23 novembre 2008

Il discorso sull'economia di Obama

Good morning.

The news this week has only reinforced the fact that we are facing an economic crisis of historic proportions. Financial markets faced more turmoil. New home purchases in October were the lowest in half a century. 540,000 more jobless claims were filed last week, the highest in eighteen years. And we now risk falling into a deflationary spiral that could increase our massive debt even further.

While I’m pleased that Congress passed a long-overdue extension of unemployment benefits this week, we must do more to put people back to work and get our economy moving again. We have now lost 1.2 million jobs this year, and if we don’t act swiftly and boldly, most experts now believe that we could lose millions of jobs next year.

There are no quick or easy fixes to this crisis, which has been many years in the making, and it’s likely to get worse before it gets better. But January 20th is our chance to begin anew – with a new direction, new ideas, and new reforms that will create jobs and fuel long-term economic growth.

I have already directed my economic team to come up with an Economic Recovery Plan that will mean 2.5 million more jobs by January of 2011 – a plan big enough to meet the challenges we face that I intend to sign soon after taking office. We’ll be working out the details in the weeks ahead, but it will be a two-year, nationwide effort to jumpstart job creation in America and lay the foundation for a strong and growing economy. We’ll put people back to work rebuilding our crumbling roads and bridges, modernizing schools that are failing our children, and building wind farms and solar panels; fuel-efficient cars and the alternative energy technologies that can free us from our dependence on foreign oil and keep our economy competitive in the years ahead.

These aren’t just steps to pull ourselves out of this immediate crisis; these are the long-term investments in our economic future that have been ignored for far too long. And they represent an early down payment on the type of reform my Administration will bring to Washington – a government that spends wisely, focuses on what works, and puts the public interest ahead of the same special interests that have come to dominate our politics.

I know that passing this plan won’t be easy. I will need and seek support from Republicans and Democrats, and I’ll be welcome to ideas and suggestions from both sides of the aisle.

But what is not negotiable is the need for immediate action. Right now, there are millions of mothers and fathers who are lying awake at night wondering if next week’s paycheck will cover next month’s bills. There are Americans showing up to work in the morning only to have cleared out their desks by the afternoon. Retirees are watching their life savings disappear and students are seeing their college dreams deferred. These Americans need help, and they need it now.

The survival of the American Dream for over two centuries is not only a testament to its enduring power, but to the great effort, sacrifice, and courage of the American people. It has thrived because in our darkest hours, we have risen above the smallness of our divisions to forge a path towards a new and brighter day. We have acted boldly, bravely, and above all, together. That is the chance our new beginning now offers us, and that is the challenge we must rise to in the days to come. It is time to act. As the next President of the United States, I will. Thank you.

4 novembre 2008

Due anni vissuti pericolosamente

Martino Mazzonis
Chicago - nostro inviato
è una frase che Barack Obama ripete in ogni comizio da un mese a questa parte. Ricorda la storia recente. Una storia che finisce e comincia questa notte tra l'una e le quattro, quando i seggi chiuderanno da una costa all'altra degli Stati Uniti. Sono quasi due anni che il profeta del cambiamento e il veterano del Vietnam battono ogni angolo degli Stati Uniti. Cercando consensi alle primarie e voti veri. Il democratico è diventato credibile portando ai seggi migliaia di persone nel freddo inverno dell'Iowa, promettendo un'America diversa, un cambiamento vero, ma credibile. Il repubblicano è risorto in New Hampshire, dopo che George W. Bush lo aveva fatto fuori dalle primarie del 2000 usando le tecniche più sporche possibili. A fine gennaio i due senatori incassano il successo della South Carolina. Per uno significa portare a casa il voto della comunità afroamericana, per l'altro vincere lo Stato dove Bush lo aveva fatto uscire di carreggiata otto anni prima. Le primarie per le presidenziali del 2008 verranno ricordate. C'è stato un tempo in cui i partiti Usa arrivavano alle convention con pacchetti di deleghe e, insultandosi, comprando voti, tirandosi sedie, sceglievano il loro candidato. Non è più così. Ma stavolta, in casa democratica ci siamo andati vicini.

La scalata delle primarie
La scelta repubblicana è fuori dal comune. Il drappello non è di quelli particolarmente entusiasmanti: c'è il vecchio Rudy Giuliani, che è ha concluso malamente la sua carriera politica, il mormone Romney, miliardario scaltro che piace all'apparato e a nessun altro, c'è l'evangelico sociale Huckabee, il più duro sui temi etici, il più a sinistra in materia sociale. Vince McCain, il candidato che non piace al partito, il moderato, l'outsider. Tra i democratici la lotta è tra titani: la nomination dovrebbe andare per acclamazione a Hillary Clinton, poi c'è la star nascente della politica Obama, che mette in piedi una rete di sostegno dal basso formidabile e batte subito tutti i record di finanziamento ricevendo centinaia di migliaia di piccole donazioni. E infine c'è John Edwards, terzo incomodo che finisce subito al tappeto. A febbraio, in Florida, McCain porta a casa la nomination, mentre il duello tra Hillary e Obama divide il partito, la sua base, i media. Durerà fino alla convention di Denver, costerà fatica, montagne di soldi e metterà alla prova Obama, ne testerà la capacità di tenere duro ed avere una strategia. Durante le primarie il senatore dell'Illinois dovrà rispondere agli attacchi sul reverendo Jeremiah Wright e sul suo sermone , dovrà parlare del suo patriottismo, della sua religione, del suo nome, dell'amicizia con lo speculatore di Chicago Tony Rezko, della sua inesperienza. Dovrà essere fiero del colore della sua pelle e contemporaneamente farlo dimenticare. Lo staff di Hillary ha fatto il lavoro sporco, trovato gli argomenti anti Obama per i repubblicani. Ma avendo tenuto botta a quello, per il Grand Old Party e per McCain è stato più difficile trovare qualche coniglio (meglio, qualche topo) da tirare fuori dal cilindro per mettere in difficoltà il senatore afroamericano.

Due città, due messaggi
I democratici hanno scelto Denver per la convention perché sperano di rompere il monopolio repubblicano nel selvaggio West. Colorado, New Mexico, Nevada, magari il Montana. Sul palco sono passati i giovani governatori e le giovani governatrici. Tante donne. A sorpresa arriva a dare una zampata Ted Kennedy, che ha mantenuto la promessa di restare vivo per vedere vincere l'uomo che ha appoggiato voltando le spalle alla sua amica Hillary. Obama ha avuto all'inizio il sostegno della nuova leva, poi ha saputo conquistare l'establishement. Adesso il partito è roba sua (con qualche azione pesante dell'ex coppia presidenziale). Un partito cambiato da otto anni di sconfitte brucianti e dai tempi. Un partito in cerca in una nuova coalizione sociale vincente, capace di riconquistare il voto dei lavoratori rapiti da Ronald Reagan negli anni '80, di far aumentare la partecipazione di giovani e afroamericani al voto e di prendere il voto latino, che Bush aveva conquistato promettendo riforme dell'immigrazione che non sono arrivate. Un partito diviso. Tante donne e tanti lavoratori bianchi erano furiosi con Obama. Come aveva potuto questo ragazzino elegante e ben vestito rubare la presidenza a Hillary?
La senatrice era furiosa anche lei. Ma le pressioni del partito e la paura di regalare un'altra volta la vittoria ai repubblicani hanno avuto la meglio. Con un colpo di teatro fantastico, l'ex first lady ha incoronato Obama durante la conta dei delegati a Denver: è comparsa in platea, seguita dai delegati di New York e ha detto: . Un mese dopo avrebbe cominciato, a Scranton, il suo tour per riportare all'ovile i lavoratori bianchi. Il giorno dopo la nomination, la folla che riempiva lo stadio dei Denver Broncos ascoltava il discorso di accettazione di Obama. Addio alla retorica sulla storia personale, meno "Change" e più idee: miliardi da investire in infrastrutture e energie rinnovabili, sanità meno cara, scuola migliore, servizio civile in cambio di college gratuito, una diplomazia più efficace e meno muscolosa. Sul palco generali, lavoratori bianchi, piccoli imprenditori rovinati, maestri di scuola.
John McCain aveva un altro problema a Saint Paul. Farsi accettare da una base che non lo amava. Un indipendente che dopo la batosta ricevuta da Bush stava per mollare il partito. Un divorziato, un moderato che non andava bene allo zoccolo duro, ai conservatori religiosi, ai libertari che chiuderebbero Washington. E allora McCain sceglie Sarah Palin, la governatrice dell'Alaska che più a destra non si può. Pro caccia, anti aborto, rozza come piace alla gente degli Stati sperduti e rozzi, cattiva come deve essere il vice nella campagna elettorale - gli attacchi sono compito del numero due. La scelta è degli strateghi che hanno preso in mano la sua campagna. Della gente di Bush. Fatto sta che mentre il "maverick" nel so discorso raccontava se stesso e la sua dedizione per la Patria, sul palco della convention si alternavano vecchi figuri che sparavano bordate contro Obama e la svolta a sinistra dei democratici. Dopo la tre giorni in Minnesota - dove Bush e Cheney hanno evitato di farsi vedere con la scusa degli uragani - quello è diventato il tono della campagna McCain: vincere in Iraq, difendere i cittadini dai ladri di Washington, dagli abortisti, dai socialisti. Per un paio di settimane ha funzionato. I sondaggi raccontavano di una corsa più tesa. Poi è crollata Wall street.

La crisi e il ritorno di Obama
Il giorno in cui il Segretario al tesoro ha proposto di salvare le banche con i soldi pubblici, McCain doveva partecipare a uno show comico. Non ci è andato spiegando di dover correre a discutere della crisi, ha proposto di cancellare l'ultimo dibattito presidenziale, sospendere la campagna elettorale. A Washington era necessaria la sua presenza. Alla riunione con Paulson, tutti hanno raccontato di un senatore senza idee chiare. Obama ha risposto meglio, non si è fatto prendere dal panico e ha chiesto agli americani di stare tranquilli. Poi, lui e il suo partito hanno ottenuto qualche non grande miglioramento al pacchetto Paulson e lo hanno approvato. La straordinaria macchina elettorale di Obama ha continuato a girare a pieno ritmo, la proposta di un piano di infrastrutture - e quella di intervenire subito in soccorso delle famiglie in crisi - sono suonate come appropriate. L'idea di un nuovo New deal e della fine di un'era cominciata con Nixon e Reagan ha ricominciato a circolare anche fuori dai circoli liberal. Obama torna in vantaggio nei sondaggi. Il cambiamento è sotto gli occhi di tutti ed è in peggio. I repubblicani hanno portato il Paese alla catastrofe, vendono una ricetta usata ed hanno le spalle rivolte al passato. Chi li voterà spera di tornare agli anni in cui tutto andava bene, l'Urss crollava, l'economia tirava, la benzina non costava. Ma Wall street e il prezzo del barile hanno forse aperto gli occhi agli americani. Il mondo sta cambiando rapidamente, il modello americano è in crisi profonda e il ruolo internazionale del Paese non potrà più essere quello di un tempo. Il prossimo presidente ha un compito enorme e pauroso. Oggi andando al voto i cittadini della prima potenza mondiale potranno far finta di non vedere, provare a dimenticare la realtà illudendosi della vittoria in Iraq e accontentarsi di un taglio alle tasse che non aiuterà gli Usa a uscire dalla fossa che si sono scavati. Oppure scegliere un cammino più tortuoso e difficile. In parte ignoto, come lo è sempre il futuro, in parte rassicurante come il tono della voce del candidato democratico.

La democrazia che non ama il popolo

Uno spettro si aggira per l’America, lo spettro della socialdemocrazia. Negli ultimi giorni della campagna elettorale i repubblicani hanno scelto una delle parole utilizzate da Obama in questi mesi – redistribuzione – per descriverlo come un pericoloso socialista. Indirettamente si parlava anche della razza: ogni volta che di Obama si sottolinea la presunta diversità – è americano solo a metà, si chiama Hussein di secondo nome, è un’intellettuale, usa queste parole (“redistribuzione”) che hanno un sapore socialista, cioè una cosa non americana – si ricorda la sua alterità senza menzionarne il tratto fondamentale, il colore della pelle. Evocato un elemento di diversità, l‘associazione che gli elettori sono spinti a compiere è quella successiva, la più ovvia: Obama non è bianco come abitualmente sono i presidenti.

Torniamo allo spettro socialdemocratico. Nel denunciarne l’apparizione il più esilarante è stato il Wall Street Journal del 27 ottobre: Obama aumenterà le tasse per redistribuire ricchezza ma in realtà saremo tutti più poveri; aumenterà la regolazione dell’economia; i sindacati aumenteranno il loro potere. Votando per McCain, dice il columnist Pete Du Pont, si salverà “l’America dall’europeizzazione, il nostro popolo non perderà il denaro e il lavoro e il mercato resterà libero”. Come ci ricorda lo storico Eric Foner in un suo testo fondamentale, “Storia della libertà in America”, l’interpretazione del termine libertà è sempre stato oggetto di battaglie feroci e di vittorie, temporanee, di questo o quell’altro campo.

Il contenzioso ruota attorno a un concetto che è legato a doppio filo alla storia degli Stati uniti - un paese nato da una guerra di indipendenza, e quindi da un processo di liberazione - e che gli americani hanno utilizzato troppo spesso come fosse una clava. Altri storici hanno descritto con grande efficacia quanto il tema della libertà abbia accompagnato quello dell’espansione imperiale, come se quest’ultima fosse ritenuta indispensabile per mantenere la prima. Liquidare tutto questo con l’etichetta di “ideologia” sarebbe troppo facile, perchè questo concetto di libertà - e di democrazia - sono parte integrante di un processo di elaborazione culturale molto sofisticato, attraverso il quale gli americani rappresentano se stessi nel mondo.

Quale libertà e quale modello di democrazia il Wall Street Journal ritiene minacciata? E quale modello dovrebbe rappresentare Obama? Nel primo caso fin troppo facile pensare a quella di mercato di matrice neoliberista, ma si tratta in realtà di molto di più: la concezione di un uomo completamente autosufficiente e libero da legami, che sfrutta le interdipendenze solo in quanto opportunità economiche. “L’uomo nuovo” del capitalismo. La costruzione di questo uomo nuovo è fallita ancora una volta, squarciando il velo sulle macerie umane che essa ha creato.

Che sia un progetto vero, ingenuo, oppure di semplice opportunismo, Obama rappresenta oggi un movimento che va in senso contrario, verso l’inclusione sociale e politica. Un’impresa molto difficile perchè, va ricordato, la democrazia più antica del mondo è la più scrupolosa nel rendere impraticabili i diritti dei propri cittadini.

Fin dal principio le elite politiche americane si sono confrontate, con timore, con il problema del “popolo” e della sua emancipazione. La rivoluzione americana è stata prima di tutto l’emancipazione dei proprietari dallo sfruttamento della madrepatria, ma il carattere universalistico del credo americano è stato reinterpretato e utilizzato da ogni soggetto sociale a tutti i tornanti della storia: tanto dai gruppi più conservatori (soprattutto dai nemici del ruolo pubblico dello stato) che da quelli radicali che lottavano per l’uguaglianza e l’allargamento dei diritti civili. La Costituzione e la Dichiarazione d’indipendenza sono un canovaccio utilizzato, ancora oggi, da ogni forza politica e sociale.

Obama, fin dal principio, ha cercato nell’allargamento della base politica di consenso - sua e del partito democratico – la chiave per tentare di raggiungere la presidenza. Gli Stati uniti sono un paese dove si scoraggia la partecipazione politica (nelle presidenziali del 2004 ha votato solo il 55% degli americani), attraverso gli strumenti più disparati. Per questo la campagna elettorale di Obama è divenuta strumento per l’inclusione politica di gruppi altrimenti marginalizzati: la loro partecipazione al voto è la sua assicurazione sulla vita (politica). Non si tratta di un’impresa semplice, visto che razza di democrazia dell’esclusione è quella americana.

Basti pensare al sistema della procedura di voto - anzi, ai mille sistemi locali - un misto di elementi arcaici, anti-democratici e persino di pura truffa e intimidazione. Il sistema della registrazione individuale al voto, così tanto discusso, è lo scoglio principale. Votare diventa un’operazione complicata che favorisce chi ha soldi, tempo e cultura per farlo e per interessarsi alla politica. Questo sistema nacque agli inizi del ‘900 (prima votava quasi il 90% degli aventi diritto) insieme ad altre riforme nefaste come l’invenzione delle primarie, ideate per indebolire le macchine di partito – piuttosto corrotte - che del voto erano il motore. Da allora si è creata a tavolino una democrazia tagliata su misura per un americano medio - moderato e con quel tanto di soldi in tasca da non doversi lamentare - che vive più nei manuali di sociologia e scienza politica che nella realtà complicata degli Usa. E infatti in America non si vota: alle elezioni di mid-term del Congresso non si arriva mai al 40% della partecipazione elettorale.

Sfogliando un manuale di scienza politica come quello di Theodore Lowi e Benjamin Ginsberg, vi spiegheranno cosa comporta realmente doversi registrare al voto. In molti stati bisogna presentarsi personalmente e con un discreto anticipo di fronte a un pubblico ufficiale, il quale deve certificare che voi siete voi: dovete fornire prova di identità, residenza e cittadinanza. Ci si può registrare quasi ovunque solo nelle ore lavorative - non tutti possono, di conseguenza – e in alcuni stati va ripetuta regolarmente questa procedura; quest’anno è successo che ci si scontrasse sulla congruenza delle liste elettorali con quelle della residenza in mano alle municipalità: se non corrispondevano, via dalla lista degli elettori registrati e annullamento del diritto di voto. Considerando che i poveri hanno il maggior tasso di mobilità... Lo stesso manuale ci spiega come a votare siano soprattutto i bianchi, i ricchi, i laureati e gli anziani.

Per questo l’assicurazione sulla vita di Obama è rappresentata dai milioni di persone che si stanno registrando – grazie soprattutto allo sforzo della sua organizzazione – tra i giovani, le minoranze e i lavoratori sindacalizzati. Un movimento talmente ampio – 5 milioni di volontari, 3 milioni di singoli finanziatori - che pochi giorni fa Newsweek si chiedeva preoccupato quanto esso potrebbe condizionare il mandato di un ipotetico presidente Obama. Un riflesso condizionato, mosso dalla paura che spesso coglie l’intellighenzia americana.

Ovviamente negli Stati uniti esistono un’altra miriade di fattori distorsivi del processo democratico, in grado di neutralizzare qualsiasi cosa appaia di buono: il potere dei soldi e degli interessi privati; la forte personalizzazione del confronto elettorale e dei meccanismi di funzionamento dell’istituzione presidenziale; la menzogna e la manipolazione come strumento della comunicazione politica ecc. ecc. Per questo però, non c’è bisogno di approfondimento: siamo sufficientemente preparati sul tema anche qui da noi.