7 febbraio 2008

John Roos sui rischi di una divisione tra i democratici

John Roos è uno scienziato politico esperto di Congresso che insegna all’università di Notre Dame, in Indiana. Roos è democratico e come molti politologi ha lavorato per molte campagne elettorali con candidati del suo partito. La sua analisi delle primarie 2008 è il frutto di questa doppia esperienza.

Quella democratica è stata – e forse sarà ancora – una corsa dura con i grossi calibri schierati su fronti diversi. Che rischio c’è che il partito democratico risenta delle divisioni.
Vedremo i risultati domani. L’ultimo dibattito è stato più educato e questo è un bene. Ma la mia impressione è che qualche divisione potrebe esseri nell’elettorato. Fino ad ora abbiamo avuto i neri schierati da con Obama e la maggioranza delle donne con Clinton. Qualche reazione emotiva si è vista durante la campagna in South Carolina: i media afroamericani e l’elettorato con loro hanno risposto molto duramente alle uscite di Bill Clinton. Ma ho anche visto qualche popolare commentatrice femminista sostenere che c’è un rigetto maschile della candidatura di Hillary Clinton. Poi c’è il voto dei giovani che è una novità. Se si finisse alla convention a negoziare sui delegati non sarebbe un modo per convincerli ad andare a votare a novembre. Nel ’68 molti superdelegati si schierarono con il candidato dell’estblishement, il vicepresidente Hubert Humphrey, che non aveva partecipato alle primarie ma aveva in tasca tutti gli eletti. Dopo quella convention una commissione riformò le regole per la nomination democratica, restituendo più peso agli elettori. Per finire c’è quella fetta di elettorato che fuori dai seggi dice che sarebbe se non vincesse il candidato che ha scelto. Sono percentuali non enormi ma rilevanti.

Quanto pesano gli appoggi? Corrispondono a gruppi politici o a cosa?
Gli endorsements sono un processo complicato. E a volte non contano troppo. Ad esempio ci sono molti eletti importanti vicini a Clinton che stanno con lei dall’inizio per storia o pre interesse. Quelli aiutano a organizzarsi sul territorio ma non spostano elettori direttamente. Obama è stato più efficace nell’attirare nell’ultima parte della campagna, quando le emozioni cominciano a far parte dell’atmosfera. Molti probabilmente stavano con lui fin dall’inizio ma aspettavano di vedere quanto fosse credibile. Caroline Kennedy non scrive che le ricorda il padre senza aver constatato la forza di Obama. Poi ci sono le divisioni dei partiti che, credo, hanno un fattore locale. Nei singoli Stati cosa influenzerà l’elettorato? In un posto con molti indipendenti forse mi conviene Obama, dove non c’è elettorato nero forse Hillary. Sempre guardando al partito e al suo elettorato in senso stretto, Clinton ha con lei i grandi sindacati, mentre Obama ha saputo mobilitare una base che c’è sempre stata – che era con Bob Kennedy, con Mc Govern o con Bill Bradley, che infatti sta con il senatore. Nel 2000 Bradley, stella del baseball e senatore del New Jersey, perse con Gore nonostante l’appoggio di alcune figure importanti. L’establishement era con l’ex vicepresidente.

L’affluenza alle urne nelle primarie democratiche fa ben sperare per novembre. E’ anche un successo della campagna di Howard Dean di puntare su tutti gli Stati e non concentrarsi per consolidare Stati blu (democratici) e stati indecisi? O sono la guerra e l’economia?
La strategia di Dean ha funzionato dove c’era da costruire: attivisti, una base possibile. In quei casi le risorse del Dnc (il democratic national commitee) sono servite. Io credo che l’affluenza sia dovuta all’enorme fascino dei candidati. Le donne, i giovani, i neri sono i protagonisti di questa campagna. Il fattore Bush gioca un suo ruolo: il 90% dei democratici è insoddisfatto del presidente (contro il 70% dell’elettorato in generale). Non credo che la crisi economica abbia giocato un ruolo in questo senso, se ne parla da un mese, ma l’entusiasmo per le primarie era già alle stelle.

E che possibilità hanno i democratici di riconquistare parti del Paese finite in mano ai repubblicani negli anni ’60?
In termini nazionali dipende molto dal candidato. Una nomination di Obama potrebbe aiutare al Sud. Per quanto riguarda i singoli seggi del Congresso, il numero di deputati e senatori repubblicani che non correranno per la rielezione ti dice qualcosa: sono 28 alla Camera dei rappresentanti e 6 al Senato. Loro stessi sentono che l’aria è girata e preferiscono saltare un turno sperando che la prossima volta le cose siano migliori. La grande domanda è quanti seggi riuscirano a mangiare i democratici. Oggi alla camera la maggioranza è di 235 contro 195, è più o meno così dal 1984 ed è il più lungo periodo della storia americana in cui le maggioranze sono state così sottili. Credo che stavolta i democratici potrebbero andare intorno a quota 250. Sempre che le divisioni di queste settimane non si facciano sentire, finendo anche per rendere fragile la maggioranza. C’è anche, specie in Senato, il problema di che tipo di candidati saranno i democratici. Ci sono Stati in cui presentano populisti e altri dove presentano figure molto vicine ai repubblicani su alcune questioni come le armi o il matrimonio gay. Anche quello sarà un problema.

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