle da fumatore incallito che non se la passa per niente bene. Sta seduto al banco del Coney island restaurant, accanto a lui una donna e un uomo della stessa età, malmessi come lui, tutti con la sigaretta in bocca e la tuta sdrucita al posto dei jeans. Al tavolo di fronte, una famiglia addobbata per Hallowen che sembra uscita da un film tragico sull'America profonda (o da un episodio della Famiglia Addams).
Dopo aver strabuzzato gli occhi dietro gli occhiali per essersi trovata davanti qualcuno finito quaggiù a fare domande di politica, la cameriera, si mette a parlare di guerra: "Da queste parti c'è abbastanza disoccupazione e più vai a nord e più gente c'è che ha un amico, un parente, un figlio partito in guerra. A me non me ne frega niente dell'Iraq, voglio quei ragazzi a casa". Mentre raccatta i piatti sua madre interviene per solidarizzare con l'Italia, che anche noi abbiamo perso delle giovani vite "e nessuno ha capito perché". Qui l'immigrazione, l'altro tema caldo della campagna elettorale, non sembra essere una priorità. Assistenza medica e privatizzazione dello stato sociale invece lo sono. Del resto, lo Stato dell'Ohio è l'unico che ha l'onore di avere due città tra le prime dieci più povere. La seconda (all'8° posto) è Cincinnati, all'estremo sud rispetto a Cleveland, sulla riva opposta rispetto a Newport, Kentucky.
2Certo che siamo poveri, non ci sono idee, mancano i trasporti pubblici di ogni tipo (hai visto un treno passare?) e poi dipendiamo dal petrolio. Nonostante qui soffi un vento tremendo non c'è traccia di una centrale eolica". A parlare è Bob Fitrakis, candidato indipendente dei Verdi alla carica di governatore e giornalista. E' famoso nello Stato per aver documentato le frodi elettorali nel 2004 e condotto una feroce battaglia per non far bruciare le schede. Secondo lui il problema sta tutto qua: dotare l'Ohio di infrastrutture e denunciare i trattati commerciali che hanno fatto delocalizzare tante imprese. "Non saranno i democratici a fare cose del genere – sottolinea Bob divorando una busta di pop-corn – ma speriamo si predano la maggioranza che di questi pazzi invasati non se ne può più".
Bob fa campagna a Columbus, la sua città, la piccola capitale dello Stato. L'unica ad avere un'economia postmoderna: un enorme centro congressi e una strada di ristoranti che ci passa davanti, lo stadio della squadra di football universitaria, un grande campus e qualche edificio di servizi finanziari. Tra fiere, economia generata dalla burocrazia locale e studenti, una piccola città tira avanti bene. E poi qui era meno industrializzato che altrove. Uscendo di città in macchina, però, le villette diventano di materiali più scadenti o sono tenute peggio. Sulle verande delle case peggiori stanno seduti, quasi sempre, i neri. I bianchi poveri vivono ancora più in la, nel quartiere di case su ruote: praticelli verdi, una scuola, una chiesa e tante roulotte giganti, pronte a spostarsi dove la vita costa meno o dove fa meno freddo. Più lontano ancora comincia quel fenomeno americano che sono i suburbs, che tradotto si dice sobborghi, ma non è proprio la stessa cosa. Entità artificiali a non finire dove le famiglie americane di ceto medio alto si sono spostate, condannandosi ad affrontare ore di automobile per andare al lavoro ed ottenendo in cambio una villetta e una zona commerciale dove comprare qualsiasi cosa, mangiare fuori, andare al cinema, fare sport. La campagna elettorale, in molti degli Stati dell'Unione si fa qui. Qui vivono i bianchi che vanno a votare.
La statale 71 che corre da Cleveland a Cincinnati funziona bene per vedere quanto può essere diverso uno Stato americano di media grandezza. Se il Nord dell'Ohio è un pezzo di quello che è stato l'equivalente del nostro triangolo industriale (con Detroit, Chicago), il sud è agricolo e infarcito di sobborghi. Tanti villaggi di coltivatori di soia, cereali vari e granoturco. In un altro diner (i posti dove si mangiano hamburger e patatine) della contea di Clinton, c'è meno degrado. Qui si fa l'agricoltore ma più o meno si lavora. Le prime cose di cui parlano gli avventori quando gli si chiede delle elezioni sono la guerra e lo scandalo Abramoff, il lobbysta accusato di aver pagato esponenti del Congresso e truffato i nativi indiani con una storia di costruzione di case da gioco. Il primo condannato tra i politici è il repubblicano Bob Ney, eletto nel 18° distretto elettorale dell'Ohio. Non è qui, ma ai due anziani signori che sorseggiano caffè chiacchierando col padrone, quella storia non è andata giù. "Parlano di Cristo e guarda cosa hanno fatto…" dice uno dei due. La televisione è accesa su Fox news, che più repubblicana di così non si potrebbe. Eppure anche il padrone, che si distrae un momento dall'assumere una ragazzina che ha risposto all'annuncio "cercasi cameriera" affisso alla portaci tiene a dire che lui qualche dubbio su chi votare ce l'ha. Non gli piacciono i matrimoni gay e non gli piace la gente che il partito democratico ha candidato: "Troppo di sinistra". Uno di sinistra sarebbe Sherrod Brown – che però, da deputato ha appoggiato una parte delle leggi speciali anti terrore. L'altra è Mary Jo Kilroy, candidata a Columbus ma usata in tutto l'Ohio per terrorizzare il ceto medio. La sua avversaria, Deborah Pryce, ha pagato uno spot nel quale la dipinge come un'estremista favorevole persino al taglio delle spese militari.
Più si scende lungo la Interstate 71 e più si nota che il clima cambia. Se a nord ci sono gli operai (o gli ex operai), a sud ci sono le chiese. Tantissime e per ogni gusto. Un enorme cartello autostradale recita: "Se morissi oggi, dove credi che spenderesti il resto della tua esistenza?"; cento metri più avanti la risposta: "L'inferno esiste". Le chiese promettono miracoli di ogni tipo e alla radio diventa difficile trovare musica che non sia "christian music"e speakers che non siano pastori. Proprio loro sembrano smentire l'idea che gli evangelici, delusi da Bush, non siano mobilitati per queste elezioni. E' anche vero che il candidato governatore Ken Blackwell è diretta espressione delle organizzazioni religiose, appoggiato da figure di spicco come James Dobson di Focus on family – che tra le tante altre cose offre sul suo sito consigli su come guarire dall'omosessualità. "Non dico che fare politica sia un dovere cristiano, ma il voto è un dono di dio", spiega uno di loro a chi per telefono esprime dubbi sulla relazione tra religione e politica. Un altro va più in la e mentre chiede donazioni alla Lega della Bibbia per spedire 100mila Testamenti in Guatemala, spiega che non facendo politica potrebbe succedere che un giorno governi qualcuno che impedisca di pregare. "E' vero che la parola di Cristo si è diffusa sotto i romani, in un periodo di repressione, ma io preferisco essere libero di poter diffondere la parola del Signore e per questo il 7 novembre vado a votare". Non c'è bisogno di dire per chi: dietro Obama e Clinton si potrebbe nascondere un Pol Pot o un feroce Saladino. Per capire che forza abbiano gli evangelici basta ascoltare le tante stazioni radio, la quantità di gente che chiama e la gamma impressionante di pubblicità che vendono prodotti cristiani. "Vuoi costruire una chiesa? Lo facciamo noi. Chiamaci", recita uno, mentre l'altro propone corsi per rieducare i bambini che si comportano male (niente psicologo, per carità). E poi c'è il "Centro Salute&natura mormone" per il padre e figlio "e ai primi tre che chiamano un buono di 280 dollari per un weekend gratis". Nella piccola e ridente Lebanon, cittadina dai tanti edifici pre900 alle porte di Cincinnati, il numero di chiese si avvicina in maniera inquietante a quello delle case. A Newport in Kentucky, città gemella di Cincinnati sull'altra sponda del fiume c'è un grande centro commerciale. Intorno solo villette. A parte due punk isolati che leggono i fumetti in libreria, si vede che sono tutti timorati di dio. Nella stessa libreria dei punk, nel reparto "Religione" ci sono 1500 titoli dedicati al tema. Biografie di gente rinata in Cristo, insegnamenti per la vita quotidiana, letture morali e 200 edizioni della Bibbia. Per i democratici da queste parti sarà molto più dura che al Nord. Se ce la fanno, sarà lo scandalo Abramoff-Ney a fare la differenza. E la crisi economica pure. Se per la Camera i seggi in ballo sono tanti e tre o quattro sono ancora molto indecisi, al Senato sembra fatta. Negli ultimi giorni di campagne elettorale i partiti decidono dove spendere soldi per comprare spazi radio e spot Tv. Sembra che il partito del senatore uscente Mike DeWine abbia scelto il Tennesse e il New Jersey. L'Ohio, i repubblicani, lo danno per perso.

(Martino Mazzonis)

Ohio, geografia politica di uno stato in bilico

L’Ohio è uno swing state, cioè uno stato in cui non c’è un partito storicamente dominante , conquistato alternativamente da Repubblicani o Democratici con uno scarto molto ridotto.
Per questo e per i suoi 20 voti elettorali l’Ohio è stato spesso decisivo nelle presidenziali (nel 2004 votando per Bush, nel 1992 per Clinton, nel 1976 per Carter).
L’Ohio ha sempre votato il candidato vincente ad eccezione di Dewey nel 1944 e Nixon nel 1960. Inoltre, nessun repubblicano è mai stato eletto senza vincere in Ohio.
Un’altra caratteristica del voto degli ohioans è il rifiuto per i democratici del nord est. Il loro voto è spesso anti-establishment (votarono contro FDR e JFK, ma a favore di Johnson e Carter, democratici del Sud).
L’Ohio è particolarmente significativo proprio per la presenza di regioni con una diversa geografia politica, zone fortemente democratiche (industriali e sindacalizzate) e zone rurali e conservatrici.
Gli analisti dividono lo stato in cinque regioni diverse. Quella di nord est, che include Cleveland e le aree industriali è storicamente dominata dai democratici, segnata da una forte presenza dei sindacati. Nel nord ovest agricolo prevalgono i repubblicani, anche se con una maggioranza esigua.
La zona del sud ovest è massicciamente repubblicana, sopratutto tra Dayton e Cincinnati (in queste zone sono apprezzati anche i libertari). Il Sud est, la zona degli Appalachi, è la vera swing area, in cui il risultato non è mai scontato, ma prevalgono solitamente i candidato con un agenda economica forte, che “protegga” gli interessi locali, come quella del senatore Brown.
La zona centrale, quella della capitale Columbus, ha una geografia politica tipica delle grandi metropoli americane, soprattutto della Rust Belt: un centro fortemente democratico (più povero) e la zona suburbana repubblicana (più ricca).

In vista delle prossime primarie il vantaggio della Clinton si sta assottigliando.
Gli ultimi sondaggi sostengono che Obama avrebbe conquistato parte degli operai bianchi e sindacalizzati, considerati la “base naturale” dell’elettorato della Clinton.
Per quanto riguarda le presidenziali è difficile azzardare previsioni. Le precedenti elezioni locali hanno dato risultati alterni.
Il governatore è democratico (Ted Strickland, eletto nel 2006) ma le due camere sono nettamente controllate dai repubblicani. I senatori sono uno democratico (Sherrod Brown eletto nel 2006) e uno repubblicano. I sindaci delle maggiori città sono tutti democratici.
Inotre, essendo uno swing state, in Ohio è particolarmente rilevante lo scontro per conquistare il cosiddetto issue voting di alcune fasce di elettorato.

La issue principale del 2004, in Ohio come altrove, era la sicurezza. Nel 2008, come evidenziato dalle analisi del Pew Reserch Center, gli elettori ritengono più importanti i temi economici.
In Ohio significa trovare alcune soluzioni per la crisi industriale e per il degrado che si accompagna a questa crisi. Le ragioni dell'affossamento dell'economia dell'Ohio sono molteplici, ma la perdita di posti di lavoro è da imputare effettivamente alla concorrenza di Cina, India e altri paesi in forte crescita. Si è deciso di investire altrove facendo scendere il totale dei lavoratori nel settore manifatturiero a circa 75o mila; nel 1996 erano più di un milione, un abitante dello stato ogni dieci.
La delocalizzazione oltre alla perdita di posti di lavoro ha comportato una serie di problemi economici e sociali come il crollo dei prezzi delle case e il degrado urbano, che rendono ancora più acuti i problemi derivanti dalla crisi.

A questo proposito vedi: http://www.detnews.com/apps/pbcs.dll/article?AID=/20080117/NATION/801170360/1020/rss09 (sul degrado urbano)

http://www.wfls.com/News/FLS/2008/022008/02072008/354337/index_html?page=2 (sull’abbandono delle case)

http://www.workinglife.org/wiki/The+Auto+Industry+Crisis+is+a+Health+Care+Crisis+(April+15,+2005) (sulle conseguenze sociali della crisi industriale)

Vengono proposti anche alcune soluzioni come quella di Sean Sufford del MIT basate sul rilancio della produttività e sulla ricerca.

(Matteo Dian)

27 febbraio 2008

La politica estera dei democratici? Prussiani contro negoziatori

La politica americana ha effetti immediati sulla nostra. Se nella vulgata statunitense finisse la fissazione per il taglio delle tasse, presto o tardi ne sentiremmo parlare anche da noi. Per noi europei il tema centrale, quello che forma l'opinione, è la politica estera. E allora, visto che con ogni probabilità uno tra Barack Obama e Hillary Clinton sarà presidente, occorre decifrare i documenti delle campagne e chiedersi chi li ha scritti. Chi contribuisce a costruire la posizione, chi consiglia. Che significa anche chi gestirà direttamente o indirettamente la politica estera della prima potenza mondiale. Chi saranno i prossimi Rumsfeld, Wolfowitz, Rice? Se vincesse Obama c'è l'incredibile possibilità che a fare il segretario di Stato sia una Rice. Non più Condoleezza ma la 43enne Susan. Super preparata, consigliera per gli Esteri di Kerry, fa la blogger sul sito di notizie democratico di sinistra Huffington post, già sottosegretaria per lo sviluppo sotto Bill Clinton. Barack ha pescato tra l'entourage clintoniano ma non troppo, mentre Hillary si è affidata quasi completamente agli esperti che hanno guidato gli Usa negli anni 90.
Stephen Zunes insegna Politica internazionale all'Università di San Francisco, dove dirige il dipartimento di Studi mediorientali e negli ultimi mesi ha pubblicato diversi articoli nei quali analizza le posizioni dei personaggi che contrinuiranno a formare le opinioni di Obama e Clinton nel caso riuscissero nell'impresa di entrare alla Casa Bianca.

Cominciamo dalla questione più generale: chi sono e cosa pensano gli esperti di politica estera di Hillary Clinton?

Cominciamo da una figura nota, Richard Holbrooke, ambasciatore Usa all'Onu fino al 2001 e probabile Segretario di stato in caso di vittoria dell'ex first lady. Holbrooke è l'uomo degli accordi di Dayton che hanno posto fine alla guerra di Bosnia ed è un forte sostenitore della proiezione esterna e militare per proteggere gli interessi statunitensi. A suo tempo convinse Carter che era utile proteggere Suharto in Indonesia e Marcos nelle Filippine. Nel primo caso gli Usa con il sostegno militare contribuirono indirettamente ai massacri a Timor Est. Non ci sono indicazioni che abbia, su questo, fatto autocritica. Dopo un periodo in cui Bush ha usato l'unilateralismo come se niente fosse sarebbe grave avere uno così alla guida della politica estera. E' stato a lungo grande sostenitore della guerra in Iraq ed ha apertamente criticato i governi europei che non hanno partecipato all'avventura. Una seconda figura importante che non dovrebbe avere incarichi formali è Madeleine Albright (già Segretario di Stato nella seconda amministrazione Clinton). Ha un ruolo cruciale nella campagna ed è amica di Hillary. E' anche lei una sostenitrice dell'unilateralismo. In generale tutti gli advisors, ad esempio l'ex consigliere per la Sicurezza nazionale Sandy Berger, sono tra i falchi del partito.

Il campo di Obama è diverso?

Tra le gente del senatore ci sono veterani delle amministrazioni democratiche e diversi innovatori. Susan Rice, Zbigniew Brezinski e Anthony Lake hanno lavorato con Carter e Clinton. Poi ci sono accademici liberal come Samantha Power, vincitrice del premio Pulitzer, che fa campagna per il Darfur. Tutti costoro tendono ad avere una predilezione per il "soft power". Sono preoccupati per i cosiddetti failed states, per la quaità dello sviluppo, per la povertà. Anche figure dell'establishment come Brezinski - e questo è interessante - hanno cambiato opinione a partire dalla vicenda dell'attacco all'Iraq. Brezinski l'ha condannata pubblicamente fin dall'inizio ed è anche stato critico del sostegno incondizionato alle scelte israeliane. Su Tel Aviv Brezinski dice: «sosteniamo il loro diritto a esistere, sono tra i nostri migliori amici ma, smettiamo di dare a Israele assegni in bianco».

Il ritorno della politica del soft power che tipo di impatto potrebbe avere sulla politica estera americana?

Intendiamoci, l'assunto fondamentale è che gli Usa vogliono il primato sul mondo. Nessuno può nemmeno pensare di diventare presidente senza sostenerlo in qualche modo. Non ci saranno grandi stravolgimenti, ma ci potrebbe essere una proiezione degli Usa nelle organizzazioni internazionali e nella diplomazia più articolata e ragionevole, che non mette subito la mano alla fondina. I democratici, in sintesi, sono divisi tra "negoziatori" e "prussiani". Penso che il campo di Obama potrebbe dare agli Usa un ruolo attivo a più facce. Meno enfasi sulle soluzioni militari - ma in Afghanistan pensa che bisogna proseguire e aumentare - e nuovi impegni su temi come l'Aids o il riscaldamento globale perché sono anche loro pericoli per la stabilità mondiale.

C'è un tema di grande attualità, il commercio, che si sovrappone in parte alla politica estera...

Alcuni degli advisors di Clinton sono tra i principali architetti del Wto, del Nafta e di altri pezzi del consenso neoliberista di Washington. Anche gli altri hanno sostenuto, in generale, l'idea di un'economia trainata dagli investimenti esteri, ma con qualche idea in più. Ad esempio la sottolineatura delle imprese locali da aiutare o la cancellazione del debito. La gente di Obama, nei suoi scritti, chiede più regole globali e mette al centro i temi ambientali. Se vogliamo, sono un po' più europei: allo stesso modo pro mercato ma non all'americana - «se va bene per il big business va bene per tutti». E' una globalizzazione dal volto umano. Non un fatto da sottovalutare.

(Martino Mazzonis)

22 febbraio 2008

Stonecash: il voto non è solo questione di razza o genere

Martino Mazzonis
(New York)

Il gioco americano del momento è quello di studiare la mappa politica e demografica del Paese per cercare di capire come andrà il voto di martedì prossimo (Super-duper tuesday o Tsunami tuesday, come lo chiamano). Quanti indipendenti e quanti elettori cristiani, quante donne e quanti lavoratori bianchi sindacalizzati. Nel campo democratico, dopo l'uscita di scena di Edwards, questi ultimi sono tra i voti da conquistare per Hillary Clinton e Barack Obama. Negli Stati del Sud formano una delle parti determinanti del voto democratico assieme agli afroamericani. In Arizona e California i latinos pesano intorno al 15 per cento e saranno determinanti sul fronte democratico. In altri Stati saranno gli evangelici a pesare e il fatto che ci sia ancora Huckabee in giro penalizzerà, dicono gli esperti, Mitt Romney. L'appartenenza ad una comunità tende spesso ad essere la lente attraverso la quale si legge il voto. Alle primarie così come alle elezioni vere. I neri stanno coi democratici e a Sud il voto bianco sceglie repubblicano per contrapposizione. Al nord, le grandi città, la struttura economica, i bianchi più liberal e alcune sacche di voto nero (Illinois, New York, New Jersey) regalano ai democratici la maggior parte dei seggi al Congresso. Questa almeno è una parta della lettura. Jeffrey Stonecash, che insegna politica alla Maxwell school dell'Università di Syracuse ha un'idea diversa. Prendiamo l'ultimo voto, quello in South Carolina. "Non credo che quei risultati possano essere interpretati solo su base razziale. Gli scienziati politici tendono a dare questa interpretazione, specie dopo che negli anni 70 il voto per i democratici si è spostato al Nord. L'idea è che i bianchi poveri siano spinti verso il voto ai repubblicani perché temono di venire superati e che i più ricchi preferiscano puntare sulle divisioni razziali per offuscare, far sparire dalle campagne elettorali il tema della loro ricchezza. Io credo che la cosa sia almeno in parte diversa". Stonecash studia i partiti e la loro base elettorale usando molti numeri e secondo lui il censo pesa specie da quando dagli anni 80 la forbice dei redditi si è allargata e i repubblicani hanno guadagnato voti grazie a generosi tagli di tasse. "Quello del Sud è un voto anche di classe perché la popolazione afroamericana del Sud è quella più povera, vota democratico - ed è andata in massa a votare. Quei voti sono di persone che vogliono un governo capace di offrire qualcosa sul piano della sanità, del lavoro, della qualità delle scuole. Nessuno ha poi osservato che ci sono anche i giovani ad aver votato Obama. Sono giovani e vanno alla ricerca di una politica che dia loro opporunità che temono di non avere, di aver perso. E' presto per capire bene dove stanno i giovani bianchi che hanno votato Obama, lo capiremo dopo il 5 febbraio, quando si sarà votato in più stati".



Le campagne? Cercano di dare risposte a queste richieste?

Un elemento da sottolineare, che distingue le primarie del 2008, è che mai come in questa occasione i candidati alla presidenza di entrambi i partiti si siano posizionati in maniera netta: i democratici portano avanti un'agenda sociale mentre i repubblicani insistono su tagli alle tasse, meno spese e bonus fiscali per la sanità. Nessuno dirà che è un posizionamento di classe, non è un discorso che la politica americana fa così, ma il tema è quello. La forza dei democratici, forse, ma è troppo presto per dirlo adesso, io guardo ai numeri almeno sul medio termine, è anche dovuta alla paura che attraversa la middle class. Potrebbe diventare una forza, spostare voti da un partito all'altro in maniera consistente.



La enorme partecipazione alle primarie democratiche – comprese quelle inutili della Florida – fanno pensare su una rimonta anche al Sud. Sta funzionando la scelta di Howard Dean (il presidente del Democratic national comitee) di puntare su 50 Stati anziché concentrarsi per consolidare la presenza dove il partito è già forte? O è la crisi economica alle porte?

Ci sono differenze Stato per Stato, particolarità specifiche, bisogna aspettare anche in questo caso, almeno fino al 5 febbraio. Non saprei se dire che è la strategia dei 50 Stati che sta funzionando. Ed è difficile dire se il voto è solo dovuto alle questioni sociali. Per adesso il vento sembra questo, ma attenzione all'effetto Bush, a quanto questa presidenza sia stata disastrosa per i repubblicani. In otto anni il presidente ha demolito il suo partito e per ricostruirlo ci vorrà del tempo. Nel 2000 avano l'America in mano e uno avrebbe pensato che sarebbero rimasti alla guida del Paese per molto tempo ancora. Oggi non è più così e il G.O.P. dovrà mettersi a ragionare bene su quale coalizione tentare di costruire, pensare se riposizionarsi al centro o provare a mobilitare di nuovo il voto degli evangelici. Poi ci sono gli elettori indipendenti e quelli moderati: Iraq e crociate conservatrici tipo quella contro gli omosessuali li hanno allontanati. Specie al Nord, dove i repubblicani erano riusciti a mettere le mani su qualche Stato. Ma ripeto, attenzione all'effetto Bush, non è detto che svanito quello le cose tornino a girare bene per i repubblicani.



Dunque a novembre non c'è da scommettere ad occhi chiusi su una valanga democratica in Congresso e per la presidenza?

Il pubblico ci mette molto a cambiare idea in maniera profonda. Io faccio rilevazioni per i candidati e seguo da vicino le rilevazioni. Sono due anni che la gente parla di Iraq e nient'altro. Ora forse la marea sta cambiando e si comincia a parlare di economia. Ma negli ultimi due-tre anni era tutto pro o contro la guerra, pro o anti Bush. Forse la crisi economica potrebbe far tornare di moda i temi sociali, ma questa è una società individualistica, la gente ci crede talmente tanto che l'equilibrio che i democratici ci dovranno mettere sarà cruciale per capire come andrà a finire.

21 febbraio 2008

L'eterno ritorno del populismo americano

Populismo è una delle parole chiave di questa campagna elettorale 2008, ed è anche una delle armi meglio utilizzate dal nuovo frontrunner del partito democratico, Barack Obama. Un termine che aveva già fatto breccia nelle elezioni di mid-term del 2006. La premessa è che il termine populismo, negli Stati uniti, non ha la stessa accezione negativa che lo caratterizza qui in Europa: autodefinirsi populista – come fanno alcuni rappresentanti del partito democratico - significa schierarsi col popolo, quello del “We the People” del preambolo della Costituzione del 1787.
La storia del sistema politico americano è contrassegnata da ondate cicliche di populismo moralizzatore nelle quali il popolo, o un campione che lo rappresenta, si oppone all’egoismo degli interessi particolari. Il contadino e il piccolo proprietario terriero contro il finanziere aguzzino; il lavoratore contro i monopoli e i robber barons; l’imprenditore e la sua famiglia contro i burocrati (nella sua declinazione conservatrice e anti-statalista). A seconda dell’epoca storica rappresentazioni diverse della “middle class”, che nella sua accezione più larga e più comune sembra comprendere chiunque lavori o paghi le tasse, una sorta di surrogato del termine popolo.
Il movimento populista americano ebbe un suo rispettabilissimo partito alla fine del diciannovesimo secolo, forte nelle aree agricole del sud e dell’ovest nelle quali la crisi economica, le trasformazioni del tessuto produttivo - e finanziario - del paese avevano prodotto povertà, rabbia e risentimento. Il People’s Party elesse persino un suo senatore proveniente dallo stato del Kansas. Da allora in poi la retorica e i temi del populismo riemergono ciclicamente: nel movimento socialista e sindacale di inizio ‘900, negli anni della Grande Depressione, nel nuovo conservatorismo di Ronald Reagan, solo per fare alcuni esempi.
Lo storico americano Michael Kazin parla della “Populist Persuasion” come di una storia americana, nella quale retorica e linguaggi dei diversi movimenti populisti conquistano la scena politica e pervadono il discorso pubblico e il funzionamento delle organizzazioni sociali e politiche. Il populismo in questo caso non sarebbe solo “discorso” (la lingua dei ribelli), ma avrebbe anche una sua declinazione organizzativa, popolare e di massa.
Il partito democratico ha sempre avuto una sua anima populista, anche in questo caso sia conservatrice che progressista. Nel primo uno dei suo esponenti fu George Wallace, il governatore democratico dell’Alabama che lasciò il suo partito alla fine degli anni ’60 perchè contrario alla leggi anti-segregazioniste. Il suo nemico era l’establishment del partito, che avrebbe scelto di assecondare gli hippies e i ben pensanti del nord-est, allo scopo di togliere denaro ai contribuenti per regalarlo alle minoranze. E queste ultime divennero effettivamente la base del nuovo partito democratico degli anni ’70.
L’anima populista e progressista del partito democratico è riaffiorata anche in chi meno te lo aspetti, come Bill Clinton e Al Gore, due teorici della “Terza Via”. Sia Clinton nel 1992 che Gore nel 2000 fecero largamente uso di una retorica populista (comune anche ad altri politici del sud). Ecco Clinton durante la campagna presidenziale del 1992: “l’amministrazione Bush rappresenta l’elite economica del paese (...); negli anni ’80 chi ha pagato meno tasse è riuscito ad avere di più facendo meno, e oggi pretende di dare lezioni a chi ha dovuto lavorare più duro per avere meno soldi e pagare più tasse”.
Dopo gli anni del “common touch” molto berlusconiano di George W. Bush la parola popolo è tornata ad appartenere al campo democratico: a tenerla in pugno ora è Obama. Egli invoca, a ogni comizio, l’unità delle gente comune contro la solita Washington delle lobby e dei poteri forti. A partire dal 2006 un approccio orgogliosamente populista era già tornato a fare breccia tra i democratici: erano stati eletti deputati e senatori libertari, alcuni imbevuti di retorica religiosa, spesso più isolazionisti che pacifisti, ancora più spesso nemici del Big Business e del libero commercio che ha fatto perdere posti di lavoro traslocando altrove gli impianti industriali.
Hillary Clinton sta utilizzando la stessa retorica del marito negli stati della Rust Belt (la cintura della vecchia economia manifatturiera) come l’Ohio, dove si avrà un voto decisivo per queste primarie il 4 marzo. La Clinton si trova nella scomoda posizione di dover proporre soluzioni contro le politiche di liberalizzazione – come quella del Nafta – sostenute dal marito; un prezzo che sta pagando per non perdere altro terreno nell’elettorato sindacalizzato dell’Ohio che ha votato per Sherrod Brown, uno dei senatori populisti del partito democratico. Il popolo di “We the People” che si è schierato con Obama appare come un accenno di blocco sociale, al tempo stesso mobilitato e organizzato dal senatore dell’Illinois ma schieratosi con lui anche in modo spontaneo, quasi impulsivo. Le paure e le insicurezze economiche prima di tutto hanno generato un nemico: l’establishment di cui la Clinton è accusata di far parte. In questa coalizione c’è una parte di elettorato giovane, poco politicizzato, con la laurea in tasca ma scarse certezze materiali, infilato in un’industria dei servizi che offre molte meno opportunità che negli anni ’90 del boom economico gestito proprio da Bill Clinton. Le loro paure li hanno avvicinati ad altri gruppi sociali.
Insieme si sono riconosciuti nel “We the People” offerto da Obama. Rappresentare “il popolo” è cosa ben diversa, e molto più potente, di quell’incarnazione di minoranze perdenti e distinte (i neri, gli ispanici, i sindacati, i gay...) che era il partito democratico degli ultimi 40 anni. Una coalizione multicolore che ha vinto solo grazie a imprenditori politici che hanno giocato in proprio, come Carter e Clinton. Obama, almeno dal punto di vista retorico, è riuscito a rappresentarsi come incarnazione di un “interesse generale” (come diremmo qui da noi), sintesi carismatica di un’unità del Popolo che prima era appannaggio retorico del conservatorismo americano. Che è sì in crisi, ma sufficientemente forte da poter sfidare il candidato dei democratici: non è solo una battaglia elettorale, ma uno scontro sul significato del motto “We the People”.

(Mattia Diletti)

13 febbraio 2008

Analisi del voto: Missouri

Il Missouri, negli ultimi 100 anni ha sempre votato per il candidato che poi è diventato presidente. Unica eccezione sono state le elezioni del 1956. Il numero di elettori registrati è qui molto alto anche se solitamente l'affluenza alle primarie non era eccezionale.

Quanti hanno votato:
In età di voto: 4.428.000
Registrati: 3.871.000 (87%)
Votanti alle primarie:
1.401.000 ( 36% dei registrati, 31,6% degli adulti)
Democratici: 819.000, nel 2004 erano 418.000 (+96%)
Repubblicani: 582.000, nel 2004 erano 123.000 (+473%)

Cosa hanno votato:
Obama 405.284 (49%)
Clinton 395.287 (48%)
Edwards 16,747 (2%)

Analisi del voto: Georgia


Nello stato che fu di Jimmy Carter, Barack Obama ha prevalso nelle città come Atlanta e Savannah mentre Hillary Clinton si è aggiudicata solo le aree in viola

Quanti hanno votato:
In età di voto: 6.910.000
Registrati: 5.200.000 (63,6%)
Votanti alle primarie:
1.989.000 (45,2% dei registrati e 21% degli adulti)
Democratici: 1.039.000, nel 2004 erano 626.000 (+ 66%)
Repubblicani: 950.000, nel 2004 erano 161.000 (+590%)

Come hanno votato
Obama: 696,622 (66%)
Clinton: 326,354 (31%)
Edwards 17,897 (2%)

Analisi del voto:California


In viola le contee dove ha vinto Hillary Clinton, in verde quelle dove ha prevalso Obama

Quanti hanno votato:
In età di voto: 26.924.000
Registrati: 15.468.000 (67.29%)
Votanti alle primarie:
6.074.00 ( 39,2% dei registrati, 16,6% degli adulti)
Votanti Democratici: 3.900.000, nel 2004 erano 3.107.000 (+25,5%)
Votanti Repubblicani: 2.174.000, nel 2004 erano 2.216.000 (-1,9%)

Come hanno votato
Clinton: 2,055,340 (52%)
Obama: 1,680,331 (42%)
Edwards: 166,872 ( 4%)

8 febbraio 2008

Non è solo un duello di personalità…

Hillary e Obama rappresentano due segmenti diversi dell'elettorato democratico, uno più "professionale-progressista-alto reddito" (che vota Obama) e uno più "femminile-moderato-conservatore" che vota Hillary. Per la prima volta, queste due subcoalizioni si cristallizzano durante le primarie attorno a candidati alternativi, all'incirca della stessa forza, e questo comporta seri rischi di rottura nel partito e nell'elettorato. Una candidatura Hillary farebbe ricadere gran parte dell’entusiasmo giovanile mobilitato per Obama in queste primarie, ma una candidatura Obama darebbe all’elettorato operaio e alle donne a basso reddito la sensazione, ancora una volta, di non trovare una rappresentanza politica adeguata nel partito democratico. Nell’ultimo sondaggio del Pew research Center si vede chiaramente che una larga maggioranza dei democratici a basso reddito (sotto i 40.000 dollari annui lordi, cioè circa 1.500 euro al mese netti) sostiene Hillary: è il 55%, contro il 35% di Obama e questa percentuale tende ad aumentare leggermente, non a diminuire. Nella corsa per la presidenza, il vero asso nella manica di Hillary non è il marito Bill, o il sostegno dell’apparato ma la fedeltà che le dimostrano gli americani meno fortunati.
Inoltre, Hillary e Obama rappresentano anche due strategie elettorali differenti: gli strateghi clintoniani partono dalla constatazione che l’America è geograficamente divisa in due, con le coste e le città che votano democratico, il Sud, l’Ovest e le campagne che votano repubblicano. Occorre quindi concentrare gli sforzi sui pochi stati incerti (meno di una decina) perché il meccanismo del collegio elettorale permette di vincere anche avendo gli stessi voti, o meno voti, dell’avversario. Per esempio, nel 2004, un pessimo candidato come John Kerry, rischiò di vincere per l’incertezza del risultato in Ohio: se avesse avuto appena 120.000 voti in più lì (su oltre 5,5 milioni) sarebbe diventato presidente.
Il ragionamento di Hillary e dei suoi collaboratori è quindi che non ha nessuna importanza se i tradizionali elettori repubblicani della “cintura della Bibbia” vanno a votare in massa contro di lei: l’importante è rassicurare l’elettorato democratico tradizionale e conquistare alcuni gruppi importanti per gli swing States, come gli ispanici. Per esempio, se il candidato del partito riuscisse quest’anno a tenere tutti gli Stati conquistati da Kerry quattro anni fa e ad aggiungervi New Mexico, Colorado e Nevada potrebbe fare a meno anche dell’Ohio ed entrare alla Casa Bianca, sia pure con una maggioranza risicatissima.
I collaboratori di Obama partono da un’idea diversa, ispirata da Howard Dean, che nel 2004 rappresentò il candidato dei giovani e della sinistra del partito. L’idea è che non si deve rinunciare a nessuno Stato, a nessuna contea, perché i democratici possono vincere ovunque, se hanno dei candidati capaci di parlare anche agli elettori indipendenti, o addirittura ai repubblicani. Dean, ora energico presidente del Comitato Nazionale Democratico, ha quindi sostenuto una strategia “50 States”, cioè un tentativo di entrare anche nelle roccaforti repubblicane del Sud e dell’Ovest.
Obama chiaramente parla un linguaggio diverso, più soft (e anche più vago) di Hillary, si presenta come “uomo nuovo” e non esita a riconoscere (piuttosto opportunisticamente) i meriti di Ronald Reagan. In effetti, agli elettori indipendenti piace più della Clinton ma non è detto che piaccia “negli Stati giusti”, che sono poi quelli con un forte elettorato ispanico perché negli Stati del Sud con un forte elettorato afroamericano i democratici hanno comunque poche possibilità. Fra l’altro, i sondaggi contano poco: nelle urne si sa che i candidati di colore persono sempre alcuni punti rispetto alle previsioni, quindi Obama dovrebbe essere accreditato almeno del 53% per avere, nella realtà, il 50,1. Può darsi che Obama porti al voto molti giovani che altrimenti non voterebbero ma, di nuovo, è un problema di geografia elettorale: i voti degli universitari del Connecticut e del Massachusetts non servono, occorrono i voti dei ventenni del West Virginia, dell’Ohio, del Wisconsin, dell’Iowa, del New Mexico.
Con due candidati praticamente pari nel numero dei delegati, è possibile che la scelta finale della convenzione di Denver dipenda da valutazioni degli esperti sulle due strategie, cioè su chi sarà meglio in grado di competere con John McCain negli Stati-chiave.

Fabrizio Tonello

7 febbraio 2008

John Roos sui rischi di una divisione tra i democratici

John Roos è uno scienziato politico esperto di Congresso che insegna all’università di Notre Dame, in Indiana. Roos è democratico e come molti politologi ha lavorato per molte campagne elettorali con candidati del suo partito. La sua analisi delle primarie 2008 è il frutto di questa doppia esperienza.

Quella democratica è stata – e forse sarà ancora – una corsa dura con i grossi calibri schierati su fronti diversi. Che rischio c’è che il partito democratico risenta delle divisioni.
Vedremo i risultati domani. L’ultimo dibattito è stato più educato e questo è un bene. Ma la mia impressione è che qualche divisione potrebe esseri nell’elettorato. Fino ad ora abbiamo avuto i neri schierati da con Obama e la maggioranza delle donne con Clinton. Qualche reazione emotiva si è vista durante la campagna in South Carolina: i media afroamericani e l’elettorato con loro hanno risposto molto duramente alle uscite di Bill Clinton. Ma ho anche visto qualche popolare commentatrice femminista sostenere che c’è un rigetto maschile della candidatura di Hillary Clinton. Poi c’è il voto dei giovani che è una novità. Se si finisse alla convention a negoziare sui delegati non sarebbe un modo per convincerli ad andare a votare a novembre. Nel ’68 molti superdelegati si schierarono con il candidato dell’estblishement, il vicepresidente Hubert Humphrey, che non aveva partecipato alle primarie ma aveva in tasca tutti gli eletti. Dopo quella convention una commissione riformò le regole per la nomination democratica, restituendo più peso agli elettori. Per finire c’è quella fetta di elettorato che fuori dai seggi dice che sarebbe se non vincesse il candidato che ha scelto. Sono percentuali non enormi ma rilevanti.

Quanto pesano gli appoggi? Corrispondono a gruppi politici o a cosa?
Gli endorsements sono un processo complicato. E a volte non contano troppo. Ad esempio ci sono molti eletti importanti vicini a Clinton che stanno con lei dall’inizio per storia o pre interesse. Quelli aiutano a organizzarsi sul territorio ma non spostano elettori direttamente. Obama è stato più efficace nell’attirare nell’ultima parte della campagna, quando le emozioni cominciano a far parte dell’atmosfera. Molti probabilmente stavano con lui fin dall’inizio ma aspettavano di vedere quanto fosse credibile. Caroline Kennedy non scrive che le ricorda il padre senza aver constatato la forza di Obama. Poi ci sono le divisioni dei partiti che, credo, hanno un fattore locale. Nei singoli Stati cosa influenzerà l’elettorato? In un posto con molti indipendenti forse mi conviene Obama, dove non c’è elettorato nero forse Hillary. Sempre guardando al partito e al suo elettorato in senso stretto, Clinton ha con lei i grandi sindacati, mentre Obama ha saputo mobilitare una base che c’è sempre stata – che era con Bob Kennedy, con Mc Govern o con Bill Bradley, che infatti sta con il senatore. Nel 2000 Bradley, stella del baseball e senatore del New Jersey, perse con Gore nonostante l’appoggio di alcune figure importanti. L’establishement era con l’ex vicepresidente.

L’affluenza alle urne nelle primarie democratiche fa ben sperare per novembre. E’ anche un successo della campagna di Howard Dean di puntare su tutti gli Stati e non concentrarsi per consolidare Stati blu (democratici) e stati indecisi? O sono la guerra e l’economia?
La strategia di Dean ha funzionato dove c’era da costruire: attivisti, una base possibile. In quei casi le risorse del Dnc (il democratic national commitee) sono servite. Io credo che l’affluenza sia dovuta all’enorme fascino dei candidati. Le donne, i giovani, i neri sono i protagonisti di questa campagna. Il fattore Bush gioca un suo ruolo: il 90% dei democratici è insoddisfatto del presidente (contro il 70% dell’elettorato in generale). Non credo che la crisi economica abbia giocato un ruolo in questo senso, se ne parla da un mese, ma l’entusiasmo per le primarie era già alle stelle.

E che possibilità hanno i democratici di riconquistare parti del Paese finite in mano ai repubblicani negli anni ’60?
In termini nazionali dipende molto dal candidato. Una nomination di Obama potrebbe aiutare al Sud. Per quanto riguarda i singoli seggi del Congresso, il numero di deputati e senatori repubblicani che non correranno per la rielezione ti dice qualcosa: sono 28 alla Camera dei rappresentanti e 6 al Senato. Loro stessi sentono che l’aria è girata e preferiscono saltare un turno sperando che la prossima volta le cose siano migliori. La grande domanda è quanti seggi riuscirano a mangiare i democratici. Oggi alla camera la maggioranza è di 235 contro 195, è più o meno così dal 1984 ed è il più lungo periodo della storia americana in cui le maggioranze sono state così sottili. Credo che stavolta i democratici potrebbero andare intorno a quota 250. Sempre che le divisioni di queste settimane non si facciano sentire, finendo anche per rendere fragile la maggioranza. C’è anche, specie in Senato, il problema di che tipo di candidati saranno i democratici. Ci sono Stati in cui presentano populisti e altri dove presentano figure molto vicine ai repubblicani su alcune questioni come le armi o il matrimonio gay. Anche quello sarà un problema.

4 febbraio 2008

Qualche dato per il supermartedì

A meno di sorprese dell’ultim’ora il Super martedì potrebbe non rivelarsi tale. Le coppie in testa di entrambi i partiti hanno qualche possibilità di non conquistare i delegati necessari per ottenere la nomination. E allora bisognerà aspettare Ohio, Texas, Vermont e l’altra pattuglia di Stati che non votano oggi. O persino – ma è improbabile - fino alla convention di Denver a fine agosto, quando entreranno in ballo i delegati di diritto, tra i quali Hillary dovrebbe godere di maggiori consensi. Clinton ha finora conquistato 249 delegati, Obama 181. Anche se lei vincesse il maggior numero di Stati, dato il criterio proporzionale della distribuzione dei voti non è affatto escluso che ad Obama vada un numero di delgati appena inferiore o superiore. Comunque vada, a meno che non sia Romney il candidato repubblicano, la corsa sarà tra senatori (e non tra governatori o presidenti uscenti e vice). Un fatto raro nelle elezioni Usa. Oltre agli Stati pesanti, da tenere d’occhio l’Alabama per i democratici e il Sud in generale per quanto riguarda la corsa repubblicana.

Ecco qualche dato sugli Stati più importanti. Tra parentesi qualche dato significante sulla partecipazione di maggioranze o minoranze etniche alle primarie democratiche del 2004. In ciascuno Stato al voto il supermartedì le donne elettrici delle primarie democratiche superano i maschi (i dati sono sempre del 2004). In Arizona, Connecticut, Delaware, New York, Oklahoma e Utah gli indipendenti non votano. Per i democratici si vota con il proporzionale mentre il sistema varia per il Grand Old Party – nove Stati sono “winner takes it all”.

California, delegati 370 Dem/170 Rep (8% afroamericani, 16% latinos)
L’avanguardia economico culturale del Paese. Apple e gli studios di Hollywood e una società tra le più diverse (53 comunità registrate a votare). Hillary è sempre stata in vantaggio, contava sul sostengo dei latinos, ma non si aspettava Ted Kennedy. Le ultime rilevazioni assegnano vantaggi minimi all’uno o all’altra. Tra i repubblicani McCain conta su Schwarzenegger e sulla poca forza del voto religioso dello Stato.
New York 232 Dem/101 Rep (20% afroamericani, 11% latinos)
Clinton qui gioca in casa. Nel 2006 è stata rieletta al Senato con il 67% dei voti. Obama conta sui volontari. E’ venuto tre volte nella tana del lupo. Hilary ampiamente in vantaggio, ma in flessione come ovunque. Qui a sostenere il candidato del G.O.P. c’è Rudy Giuliani che è appannato ma forte in città. I repubblicani dello Stato sono moderati.
Illinois 153 Dem/57 Rep
Obama la fa da padrone, Hillary non ha nemmeno comprato spot pubblicitari. Con il lavoro a Chicago Obama è diventato l’unico senatore nero della legislatura. Le ultime rilevazioni parlano di trenta punti di vantaggio per Barack. McCain conta anche lui su un vantaggio enorme.
New Jersey 107 Dem/52 Rep
Hillary è a un passo dal suo Stato, molti degli abitanti lavorano oltre l’Hudson. Ha fatto campagna, soprattutto tra le donne. Obama è convinto di portare al voto un elettorato nero che mai aveva votato prima. McCain in vantaggio anche qui
Massachussets 93 Dem/40 Rep (90% bianchi)
I sondaggi danno in vantaggio Hillary Clinton ma Obama può contare sull'appoggio del governatore Deval Patrick, l'unico governatore nero d'America, nonchè su quello di Ted Kennedy e di John Kerry, che hanno fatto entrambi campagna elettorale per lui nello Stato. E’ lo Stato dove Romney è stato governatore.
Georgia 87 Dem/52 Rep (47% afroamericani)
Il secondo voto nero. Dopo la South Carolina e il discorso alla Martin Luther King church di Atlanta i numeri per Obama nello Stato di Coca-cola e Cnn hanno preso a correre. Qui e in altri Stati del Sud ha puntato molto Huckabee. Gara a tre per il G.O.P.