8 settembre 2009

Un'analisi delle difficoltà di Obama sulla sanità

Il tema dell’assistenza sanitaria è spinoso. Ci hanno provato tutti tranne Franklin Delano Roosevelt, che mentre costruiva il New Deal evitò di affrontarlo. Da allora in poi, il fantasma dei milioni di uninsured - le persone senza assistenza sanitaria privata o pubblica - aleggia sulla politica americana senza che nessuno riesca a farlo riposare.
Elezion di mid-term a parte, Obama si trova a dover affrontare il tema più difficile nel momento più difficile: in Afghanistan le cose non vanno bene, il discorso al mondo arabo sembra un ricordo sbiadito, in Iran ha vinto Ahmadinejad e nonostante i segnali positivi per l’economia, tutti alla Casa Bianca sanno bene che ci vorrà del tempo prima che ci siano effetti tangibili nella vita delle persone. Un colpo sulla sanità intaccherebbe in maniera molto seria l’immagine del presidente destinato a fare grandi cose e renderebbe la già riottosa maggioranza democratica in Congresso più immobilista di quanto non sia già.
La grande sfida per l’uomo politico che ha usato l’arma dei grandi discorsi ogni volta che si è trovato con le spalle al muro è quella di riuscire a convincere parti molto diverse della società e del quadro politico. Fino ad oggi Obama ha evitato di schierarsi in maniera pesante sulla public option, il principale tema di battaglia che riguarda la riforma sanitaria. Su alcuni temi le divisioni ci sono, ma la maggioranza può trovare un accordo al suo interno: l’idea che le assicurazioni non possano più rifiutare le cure ai malati cronici, quella per cui a persone con un passato sanitario difficile sia impossibile rifiutare la polizza, l’abbassamento dei costi grazie a bonus fiscali e contributi troverebbero i voti necessari in Congresso. Ma l’opzione pubblica, la nascita di un’assicurazione statale che competa con i privati e li costringa ad abbassare i costi, è un vicolo cieco dal quale è difficile uscire per diverse ragioni.
La prima sono gli anziani, che negli Stati Uniti hanno un livello di copertura sanitaria pubblica decente grazie a Medicare. Qual’è il problema? Che Obama in campagna elettorale e anche dopo ha promesso di non alzare le tasse ai ceti medi. E che la riforma con l’opzione pubblica costa. Per riuscire ad avere la botte piena e la moglie ubriaca, l’unica opzione possibile sembra essere quella di un taglio al programma di assistenza sanitaria agli anziani. Niente di drastico, Obama ripete che si tratterà di evitare gli sprechi e razionalizzare alcune cose. Gli anziani temono più file d’attesa per le analisi, le visite specialistiche e così via. Un assist alla destra repubblicana che sugli anziani sta facendo un pressing enorme. In un articolo pubblicato quest’anno dal giornale medico britannico The Lancet, Ezekiel Emanuel, medico consulente dell’amministrazione e fratello del capo dello staff di Obama, Rahm, spiegava più o meno che quando occorre scegliere chi mettere in testa alla graduatoria per un trapianto o per una cura scarsa, tra altri fattori, occorre tenere conto dell’età. Non ci è voluto a Sarah Palin a spiegare agli anziani americani che verranno sottoposti a dei «consulti della morte» nei quali i burocrati statali decideranno in base alle risorse se curarli o lasciarli morire. E’ bassa propaganda, ma sta funzionando.
Se poi si tiene conto che l’elettorato over 65 ha già votato in maggioranza a favore di John McCain nel 2008 e che tradizionalmente nelle elezioni di mezzo termine sono gli anziani, che vanno molto di più a votare dei giovani, a fare la differenza, i congressmen democratici hanno di che preoccuparsi. E prima di loro Obama.
Il presidente, mercoledì dovrà quindi decidere se mettere il suo peso sull’opzione pubblica oppure no. E’ una scelta molto difficile. Lo stratega di Obama, David Axelrod, nelle ultime due settimane ha parlato mlto più del solito con i media, segno che il clan del presidente sta facendo muro e, forse elaborando una straegia. Axelrod ha detto che il presidente favorisce l’idea della opzione pubblica. Ma non ha detto se la chiederà esplicitamente al Congresso. Abbandonare quell’idea rischierebbe di far perdere ad Obama la sua base più entusiasta e liberal. Non abbandonarla rischia di mettergli contro i moderati del Congresso e rendere improbabile che una riforma sanitaria migliorativa venga approvata. Evitare di scegliere, parlare del grande tema della sanità e dei diritti e farlo in maniera ottimale come fa sempre Obama, non basterà. Domani, il presidente avrà davanti persone che ricevono milioni di contributi da parte della lobby sanitaria e altre che rischiano la propria carriera politica tra un anno. Non serviranno solo concetti, ma l’indicazione di un percorso condiviso dalla maggioranza di deputati e senatori capace di convincere anche gli americani della sua efficacia. Se ci fosse la public option, tanto meglio. Se ci riuscirà, il presidente avrà raggiunto un risultato enorme e potrà a guardare al 2010 con una certa serenità. Alla fine dell’anno prossimo l’economia andrà meglio di oggi, l’Iraq sarà quasi un ricordo e con una riforma sanitaria, anche moderata, Obama avrebbe un enorme capitale da spendere. Altrimenti sarebbero guai seri.

6 settembre 2009

Crisi, ripresa o cosa?

Non ci sono solo i governi a discutere di economia mondiale. Ieri a Cernobbio, all’incontro annuale promosso dallo Studio Ambrosetti c’erano diversi economisti di quelli che hanno parlato della crisi prima che questa sorprendesse tutti. C’era ad esempio Nouriel Roubini, diventato famoso per essere tra i pochi ad aver predetto la crisi con largo anticipo. Noto per il suo pessimismo, Roubini ha spiegato a Cernobbio, come fa ormai da mesi, che la ripresa, se è davvero partita, sarà ad “U” e non a “V”. Ovvero, sarà lenta e non una risalita veloce. Un’opinione condivisa dal fancese Jean-Paul Fitoussi, critico con l’Europa che non ha fatto abbastanza («E’ la più grande economia del mondo e aspetta di vedere cosa faranno gli altri»). Secondo Fitoussi i vari governi europei dovrebbero prendere a modello la Francia, che «ha il sistema di protezione sociale più forte ed è il Paese che oggi soffre molto meno degli altri gli effetti della crisi».
Il tema, per tutti, è quello di come e quando far smettere smettere di spendere le Banche centrali e le economie pubbliche. Come ha sostenuto il commentatore di Financial Times, Martin Wolf, i segnali di ripresa ci sono ma non c’è da nessuna parte una domanda che cresca: «Abbiamo un problema serio su come generiamo domanda per una produzione che cresce». Fermare l’intervento troppo presto, dunque, significa rischiare una recessione a “W”, con una ripresa spinta dalla spesa pubblica che cede il passo a una nuova recessione, quando questa smette. Il Nobel Joseph Stiglitz, parlando a Nouvel Observateur sostiene che anche il piano anti-crisi di Obama, che pure è spalmato su due anni, non basterà a rimettere in moto la domanda e che la crisi sarà davvero alle spalle almeno tra un paio d’anni.
Trovare l’equilibrio tra spesa e controllo del deficit è il prossim esercizio a cui dovranno dedicarsi gli economisti. Con un problema non secondario: con un lungo articolo sul magazine del New York Times in uscita domenica prossima l’altro Nobel Paul Krugman ricorda al mondo che la scienza economica non ha saputo in nessun modo prevedere quanto stava accadendo - in un numero recente anche The Economist poneva lo stesso problema. Il testo di Krugman è scritto in maniera magistrale come sempre ed è una critica alla teoria economica che ha dominato gli ultimi trent’anni. L’economista liberal insiste sulla necessità di tornare a guardare il mondo con le lenti di Keynes e prendere atto che il funzionamento dei mercati è tutt’altro che perfetto. E che la macroeconomia deve necessariamente cominciare ad analizzare la finanza per capire davvero come va il mondo e come affrontare le crisi ricorrenti.

29 luglio 2009

Il quadro afghano in cifre

Martino Mazzonis
E’ difficile avere un quadro della situazione afghana. A volte scopriamo che c’è un nuovo leader talebano, che la violenza aumenta, che la produzione di oppio è aumentata o che il Pakistan sembra aver deciso di dare un colpo ai legami tra Jihad e servizi segreti militari. Per farsi un’idea del quadro si può solo raccogliere le informazioni e i dati disponibili e metterli in fila.
Sappiamo ad esempio che le azioni di chi combatte contro le forze armate dell’Alleanza atlantica non sono mai state così tante come in questo periodo. Un rapporto Nato dei primi di giugno ci informa che gli attacchi sono aumentati del 59% tra gennaio e maggio. Sappiamo anche che i militari stranieri in territorio afghano, a fine giugno 2009, erano 61.130 provenienti da 42 Paesi (quasi 30mila statunitensi e 8500 britannici)
Brookings institution, che raccoglie tutti i dati disponibili sul conflitto afghano in un Afghanistan index nota che al 15 luglio scorso i militari stranieri uccisi da talebani o in incidenti sono 207 contro 294 del 2008 - se le cose continueranno come sono andate fino a luglio, quest’anno registrerà un nuovo record di morti. Del resto, sosteneva nel novembre 2008 l’International council on security and developement relations i talebani erano molto attivi e presenti sul 72% del territorio e poco presenti solo nel 7%.
Va un poco meglio per i civili. Le Nazioni Unite hanno calcolato che nel 2008 i morti civili sono stati circa 2100; nel 2009 sono stati 893, ovvero le cose starebbero andando leggermente meglio - ma cosa è successo nelle zone di confine oltre la frontiera pakstana? Qui l’offensiva a colpi di droni deve aver fatto crescere il numero dei morti civili sono aumentati. Per non essere stupidamente retorici, bisogna comunque ricordare che la maggior parte dei civili uccisi li hanno ammazzati i talebani (nel 2008, il 47% contro il 28% di bombardamenti e altro). Certo, un afghano ucciso da un aereo statunitense è un formidabile strumento di propaganda per i talebani.
Tra le cose di cui si parla molto poco, relativamente alla situazione afghana, c’è la vicenda dei rifugiati. L’Unhcr, l’agenzia Onu per che si occupa delle persone che hanno lasciato il loro Paese, ci dice che nel mrzo 2008 erano circa 3 milioni tra Pakistan e Iran. Dalla cacciata dei talebani da Kabul in poi, circa quattro milioni e mezzo di persone hanno fatto ritorno in patria. Molti tra coloro che erano scappati dai talebani, sono rientrati nel 2002, molti altri sono fuggiti dalla guerra (o dagli americani, sulle montagne). Il numero di coloro che tornano è decrescente: molti nel 2002, pochissimi nel 2008.
E’ di lunedì la notizia che i militari statunitensi smetteranno di sradicare le piante di papavero nei campi di contadini e concentreanno la loro attività anti-droga sui trafficanti. Il papavero è tra le fonti principali di finanziamento della guerra talebana e, dall’invasione in poi, la sua produzione è costantemente cresciuta - un lieve calo lo scorso anno. Segno che la scelta di tagliare i papaveri non è servita a nulla. Se nel 2001 la produzione di oppio dell’Afghanistan era pari all’11% del totale mondiale, nel 2008 siamo al 93%. Le organizzazioni che lavorano sul campo in Afghanistan e i think-tanks che si occupano di quel conflitto in maniera costante convergono nel salutare la scelta annunciata dall’inviato speciale del presidente Obama, Richard Holbrooke. Lo stesso diplomatico, parlando al quartier generale di Bruxelles, ha detto che i talebani guadagnano una cifra tra i 60 e i 100 milioni di dollari l’anno dall’oppio. Holbrooke ha però sottolineato che dagli Stati del Golfo arrivano più dollari che non dalla vendita dei papaveri. Altri ne arrivano da altri Paesi. Osama bin Laden, insomma, non è il solo miliardario arabo a sognare un califfato islamico. «I pashtun finanziano le operazioni locali con l’oppio, ma lo sforzo globale è il frutto dei soldi provenienti dall’estero», ha sostenuto Holbrooke.
Qualche dato confortante c’è. Aumentano le iscrizioni nelle scuole, quasi triplicate dal 2002 al 2008. Quasi 250 edifici scolastici e 290 tra studenti e maestri sono stati però uccisi negli ultimi tre anni.
L’accesso all’acqua potabilenon è migliorato. Quando gli americani si preoccupano della qualità delle istituzioni afghane e del loro aiuto civile, parlano di questo. Non sarà un caso che i sondaggi periodici sulla popolazione indicano un costante calo della popolarità del presidente Karzai e della presenza Usa nel Paese. Mai come ora, americani, britannici (e afghani schiacciati tra i belligeranti) avrebbero bisogno di buone idee.

Il generale Mini su politica, Afghanistan e regole d'ingaggio

di Anubi D’Avossa Lussurgiu
Generale Fabio Mini, lei esprime di solito, da esperto militare, pareri eclettici rispetto all’ufficialità; lo ha fatto anche sulla vicenda afghana, che ha sempre indicato come un teatro di guerra. Lo dice anche la più autorevole opinione pubblica occidentale, ormai. In Italia, invece, ci si ostina a negarlo. Ma non le pare che le stesse operazioni sul campo del contingente italiano, specie nel quadrante Ovest tra Herat e Farah, siano conformi ad un’attività bellica?
Guardi, io penso che di fatto il contingente, già da tempo, abbia capito che doveva cambiare atteggiamento e passare da una missione prettamente d’assistenza alle forze afghane, sostanzialmente passiva, ad una posizione attiva. Sostengo da sempre che quanto alla presenza in Afghanistan la situazione richiede una presa di coscienza. Ho sentito dire da qulcuno che questa non è guerra perché non è come la Seconda Guerra Mondiale. Ma allora non possono esistere guerre, perché è chiaro che oggi nessuna guerra può essere come quel tipo di guerra. Insomma, io non ho remore a dire che i nostri soldati stanno combattendo una guerra. Cosa c’è di diverso, nel caso della presenza italiana? Che mentre i principali alleati hanno avuto coscienza da subito di quel che facevano e si sono attrezzati, o hanno cercato di farlo, noi no.

Tantè, in Italia mentre si ribadisce la natura di “missione di pace” il ministro della Difesa e gli stati maggiori militari “adeguano” i mezzi e insistono per farlo anche sulle regole d’ingaggio...
Il dibattito fondamentale non è quello sui mezzi militari, su quali tenere al fronte, quali ritirare, con quali altri sostituirli. Il dibattito fondamentale, in tutta l’alleanza che detiene presenza militare in Afghanistan e a partire dai comandi statunitensi, è stato ed è se le tattiche di guerra contrinsurrezionale praticate in Iraq sono applicabili o meno in Afhanistan. Il precedente comandante McKiernan diceva che sì, lo erano, fino in fondo: e dunque non si peritava di prevedere il massimo numero di vittime, fra le quali come s’è visto se ne sono contate molte nella popolazione civile. Il generale McChrystal, l’attuale comandante, ha invece completamente cambiato approccio. E’ significativa una sua frase al momento dell’insediamento: «Il metro del mio successo - ha detto - non sarà quanti talebani avrò ucciso ma quanti afghani avrò protetto». Queste parole hanno dei risvolti pratici: lo stesso generale Usa ha invocato un cambiamento di regole d’ingaggio. E il cambiamento che ha invocato è in senso più restrittivo.


Esattamente al contrario di come se n’è discusso in Italia. Anche volendo lasciare da parte von Clausewitz, non è questa diversità di approccio alle direttive militari riflette un anacronismo della posizione politica italiana rispetto al travaglio vissuto dagli Usa e che attraversa la nuova amministrazione Obama?
E’ evidente. Non è che un comandante militare cambia approccio per sua iniziativa. E’ un nuovo comandante, nominato da una nuova amministrazione, con nuove direttive. Ed è apparso da subito chiaro che il presidente Obama, pur confermando e anzi rendendo centrale l’ingaggio in Afghanistan, avrebbe ricercato un cammino diverso. Mi pare che, scontato il passaggio delle elezioni di agosto, ci si stia arrivando, finalmente. Però occorre anche fare attenzione a che non sia troppo tardi.


Ecco: negli stessi Stati Uniti e in Gran Bretagna si discute non solo sul fatto che quella è una brutta guerra ma che non la si può vincere, come tale. Non vale tanto più per l’Italia, viste le condizioni della presenza laggiù?
Io penso da sempre che, essendo quella in Afghanistan una guerra ed essendo per l’appunto in Afghanistan, in quel luogo delicatissimo, non si sarebbe mai potuto pensare di trovare una soluzione per la sola via militare. D’altra parte, però, proprio per questo non concordo con chi dice che prima di tutto bisogna venir via. Anche questo, ossia l’andarsene, deve avere un fine. Il punto è: cosa avremo risolto? Oppure è meglio stare lì e fare in modo di far prevalere il nostro sistema di comprensione delle operazioni, in modo che la strategia complessiva cambi? Anche facendo presente magari che ci sono cose che non possono essere fatte. Ciò che mi perplime maggiormente resta la confusione: quando ad esempio parliamo di regole d’ingaggio noi parliamo delle regole seguite dal soldato combattente ma non, come invece fanno gli altri, del modo di condurre le operazioni. Insomma, quel che scontiamo è uno scollamento della politica dalla strategia e per conseguenza della strategia da quanto accade realmente sul terreno.

Ma, volendo stare a quanto accade sul teatro delle operazioni, non appare chiaro che molta dell’intensità degli scontri si stia spostando proprio sul quadrante Ovest e specialmente a Farah dov’è concentrato il contingente, nelle condizioni descritte?
Molto si concentra su Farah perché là ci sono operazioni in atto, da tempo. Cioè là stiamo conducendo determinate operazioni. Non so davvero se con un fine e quale, però. Il fatto fondamentale è questo: è che Farah non è come si era voluto far pensare un’oasi di serenità, ma come anche a Herat si sparava tutti i giorni anche prima. C’è una totale interdipendenza della situazione sul terreno con quella ad Helmand e nel resto del teatro di guerra.

Restando sempre al quadrante Ovest: il confine con l’Iran non dovrebbe rappresentare un fattore di stimolo all’Italia per un ruolo diverso, maggiormente politico, sulla vicenda afghana?
Intanto, ho perso veramente qualsiasi sensazione di grandi giochi geopolitici, quanto all’Afghanistan. Secondo me il livello ormai è quello della sopravvivenza: del Paese, del governo, del senso stesso della presenza occidentale. Il resto dei fattori potrà ricominciare a palesarsi quando si dovesse minimamente stabilizzare la situazione interna. Un fatto è certo, quanto agli italiani nell’Ovest afghano: siamo in un punto delicato e siamo anche in un osservatorio privilegiato. E’ che non l’abbiamo mai detto, quel che vediamo da lì. E quel che si vede non è un’interferenza ostile iraniana, ma esattamente il contrario, la preoccupazione di Teheran per quel che accade. Il nostro ruolo, che finora s’è mostrato anche molto equilibrato nel non andare a cavalcare oltre misura la tigre del “Satana” iraniano, avrebbe potuto funzionare anche di più se qualcuno questa visione sul campo l’avesse fatta pesare nei briefing Nato o nelle sedi politiche. Ecco sempre qui torniamo: allo scollamento della politica.

17 luglio 2009

A che punto è la crisi Usa?

A marzo si parlava di germogli di ripresa. Adesso i segnali sarebbero nettamente positivi. La ripresa cinese è più forte del previsto, gli indicatori indiani sono positivi e le banche americane tornano a fare profitti - suscitando un giusto vespaio di polemiche per i bonus che si apprestano a distribuire. Ieri, per la seconda volta consecutiva, il dato sul numero di richieste di sussidi di disoccupazione negli States è più basso del previsto.
Cosa sta succedendo? Come d’incanto la crisi è passata e tutto torna a girare per il verso giusto? Non proprio, non esattamente. E’ vero, la Federal reserve ha appena diffuso un comunicato nel quale si dice che «Le informazioni raccolte indicano che la contrazione dell’economia sta rallentando. I mercati finanziari conoscono un miglioramento e la spesa delle famiglie mostra segni di stabilizzazione», ma, come recita lo stesso comunicato, «Le imprese continuano a tagliare sugli investimenti fissi e sulla manodopera». Secondo gli esperti della Fed, l’economia degli Stati Uniti è dunque in lenta ripresa. Peggio sembrerebbe andare all’Europa, anche se tutte le istituzioni sovranazionali che pubblicano rapporti trimestrali sull’andamento dell’economia - Ocse e Fmi - parlano di ripresa leggermente più rapida del previsto.
Gli analisti, anche quelli delle bibbie del mercato come il FInancial Times, non sono troppo convinti. O meglio, cercano di ricordare e sottolineare che la crisi è stata di quelle dure, frutto del combinato di un modo di organizzare i consumi e i mercati finanziari che non possono più tornare ad essere com’erano. O almeno non dovrebbero.
Martin Wolf, uno dei columnista utorevoli del quotidiano arancione di Londra, tra coloro che hanno segnalato con più insistenza la magnitudo della crisi, ricorda vel suo articolo di mercoledì scorso che, «Dopo la tempesta, la salita sarà lunga». Wolf segnala che molte economie ricche prevedono un eccesso di capacità produttiva per il 2010 mentre i consumatori sembrano non aver nessuna intenzione di riprendere a consumare. «Nel 2007 il settore privato Usa ha speso il 2,4% in più di quanto ha guadagnato. Nel 2009 spenderà il 7,9% in meno di quanto guadagnato - ricorda Wolfe, che aggiunge quanto sia buffo che - il passaggio alla prudenza dei consumatori sia stato tanto invocato in passato quanto poco apprezzato oggi». Ancora per il 2010, dunque, sarà il deficit spending a generare domanda. Con possibili guai a venire per il futuro.
A proposito di deficit, nella sua rubrica settimanale per il New York Times, il premio Nobel per l’economia Paul Krugman, calcola con un ragionamento complicato, che il deficit ha «salvato il mondo» da una nuova Grande depressione. E questa è una bella rivincita contro i fondamentalisti del bilancio in pareggio.
Su Bigmoney.com Daniel Gross, un altro analista tra i più acuti, spiega, citando una serie di istituti di ricerca e indicatori economici che si, la «recessione è finita». Gross sottolinea che i dati che cita vengono da istituti indipendenti che nn dipendono dalle banche e che, in passato, gli stessi istituti hanno saputo prevedere con puntualità recessioni e riprese con largo anticipo. Lo stesso Gross sottolinea che i numeri non fanno l’economia e che, chi pensasse che la ripresa economica significa il ritorno ai bei tempi che furono o a rimbalzi clamorosi, si sbaglia di grosso. «Senza soldi facili e un boom del mercato immobiliare è difficile capire cosa produrrà una crescita occupazionale su larga scala - scrive Gross, concludendo - La recessione è finita! Che la ripresa senza occupazione cominci!».
Da punti di vista diversi, sembrano tutti convergere su un punto: la ripresa sarà lenta e non avrà ricadute immediate sulla vita quotidiana delle persone.
Il più scettico di tutti sembra essere Robert Reich, ex Segretario al Lavoro di Clinton ed economista a Berkeley, uno degli esclusi illustri (con Krugman) dal team di economisti che gravita intorno alla Casa Bianca. Reich vede nel ritorno agli utili delle banche come Goldman Sachs - che nell’ultimo trimestre ha fatto profitti record - sia un rischio di un ritorno al passato. «Il fatto che Goldman sia tornata è un bene per la disastrata economia di New York (...) Ma il modello di business ad alto rischio della banca non è cambiato e il suo successo spingerà altre banche a fare lo stesso». Con l’aggravante che i rischi, Goldman li sta prendendo con i soldi dei contribuenti. Reich è pessimista sulla crescita. Se i modelli economici di ripresa sono a V e a U - rapida quanto il tonfo quella a V, lenta quella a U - Reich sostiene che questo non è nessuno dei due casi. «In una recessione così dura, la ripresa non dipende dagli investitori. Dipende dai consumatori che rappresentano il 70% dell’economia statunitense. Stavolta i consumatori sono davvero sfiniti e fino a quando non ricominceranno a spendere, non ci saranno riprese, né a U, né a V». Secondo Reich, per gli Usa serve un nuovo modello di economia di mercato. In fondo, ognuno con accenti e priorità diverse, anche gli altri sostengono la stessa tesi.

20 giugno 2009

La partita a scacchi di Obama

Il giugno del 2009 è un altro mese memorabile della saga obamiana, nel “primo anno dell’era della responsabilità”. Il richiamo alla responsabilità collettiva e individuale, contro l’avidità senza scrupoli della “solita Washington” e della “solita Wall Street”, è uno dei temi ricorrenti della comunicazione presidenziale: il riferimento era presente nel discorso del Cairo del 4 giugno (rivolto a tutti gli attori coinvolti nella politica mediorientale, e in primo luogo a Israele e Palestina), nel documento che l’altro ieri ha accompagnato la proposta di regolamentazione del sistema bancario americano, lo sarà – con un richiamo diretto al suo popolo – il 27 giugno, giorno della mobilitazione nazionale a favore della riforma del sistema sanitario (fatto più unico che raro, questo presidente sta trasformando il partito democratico in un’organizzazione non solo elettorale attraverso lo strumento di “Organizing for America”).
In questi due giorni si è scatenata l’analisi a proposito di quello che l’amministrazione Usa e molti quotidiani americani hanno definito come “l’intervento di regolazione del sistema finanziario più importante dagli anni ’30 a oggi”. Un’affermazione che risponde a verità, se si considera come da allora il trend sia stato quello della deregolamentazione. Quindi, il primo passaggio è di natura ideologica: nell’assegnare alla Federal Reserve nuovi poteri di controllo sull’attività bancaria - la misura più osteggiata dagli oppositori della riforma – si ristabilisce il criterio del primato della regolamentazione su quello della finanza creativa e deregolamentata. Altrettanto ideologica – e speriamo anche fattuale - la scelta di creare un’agenzia di controllo a difesa del consumatore (la Consumer Financial Protection Agency, CFPA) che avrà poteri normativi in materia di carte di credito e mutui, le grandi fonti di ansia della vita di un cittadino medio. Chi accusa Obama di timidezza e propensione per il compromesso al ribasso ha le sue ragioni: non è stato riportato in vita il famoso Glass Steagall Act del 1933 – abbattuto da Clinton dieci anni fa – che impediva alle banche commerciali di trasformarsi in banche d’investimento e/o assicurazione. La fusione di queste due funzioni è stata una delle cause scatenanti della crisi del 2008 e di quella degli anni ‘20.
Questo piano, ancora una volta, mostra come Obama sia stato allevato nella dura scuola del realismo politico (i natali politici di Chicago hanno lasciato questo imprinting) ma anche a quella del progetto, del grande disegno: da un lato abbiamo una proposta di riforma che rappresenta un compromesso frutto di innumerevoli trattative; dall’altro si manifesta la volontà di ristabilire criteri e modalità di intervento pubblico che riportino lo stato al centro del processo politico, come garante dell’interesse generale. Quello che va compreso è che assistiamo a un’unica, gigantesca, partita di scacchi tra il governo e i grandi settori dell’industria privata, quelli che hanno letteralmente dominato l’agenda politica del paese per trent’anni. Obama vuole, senza alcun timore di fare compromessi anche importanti, riprendere in mano quell’agenda. Le grandi banche d’investimento sostengono il presidente, in cambio di una ristrutturazione del sistema finanziario non troppo pesante (e hanno i loro uomini nell’amministrazione); sono disposte ad aiutarlo, ma sanno che la notte non è passata e sanno che Obama può chiedere molto, come è avvenuto per l’accordo Obama-Fiat: lì il presidente ha imposto alle grandi banche creditrici verso Chrysler di accettare 28 centesimi per ogni dollaro che avrebbero potuto esigere. Perché lo hanno fatto? Perché dipendevano da Obama per la loro sopravvivenza, per via del denaro messogli a disposizione dall’amministrazione.
Cosa accadrà con la riforma sanitaria? Quali leve potrà usare Obama? Anche lì si muoverà con la logica del divide et impera, costruendo un’asse di compromesso con chi ci sta e cercando di schiacciare chi si oppone, come è avvenuto con i fondi pensioni che hanno provato ad avere indietro tutti i soldi investiti nel mondo Chrysler. E’ il grande ritorno della politica, persino nelle sue forme più barocche, come gli ormai celebri inviti alle cene a palazzo rivolti agli oppositori di Obama (comunque ben più sobrie di quelle italiane); ma anche attraverso strumenti tradizionali come la creazione di organizzazioni di massa - il già citato Organizing for America, i cui membri possono premere a livello locale sui Congressmen democratici più riottosi o poco disposti ad appoggiare la proposta di riforma; o persino attraverso la riscoperta della disciplina di partito, visto che il capo dello staff della Casa Bianca – Rahm Emanuel – è espressamente preposto al controllo dell’attività dei membri del Congresso. Il numero dei tavoli sui quali si sta giocando e l’importanza delle partite in corso dà la misura dell’ambizione dell’uomo.

("L'altro", 19.06.09 - Mattia Diletti)

17 giugno 2009

Un convegno sulla crisi iraniana

Ecco una sintesi di alcuni degli interventi al convegno del Centro studi americani di Roma. Tra i presenti: Ephraim Sneh, Già Vice Ministro della Difesa, Renzo Guolo dell'Università di Torino, Nicola Pedde e Nasser Hadian, professore a Teheran di legge e scienze politiche, l'ex ambasciatore a Teheran Toscano, diplomatico di grande esperienza oggi a Delhi. Il professor Hadian ha anche detto cose molto interessanti sulla questione nucleare, magari le useremo un'altra volta.

L'ala militare del regime (i basji), la milizia volontaria che inquadra le masse fin dall'indomani della rivoluzione, pronta a mobilitarsi. L'ala militare è cresciuta nel tempo dopo una fase di debolezza all'interno di un regime nel quale le fazioni esistono, sono forti, rappresentano ceti e interessi e si combattono apertamente.
Nel primo decennio postrivoluzionario, l'ala radicale non clericale ha contato molto, ma dalla morte di Khomeini e durante la ricostruzione del Paese per mano della presidenza Rafsanjani, ha contato poco. Gli assi del regime erano incentrati tra l'alleanza tra religiosi e conservatori pragmatici: l'ala che pensava a una modernizzazione del sistema rivoluzionario, incorporando le milizie rivoluzionarie nelle strutture statuali. Depotenziare questa sorta di poteri paralleli con i comitati da una parte e lo Stato dall'altro. In questo decennio, molto più tecnocratico e liberista che non nel decennio della guerra, con la necessità di questi settori del regime di giunere a una normalizzazione dell'Iran nel sistema delle relazioni internazionali.
I primi passi di Rafsanjani hanno aperto spazi alla spinta riformista, esplosa con l'elezione di Khatami. La coalizione che portò a due presidenze dell'ayatollah era composita: la sinistra islamica, una forte componente di sistema e una parte di giovani e donne che vedevano nel presidente il traghettatore verso un sistema diverso. L'uomo del mutamento moderato, senza implosioni di sistema. La coalizione è implosa perché Khatami non è mai andato allo scontro con la Guida Suprema.
Khamenei, che è soprattutto un politico, uno che sul fronte della filosofia, della dottrina religiosa non è un granché, ha lavorato per recuperare il partito radicale-militare che, una volta tornato al potere non ha accettato un ruolo da sola guardia pretoriana. La mia tesi è che Khamenei non è più solo a decidere. I radicali capeggiati da Ahmadinejad sono penetrati nei gangli del potere ed hanno adottato una politica di spesa pubblica che non è servita a far uscire l'Iran dalla crisi - disoccupazione e inflazione - ma ha redistribuito reddito verso le fasce più deboli in maniera clientelare, creando nuova fedeltà tra i diseredati. Questa è ala base di Ahmadinejad.
L'interrogativo è, quanto Khamenei deve fare i conti con i militari? Il partito radicale non è più emarginabile. Può la Guida Suprema fare a meno dei radicali o, resosi conto dell'errore nell'imbarcare questa fazione può usare la piazza contro i radicali? Attenzione: i basji che sparano sulla folla sono un elemento di rottura simbolica con la rivoluzione. Era successo solo nel 1979 ed erano gli uomini dello Shah che sparavano. Insomma, quanto è Khamenei a condurre il gioco? Sta provando a contrapporre le piazze per riacquistare centralità? Quello che è certo è che l'assetto e la legittimità istituzionale del regime in questi giorni si incrinerà. E che l'Iran non sarà più lo stesso.
Nucleare: le aspettative su Mousavi erano eccessive, anche in caso di vittoria. Come moti riformisti viene dall'ambiente radicale ed ha una forte impronta nazionalista e non avrebbe messo in dubbio il diritto all'energia atomica. Il nodo è come si arriva al nucleare. E' vero pure che gli slogan di Ahmadinejad sono il frutto dell'ambiente che lo esprime - l'ala radicale, appunto - L'Iran come riferimento islamico dell'antimperialismo. Discorso più facile da fare con la presidenza Bush. La sconfessione aperta del discorso di Obama implicherebbe una risposta dura da parte Usa e questo l'ala pragmatica l'ha capito.

Una presidenza Bush avrebbe reso più tollerabile una vittoria di Mousavi: la retorica rivoluzionaria, che non è solo religiosa, ma anche anti-americana e anti-israeliana avrebbe potuto restare la stessa. La domanda difficile da porsi è però relativa al campo riformista: come mai, nonostante molti anni passati al potere e la consapevolezza della presa di Ahmadinejad tra le masse dei diseredati, questi non abbiano a loro volta elaborato una piattaforma populista capace di spostare il voto della parte a ideologica dei ceti più poveri della società.

L'ex viceministro israeliano parla di teocrazia repressiva dalla politica estera aggressiva che non vuole parlare con nessuno. Sneh sostiene che la proposta di dialogo di Obama è tempo perso perché il regime di Teheran e l'amministrazione Obama hanno due idee molto diverse di cosa cavare dal dialogo. L'ex ministro cita il rapporto dell'International crisis group elaborato attraverso settimane di interviste con funzionari iraniani. Da qui si evincerebbe che non c'è nessuna volontà di parlare del nucleare, ma che Teheran vuole un ruolo riconosciuto e la fine di qualsiasi tentativo di rovesciare il regime da parte americana. La verità è che il politico israeliano sembra non cogliere la portata del tentativo di Obama che vuole in realtà parlare di molti altri temi oltre al nucleare. Metterlo quasi da parte, depotenziarlo per poter discutere di Iraq, Afghanistan, Pakistan e commercio dell'oppio. Questa è una delle sottolineature di Hadian, cme naturale più abbottonato degli altri.





11 giugno 2009

La sottile linea verde: il dialogo e le elezioni in Iran

Se il presidente siriano Assad sembra aver deciso che in fondo gli conviene rimettersi in gioco, a Teheran la partita è molto più complicata. Innanzitutto dalla lunga campagna elettorale e dai proclami che durante questa sono stati usati dal candidato alla rielezone, il presidente Ahmadinejad. L’ala dura del regime iraniano ha etichettato le aperture di Washington come propaganda: il leader supremo, l’ayatollah Khamenei, ha ricordato che «l’odio che gli iraniani sentono per gli Stati Uniti è profondo» mentre un articolo comparso sul settimanale delle Guardie della rivoluzione, Sobh-e Sadeq, spiegava che, al Cairo, Obama non ha fatto che ribadire vecchi concetti mentre gli Usa continuano a finanziare organizzazioni che vogliono distruggere la Repubblica islamica. Non esattamente aperture.
Eppure diverse agenzie di stampa iraniane (Irna, Isna, Fars) riportano dichiarazioni di figure non secondarie che spiegano che il dialogo non è tabù. Tanto più che un sondaggio pubblicato di recente indica che le priorità degli iraniani sono l’economia, elezioni e stampa libere e migliori relazioni con l’Occidente. Il sondaggio, condotto a maggio, indica Ahmadinejad come favorito di poco e, con il 70 per cento dei consensi, vede le persone interrogate favorire la rinuncia all’arma nucleare in cambio di buone relazioni con gli Usa.
Il terreno sarebbe quindi fertile. Tanto più che Washington e Teheran condividono diverse preoccupazioni a cominciare dalla situazione afghana. Le tensioni crescenti tra Teheran e i Paesi arabi preoccupati per il peso crescente degli sciiti favoriscono in qualche modo il dialogo.
Il primo grande problema che gli americani hanno è capire davvero chi parlare. I centri di potere della Repubblica islamica sono molti e spesso in conflitto tra loro. Lo si è capito un poco durante il regno di Ahmadinejad - con segnali non univoci sulla disponibilità a trattare sul programma nucleare - e lo si è capito benissimo negli anni del riformista Khatami, che perse la sua battaglia politica anche e a causa della quantità di freni e poteri di veto da parte di autorità religiose e istituzionali varie. L’esito delle presidenziali non basterà a spianare la strada al dialogo anche se dovesse vincere Moussavi. E poi, come ha scritto
Mohamed El Baradei, ex capo dell’Aiea che ha tribolato per anni attorno al programma atomico di Teheran, «gli iraniani sono dei bravissimi baazaris (commercianti di baazar, ndr.)» e aspetteranno di capire quel’è il risultato della revisione della politica Usa prima di scoprirsi. E’ un problema che Obama, Clinton e gli altri avranno anche in altri Paesi con i quali vogliono aprire il dialogo.
Il nodo più grande e complicato è però un altro. L’Iran vuole vedersi riconosciuto un ruolo da potenza regionale. E soprattutto, praticamente tutta la classe politica nata con la rivoluzione del ’79 ha come preoccupazione quella di mantenere in vita la Repubblica islamica. Dialogare con Teheran, per gli americani, significa riconoscere questo punto di partenza. Gli ayatollah non vogliono giocare una partita a scacchi sul programa nucleare - per quello hanno rifiutato le proposte europee di aiuti in cambio di rinuncia - ma essere rassicurati sul fatto che il dialogo non sarà la loro fine. Hanno molte armi da giocarsi per convincere gli americani: possono premere sui diversi compagni d’affari europei che hanno (Italia, Francia, Russia), chiudere o meno i rubinetti ad Hezbollah, alimentare il disordine iracheno e altro ancora. Dal dialogo, Teheran ha da guadagnare sul fronte economico e del prestigio regionale. Usa e Iran, insomma, hanno molto da scambiarsi. Ma come a Teheran, anche a Washington c’è chi proprio non vuole discutere: ieri l’ex ambasciatore neocon all’Onu Bolton scriveva sul Wall street Journal che se Israele colpisse le centrali nucleari iraniane non ci sarebbe nulla da temere. Quando si dice gli opposti estremismi.

La sanità di Obama

I progetti oggi in discussione convergono su alcuni punti:
- l’assicurazione sanitaria diventa obbligatoria, come da noi quella per le automobili
- lo Stato fornisce sussidi per permettere a tutti di pagare la polizza
- viene istituito un mercato aperto (insurance exchange, borsa assicurativa) dove comprare polizze al di fuori dei grandi gruppi
- viene esteso Medicaid per i poveri e in alcune versioni del progetto si protrae la copertura per i bambini fino a 26 anni
- viene cambiamento il sistema di remunerazione dei soggetti del sistema per incoraggiare la qualità

I punti ancora da discutere invece sono:
- l’esistenza di una polizza pubblica, da affiancare al Medicare e tendenzialmente offerta a tutti. Servirebbe per abbassare le remunerazioni dei soggetti erogatori delle prestazioni. Un’idea è quella che paghi il 110% della tariffa pagata da Medicare, così da non scontentare troppo questi soggetti ed incoraggiare comunque la qualità. La polizza pubblica, nei piani del professor Reinhardt di Princeton, userebbe il suo potere contrattuale per selezionare i migliori soggetti del mercato, orientandolo verso un “prodotto” più di qualità.
- la proporzione tra i premi degli anziani e quelli dei più giovani. Oggi ovviamente le stesse prestazioni comportano premi molto più bassi via via che scende l’età del beneficiario. L’ipotesi allo studio prevede una proporzione di 1 a 2 o di 1 a 5.
- il tetto ai profitti delle assicurazioni che sarebbero obbligate a spendere una parte definita delle proprie entrate per la cura dei pazienti. In altri termini non potrebbero avere un ricarico illimitato sulle prestazioni.

Ecco quindi come si combinerebbero i due obiettivi e cioè l'estensione della copertura e la riduzione dei costi: la polizza pubblica farebbe da calmiere e selezionatore dei soggetti. Si eliminerebbe poi un altro fattore di crescita della spesa, spiegato dalla lobby pro-riforma Families USA che lo chiama il “costo nascosto” dell’attuale sistema: ogni anno 86 milioni di americani rimangono per un qualche periodo senza assicurazione – è fornita dal datore di lavoro ma si cambia lavoro spesso – e quindi rimandano le cure al momento in cui potranno pagarle. Questo provoca un aggravamento delle loro condizioni e quando effettivamente si curano “costano” di più. Non sempre riescono a pagare tutto: in media pagano il 37%, un altro 26% è coperto da programmi statali o beneficenza, il resto viene coperto con l’aumento dei premi per chi è assicurato. Il costo di questa distorsione del sistema, secondo la lobby, è di 368 dollari l’anno per le polizze individuali e 1.017 dollari l’anno per quelle familiari.

Su tutto gravano le previsioni del Congressional Budget Office che sostiene che nel 2017 le casse di Medicare saranno vuote, urge quindi una riforma in un senso o nell'altro. Obama ha senza dubbio dei punti di forza: trattandosi di una riforma incombente, chi la teme fa meglio a sedersi al tavolo a discutere piuttosto che contrastarla a muso duro rischiando di perdere del tutto la partita. Inoltre diversamente da Clinton e dalle proposte di riforma precedenti sta portando avanti una strategia molto più inattaccabile mentre si assicura la sostanziale fedeltà dei democratici in Congresso. E’ un democratico nuovo anche in questa circostanza. Anziché usare come slogan “ una sanità per tutti”, e fare discorsi ideologici Obama pone la questione in altri termini. Il cambiamento che propone viene presentato come necessario e in un certo senso indispensabile, come se dicesse "l’attuale sistema costa troppo, usiamone uno che costa meno migliorando i modelli attualmente esistenti”. Nel suo piano l’assicurazione pubblica sembrerebbe non sostituirsi al mercato, ma semplicemente fare il suo ingresso per abbattere i costi e ridurre le prestazioni improprie.
Un altro fattore che preoccupa per il raggiungimento dell’obiettivo ha però a che fare con l’arretrato di domanda repressa di cure sanitarie. Si tratta della domanda di 44 milioni di persone che il varo della riforma farebbe esplodere ( infatti verrebbero abbattute le barriere economiche all’accesso) e questo, ancor prima del raggiungimento di un equilibrio, potrebbe far esplodere la spesa sanitaria del paese.

7 giugno 2009

Caldiron intervista Roy sul Cairo

Guido Caldiron
Olivier Roy è considerato uno dei più grandi esperti mondiali di geopolitica islamica. Direttore di ricerca al Cnrs di Parigi, insegna all'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales e all'Institut d'Etudes Politiques. Trai suoi libri, tradotti nel nostro paese, ricordiamo Global Muslim (Feltrinelli, 2003), L'impero assente (Carocci, 2004), L'Islam alla sfida della laicità (Marsilio, 2008).
Professor Roy, che impressione le ha fatto il discorso di Obama al Cairo?
Quello di Obama è stato un discorso "fondatore", nel senso che ha fatto il punto su tutti gli aspetti della relazione tra gli Stati Uniti e i musulmani, annunciando profonde modifiche rispetto a quanto visto fin qui. Credo però che più che le cose concrete dette dal Presidente americano, conti il tono del suo intervento. Obama ha parlato chiaramente, spiegando come la politica del suo paese su questi temi sia cambiata. Questo è il primo elemento segnalato dal discorso del Cairo.

Obama ha scelto con attenzione parole e riferimenti, il suo intervento si segnala per un nuovo vocabolario delle relazioni con l'Islam, "Voglio una Gerusalemme dove tutti i figli di Abramo si mescolino in pace" ha detto tra le altre cose. Un linguaggio che poptrà avere qualche effetto su chi l'ha ascoltato?
Senza dubbio. Obama ha giocato molto bene sia la carta emotiva, arriverei a dire affettiva, che quella razionale e realista. Voglio dire che non si tratta solo di un discorso che evoca grandi principi ma poi elude le difficoltà concrete che si incontrano nel tentare di tradurli nella realtà. Al contrario, Obama ha affrontato tutti gli aspetti quella questione, senza reticenza. E credo che le reazioni positive che stanno già arrivando da molti settori della politica musulmana e dai diversi paesi arabi, confermino questa lettura. Del resto, alla base del suo discorso c'è l'idea di un rispetto reciproco, non un rispetto generico tra diversi, ma una sorta di impegno verso un'evoluzione positiva delle varie situazioni prese in esame. Obama ha detto ai musulmani che è proprio perché vi rispettiamo che vi chiediamo passi concreti sulla democrazia, i diritti dell'uomo, la libertà individuale, la violenza e via dicendo.

Alla vigilia del discorso, tutti gli osservatori erano certi che Obama avrebbe parlato della Palestina o dell'Iraq, mentre era molto meno scontato che avrebbe posto anche delle domande scomode a chi lo ospitava: quell'Egitto di Mubarak che, come molti altri paesi "moderati", non brilla certo nel rispetto della democrazia. La sfida lanciata potrà avere risposte concrete?
Obama non avrebbe potuto non fare riferimento a questi temi che fanno parte in qualche modo dell'agenda politica o della comunicazione internazionale. Ciò detto, credo che un elemento di debolezza del suo intervento sia rappresentato dal modo in cui si è rivolto agli islamisti. E' vero che ha parlato della democrazia e del fatto che molti si limitano a reclamare diritti quanto non hanno potere e poi se ne scordano una volta alla guida di un paese, ma mi è sembrato debole su questo punto. Ha citato Hamas ma non ha fatto parola, almeno in modo esplicito, ai Fratelli Musulmani. Eppure, insieme alla carenza di democrazia dei regimi al potere, la minaccia alla democrazia rappresentata dall'Islam politico radicale rappresenta il cuore del problema.

Lei ha spiegato in tutte le sue opere che una sola "Umma", comunità, musulmana globale esiste solo nelle menti dei leader politici o religiosi, non nella realtà. Da questo punto di vista, a quale Islam ha parlato davvero il Presidente americano: ai sette milioni di musulmani che vivono negli Usa, alle nuove generazioni del mondo arabo o a chi altro?
In effetti credo che parli, per così dire, a molti Islam differenti. Da notare che Obama non ha usato una sola volta il termine di "muslim world" preferendo invece parlare "ai musulmani che sono nel mondo". Quando parla al passato fa ancora riferimento all'Islam come a una civiltà, c'è quella islamica e c'è quella occidentale con i loro scambi reciproci. Quando invece parla al presente si rivolge a dei soggetti concreti, insiste sui musulmani degli Usa, per ribadire che sono a tutti gli effetti americani. Mette l'accento sul fatto che si tratta di tante cose diverse, di cittadini di paesi tra loro molto diversi e non di una sola identità "totalizzante". Perciò Obama si muove sulla buona strada ma ancora con qualche incertezza.

In relazione a uno dei temi più caldi dell'agenda internazionale, quello del conflitto in atto in Pakistan e Afghanistam, Obama ha detto cose concrete: costruiremo ospedali e scuole per combattere il fondamentalismo. Un'attitudine nuova da parte degli Usa?
Fin qui siamo agli annunci, vedremo quante di queste cose si trasformeranno in atti concreti. In realtà Obama aveva annunciato questi passi già nella sua campagna elettorale, ma fino a questo momento si è visto ancora ben poco. Sulle situazioni di crisi più acute, Iraq, Afghanistan, Pakistan, lo stesso conflitto in Palestina, Obama aveva già detto le stesse cose, ora serve tradurle nella realtà. Quel che è certo è che il Presidente americano si rende conto che l'opzione militare può, da sola, risolvere ben poco di tutti questi conflitti.

Dopo dieci anni di politica americana all'insegna dello "scontro di civiltà", con Obama si è aperto un altro capitolo nelle relazioni internazionali. Ma potrà l'America che ha fino ad ora incarnato l'idea dell'esportazione manu militari della democrazia, sostenere la battaglia per la democratizzazione e la libertà nei paesi musulmani? Su questo tema Obama ha affermato due principi. Da un lato che non si può esportare la democrazia, dall'altro che la democrazia stessa deve radicarsi nelle culture locali. Perciò ha già rimpiazzato il "clash" tra civiltà caro a George W. Bush con l'idea del dialogo e con la constatazione che i musulmani si muovono oggi in molti contesti politici e sociali, tutt'altro che omogenei. In definitiva lascia aperta ogni possibilità rispetto al ruolo che potranno avere gli Usa nel processo di democratizzazione dei paesi musulmani.

Il discorso di Obama

Sono onorato di trovarmi qui al Cairo, in questa città eterna, e di essere ospite di due importantissime istituzioni. Da oltre mille anni Al-Azhar rappresenta il faro della cultura islamica e da oltre un secolo l'Università del Cairo è la culla del progresso dell'Egitto. Insieme, queste due istituzioni rappresentano il connubio di tradizione e progresso.
Sono grato di questa ospitalità e dell'accoglienza che il popolo egiziano mi ha riservato. Sono altresì orgoglioso di portare con me in questo viaggio le buone intenzioni del popolo americano, e di portarvi il saluto di pace delle comunità musulmane del mio Paese: salaam alaykum.
Ci incontriamo qui in un periodo di forte tensione tra gli Stati Uniti e i musulmani in tutto il mondo, tensione che ha le sue radici nelle forze storiche che prescindono da qualsiasi attuale dibattito politico. Il rapporto tra Islam e Occidente ha alle spalle secoli di coesistenza e cooperazione, ma anche di conflitto e di guerre di religione. In tempi più recenti, questa tensione è stata alimentata dal colonialismo, che ha negato diritti e opportunità a molti musulmani, e da una Guerra Fredda nella quale i Paesi a maggioranza musulmana troppo spesso sono stati trattati come Paesi che agivano per procura, senza tener conto delle
loro legittime aspirazioni. Oltretutto, i cambiamenti radicali prodotti dal processo di modernizzazione e dalla globalizzazione hanno indotto molti musulmani a considerare l'Occidente ostile nei confronti delle tradizioni dell'Islam.
Violenti estremisti hanno saputo sfruttare queste tensioni in una minoranza, esigua ma forte, di
musulmani. Gli attentati dell'11 settembre 2001 e gli sforzi continui di questi estremisti volti a perpetrare atti di violenza contro civili inermi ha di conseguenza indotto alcune persone nel mio Paese a considerare l'Islam come inevitabilmente ostile non soltanto nei confronti dell'America e dei Paesi occidentali in genere, ma anche dei diritti umani. Tutto ciò ha comportato maggiori paure, maggiori diffidenze.
Fino a quando i nostri rapporti saranno definiti dalle nostre differenze, daremo maggior potere a coloro che perseguono l'odio invece della pace, coloro che si adoperano per lo scontro invece che per la collaborazione che potrebbe aiutare tutti i nostri popoli a ottenere giustizia e a raggiungere il benessere.
Adesso occorre porre fine a questo circolo vizioso di sospetti e discordia.
Io sono qui oggi per cercare di dare il via a un nuovo inizio tra gli Stati Uniti e i musulmani di tutto il mondo; l'inizio di un rapporto che si basi sull'interesse reciproco e sul mutuo rispetto; un rapporto che si basi su una verità precisa, ovvero che America e Islam non si escludono a vicenda, non devono necessariamente essere in competizione tra loro. Al contrario, America e Islam si sovrappongono, condividono medesimi principi e ideali, il senso di giustizia e di progresso, la tolleranza e la dignità dell'uomo.
Sono qui consapevole che questo cambiamento non potrà avvenire nell'arco di una sola notte. Nessun discorso o proclama potrà mai sradicare completamente una diffidenza pluriennale. Né io sarò in grado, nel tempo che ho a disposizione, di porre rimedio e dare soluzione a tutte le complesse questioni che ci hanno condotti a questo punto. Sono però convinto che per poter andare avanti dobbiamo dire apertamente ciò che abbiamo nel cuore, e che troppo spesso viene detto soltanto a porte chiuse. Dobbiamo promuovere uno sforzo sostenuto nel tempo per ascoltarci, per imparare l'uno dall'altro, per rispettarci, per cercare un terreno comune di intesa. Il Sacro Corano dice: "Siate consapevoli di Dio e dite sempre la verità". Questo è
quanto cercherò di fare: dire la verità nel miglior modo possibile, con un atteggiamento umile per l'importante compito che devo affrontare, fermamente convinto che gli interessi che condividiamo in quanto appartenenti a un unico genere umano siano molto più potenti ed efficaci delle forze che ci allontanano in direzioni opposte.
In parte le mie convinzioni si basano sulla mia stessa esperienza: sono cristiano, ma mio padre era originario di una famiglia del Kenya della quale hanno fatto parte generazioni intere di musulmani. Da bambino ho trascorso svariati anni in Indonesia, e ascoltavo al sorgere del Sole e al calare delle tenebre la chiamata dell'azaan. Quando ero ragazzo, ho prestato servizio nelle comunità di Chicago presso le quali molti trovavano dignità e pace nella loro fede musulmana.
Ho studiato Storia e ho imparato quanto la civiltà sia debitrice nei confronti dell'Islam. Fu l'Islam infatti - in istituzioni come l'Università Al-Azhar - a tenere alta la fiaccola del sapere per molti secoli, preparando la strada al Rinascimento europeo e all'Illuminismo. Fu l'innovazione presso le comunità musulmane a sviluppare scienze come l'algebra, a inventare la bussola magnetica, vari strumenti per la navigazione; a far progredire la maestria nello scrivere e nella stampa; la nostra comprensione di come si diffondono le malattie e come è possibile curarle. La cultura islamica ci ha regalato maestosi archi e cuspidi elevate;
poesia immortale e musica eccelsa; calligrafia elegante e luoghi di meditazione pacifica. Per tutto il corso della sua Storia, l'Islam ha dimostrato con le parole e le azioni la possibilità di praticare la tolleranza religiosa e l'eguaglianza tra le razze.
So anche che l'Islam ha avuto una parte importante nella Storia americana. La prima nazione a riconoscere il mio Paese è stato il Marocco. Firmando il Trattato di Tripoli nel 1796, il nostro secondo presidente, John Adams, scrisse: "Gli Stati Uniti non hanno a priori alcun motivo di inimicizia nei confronti delle leggi, della religione o dell'ordine dei musulmani". Sin dalla fondazione degli Stati Uniti, i musulmani americani hanno arricchito il mio Paese: hanno combattuto nelle nostre guerre, hanno prestato servizio al governo, si sono battuti per i diritti civili, hanno avviato aziende e attività, hanno insegnato nelle nostre università, hanno
eccelso in molteplici sport, hanno vinto premi Nobel, hanno costruito i nostri edifici più alti e acceso la Torcia Olimpica. E quando di recente il primo musulmano americano è stato eletto come rappresentante al Congresso degli Stati Uniti, egli ha giurato di difendere la nostra Costituzione utilizzando lo stesso Sacro Corano che uno dei nostri Padri Fondatori - Thomas Jefferson - custodiva nella sua biblioteca personale.
Ho pertanto conosciuto l'Islam in tre continenti, prima di venire in questa regione nella quale esso fu rivelato agli uomini per la prima volta. Questa esperienza illumina e guida la mia convinzione che una partnership tra America e Islam debba basarsi su ciò che l'Islam è, non su ciò che non è. Ritengo che rientri negli obblighi e nelle mie responsabilità di presidente degli Stati Uniti lottare contro qualsiasi stereotipo negativo dell'Islam, ovunque esso possa affiorare.
Ma questo medesimo principio deve applicarsi alla percezione dell'America da parte dei musulmani.
Proprio come i musulmani non ricadono in un approssimativo e grossolano stereotipo, così l'America non corrisponde a quell'approssimativo e grossolano stereotipo di un impero interessato al suo solo tornaconto. Gli Stati Uniti sono stati una delle più importanti culle del progresso che il mondo abbia mai conosciuto.
Sono nati dalla rivoluzione contro un impero. Sono stati fondati sull'ideale che tutti gli esseri umani nascono uguali e per dare significato a queste parole essi hanno versato sangue e lottato per secoli, fuori dai loro confini, in ogni parte del mondo. Sono stati plasmati da ogni cultura, proveniente da ogni remoto angolo della Terra, e si ispirano a un unico ideale: E pluribus unum. "Da molti, uno solo".
Si sono dette molte cose e si è speculato alquanto sul fatto che un afro-americano di nome Barack Hussein Obama potesse essere eletto presidente, ma la mia storia personale non è così unica come sembra. Il sogno della realizzazione personale non si è concretizzato per tutti in America, ma quel sogno, quella promessa, è tuttora valido per chiunque approdi alle nostre sponde, e ciò vale anche per quasi sette milioni di
musulmani americani che oggi nel nostro Paese godono di istruzione e stipendi più alti della media.
E ancora: la libertà in America è tutt'uno con la libertà di professare la propria religione. Ecco perché in ogni Stato americano c'è almeno una moschea, e complessivamente se ne contano oltre 1.200 all'interno dei
nostri confini. Ecco perché il governo degli Stati Uniti si è rivolto ai tribunali per tutelare il diritto delle donne e delle giovani ragazze a indossare l'hijab e a punire coloro che vorrebbero impedirglielo.
Non c'è dubbio alcuno, pertanto: l'Islam è parte integrante dell'America. E io credo che l'America custodisca al proprio interno la verità che, indipendentemente da razza, religione, posizione sociale nella propria vita, tutti noi condividiamo aspirazioni comuni, come quella di vivere in pace e sicurezza, quella di volerci istruire e avere un lavoro dignitoso, quella di amare le nostre famiglie, le nostre comunità e il nostro Dio. Queste sono le cose che abbiamo in comune. Queste sono le speranze e le ambizioni di tutto il genere umano.
Naturalmente, riconoscere la nostra comune appartenenza a un unico genere umano è soltanto l'inizio del nostro compito: le parole da sole non possono dare risposte concrete ai bisogni dei nostri popoli. Questi bisogni potranno essere soddisfatti soltanto se negli anni a venire sapremo agire con audacia, se capiremo che le sfide che dovremo affrontare sono le medesime e che se falliremo e non riusciremo ad avere la meglio su di esse ne subiremo tutti le conseguenze.
Abbiamo infatti appreso di recente che quando un sistema finanziario si indebolisce in un Paese, è la prosperità di tutti a patirne. Quando una nuova malattia infetta un essere umano, tutti sono a rischio.
Quando una nazione vuole dotarsi di un'arma nucleare, il rischio di attacchi nucleari aumenta per tutte le nazioni. Quando violenti estremisti operano in una remota zona di montagna, i popoli sono a rischio anche al di là degli oceani. E quando innocenti inermi sono massacrati in Bosnia e in Darfur, è la coscienza di tutti a uscirne macchiata e infangata. Ecco che cosa significa nel XXI secolo abitare uno stesso pianeta: questa è la responsabilità che ciascuno di noi ha in quanto essere umano.
Si tratta sicuramente di una responsabilità ardua di cui farsi carico. La Storia umana è spesso stata un susseguirsi di nazioni e di tribù che si assoggettavano l'una all'altra per servire i loro interessi. Nondimeno, in questa nuova epoca, un simile atteggiamento sarebbe autodistruttivo. Considerato quanto siamo interdipendenti gli uni dagli altri, qualsiasi ordine mondiale che dovesse elevare una nazione o un gruppo di individui al di sopra degli altri sarebbe inevitabilmente destinato all'insuccesso.
Indipendentemente da tutto ciò che pensiamo del passato, non dobbiamo esserne prigionieri. I nostri problemi devono essere affrontati collaborando, diventando partner, condividendo tutti insieme il progresso.
Ciò non significa che dovremmo ignorare i motivi di tensione. Significa anzi esattamente il contrario: dobbiamo far fronte a queste tensioni senza indugio e con determinazione. Ed è quindi con questo spirito che vi chiedo di potervi parlare quanto più chiaramente e semplicemente mi sarà possibile di alcune questioni particolari che credo fermamente che dovremo in definitiva affrontare insieme.
Il primo problema che dobbiamo affrontare insieme è la violenza estremista in tutte le sue forme. Ad Ankara ho detto chiaramente che l'America non è - e non sarà mai - in guerra con l'Islam. In ogni caso, però, noi non daremo mai tregua agli estremisti violenti che costituiscono una grave minaccia per la nostra sicurezza. E questo perché anche noi disapproviamo ciò che le persone di tutte le confessioni religiose disapprovano: l'uccisione di uomini, donne e bambini innocenti. Il mio primo dovere in quanto presidente è quello di proteggere il popolo americano.
La situazione in Afghanistan dimostra quali siano gli obiettivi dell'America, e la nostra necessità di lavorare
insieme. Oltre sette anni fa gli Stati Uniti dettero la caccia ad Al Qaeda e ai Taliban con un vasto sostegno internazionale. Non andammo per scelta, ma per necessità. Sono consapevole che alcuni mettono in dubbio o giustificano gli eventi dell'11 settembre. Cerchiamo però di essere chiari: quel giorno Al Qaeda uccise circa 3.000 persone. Le vittime furono uomini, donne, bambini innocenti, americani e di molte altre nazioni, che non avevano commesso nulla di male nei confronti di nessuno. Eppure Al Qaeda scelse deliberatamente di massacrare quelle persone, rivendicando gli attentati, e ancora adesso proclama la propria intenzione di continuare a perpetrare stragi di massa. Al Qaeda ha affiliati in molti Paesi e sta cercando di espandere il proprio raggio di azione. Queste non sono opinioni sulle quali polemizzare: sono dati di fatto da affrontare concretamente.
Non lasciatevi trarre in errore: noi non vogliamo che le nostre truppe restino in Afghanistan. Non abbiamo intenzione di impiantarvi basi militari stabili. È lacerante per l'America continuare a perdere giovani uomini e giovani donne. Portare avanti quel conflitto è difficile, oneroso e politicamente arduo. Saremmo ben lieti di riportare a casa anche l'ultimo dei nostri soldati se solo potessimo essere fiduciosi che in Afghanistan e in
Pakistan non ci sono estremisti violenti che si prefiggono di massacrare quanti più americani possibile. Ma non è ancora così. Questo è il motivo per cui siamo parte di una coalizione di 46 Paesi. Malgrado le spese e gli oneri che ciò comporta, l'impegno dell'America non è mai venuto e mai verrà meno. In realtà, nessuno di noi dovrebbe tollerare questi estremisti: essi hanno colpito e ucciso in molti Paesi. Hanno assassinato persone di ogni fede religiosa. Più di altri, hanno massacrato musulmani. Le loro azioni sono inconciliabili con i diritti umani, il progresso delle nazioni, l'Islam stesso.
Il Sacro Corano predica che chiunque uccida un innocente è come se uccidesse tutto il genere umano. E chiunque salva un solo individuo, in realtà salva tutto il genere umano. La fede profonda di oltre un miliardo di persone è infinitamente più forte del miserabile odio che nutrono alcuni. L'Islam non è parte del problema nella lotta all'estremismo violento: è anzi una parte importante nella promozione della pace.
Sappiamo anche che la sola potenza militare non risolverà i problemi in Afghanistan e in Pakistan: per questo motivo stiamo pianificando di investire fino a 1,5 miliardi di dollari l'anno per i prossimi cinque anni per aiutare i pachistani a costruire scuole e ospedali, strade e aziende, e centinaia di milioni di dollari per aiutare gli sfollati. Per questo stesso motivo stiamo per offrire 2,8 miliardi di dollari agli afgani per fare altrettanto, affinché sviluppino la loro economia e assicurino i servizi di base dai quali dipende la popolazione.
Permettetemi ora di affrontare la questione dell'Iraq: a differenza di quella in Afghanistan, la guerra in Iraq è stata voluta, ed è una scelta che ha provocato molti forti dissidi nel mio Paese e in tutto il mondo. Anche se sono convinto che in definitiva il popolo iracheno oggi viva molto meglio senza la tirannia di Saddam Hussein, credo anche che quanto accaduto in Iraq sia servito all'America per comprendere meglio l'uso delle risorse diplomatiche e l'utilità di un consenso internazionale per risolvere, ogniqualvolta ciò sia possibile, i nostri problemi. A questo proposito potrei citare le parole di Thomas Jefferson che disse: "Io auspico che la nostra saggezza cresca in misura proporzionale alla nostra potenza e ci insegni che quanto meno faremo ricorso alla potenza tanto più saggi saremo".
Oggi l'America ha una duplice responsabilità: aiutare l'Iraq a plasmare un miglior futuro per se stesso e lasciare l'Iraq agli iracheni. Ho già detto chiaramente al popolo iracheno che l'America non intende avere alcuna base sul territorio iracheno, e non ha alcuna pretesa o rivendicazione sul suo territorio o sulle sue risorse. La sovranità dell'Iraq è esclusivamente sua. Per questo ho dato ordine alle nostre brigate combattenti di ritirarsi entro il prossimo mese di agosto. Noi onoreremo la nostra promessa e l'accordo preso con il governo iracheno democraticamente eletto di ritirare il contingente combattente dalle città irachene entro luglio e tutti i nostri uomini dall'Iraq entro il 2012. Aiuteremo l'Iraq ad addestrare gli uomini delle sue Forze di Sicurezza, e a sviluppare la sua economia. Ma daremo sostegno a un Iraq sicuro e unitoda partner, non da dominatori.
E infine, proprio come l'America non può tollerare in alcun modo la violenza perpetrata dagli estremisti, essa non può in alcun modo abiurare ai propri principi. L'11 settembre è stato un trauma immenso per il nostro Paese. La paura e la rabbia che quegli attentati hanno scatenato sono state comprensibili, ma in alcuni casi ci hanno spinto ad agire in modo contrario ai nostri stessi ideali. Ci stiamo adoperando concretamente per cambiare linea d'azione. Ho personalmente proibito in modo inequivocabile il ricorso alla tortura da parte degli Stati Uniti, ho dato l'ordine che il carcere di Guantánamo Bay sia chiuso entro i primi mesi dell'anno venturo.
L'America, in definitiva, si difenderà rispettando la sovranità altrui e la legalità delle altre nazioni. Lo farà in partenariato con le comunità musulmane, anch'esse minacciate. Quanto prima gli estremisti saranno isolati e si sentiranno respinti dalle comunità musulmane, tanto prima saremo tutti più al sicuro.
La seconda più importante causa di tensione della quale dobbiamo discutere è la situazione tra israeliani, palestinesi e mondo arabo. Sono ben noti i solidi rapporti che legano Israele e Stati Uniti. Si tratta di un vincolo infrangibile, che ha radici in legami culturali che risalgono indietro nel tempo, nel riconoscimento che l'aspirazione a una patria ebraica è legittimo e ha anch'esso radici in una storia tragica, innegabile.
Nel mondo il popolo ebraico è stato perseguitato per secoli e l'antisemitismo in Europa è culminato nell'Olocausto, uno sterminio senza precedenti. Domani mi recherò a Buchenwald, uno dei molti campi nei quali gli ebrei furono resi schiavi, torturati, uccisi a colpi di arma da fuoco o con il gas dal Terzo Reich. Sei milioni di ebrei furono così massacrati, un numero superiore all'intera popolazione odierna di Israele.
Confutare questa realtà è immotivato, da ignoranti, alimenta l'odio. Minacciare Israele di distruzione - o ripetere vili stereotipi sugli ebrei - è profondamente sbagliato, e serve soltanto a evocare nella mente degli israeliani il ricordo più doloroso della loro Storia, precludendo la pace che il popolo di quella regione merita.
D'altra parte è innegabile che il popolo palestinese - formato da cristiani e musulmani - ha sofferto anch'esso nel tentativo di avere una propria patria. Da oltre 60 anni affronta tutto ciò che di doloroso è connesso all'essere sfollati. Molti vivono nell'attesa, nei campi profughi della Cisgiordania, di Gaza, dei Paesi vicini, aspettando una vita fatta di pace e sicurezza che non hanno mai potuto assaporare finora. Giorno dopo giorno i palestinesi affrontano umiliazioni piccole e grandi che sempre si accompagnano all'occupazione di un territorio. Sia dunque chiara una cosa: la situazione per il popolo palestinese è insostenibile. L'America non volterà le spalle alla legittima aspirazione del popolo palestinese alla dignità, alle pari opportunità, a uno Stato proprio.
Da decenni tutto è fermo, in uno stallo senza soluzione: due popoli con legittime aspirazioni, ciascuno con una storia dolorosa alle spalle che rende il compromesso quanto mai difficile da raggiungere. È facile puntare il dito: è facile per i palestinesi addossare alla fondazione di Israele la colpa del loro essere profughi. È facile per gli israeliani addossare la colpa alla costante ostilità e agli attentati che hanno costellato tutta la loro storia all'interno dei confini e oltre. Ma se noi insisteremo a voler considerare questo conflitto da una parte piuttosto che dall'altra, rimarremo ciechi e non riusciremo a vedere la verità: l'unica soluzione possibile per le aspirazioni di entrambe le parti è quella dei due Stati, dove israeliani e palestinesi possano vivere in pace e in sicurezza.
Questa soluzione è nell'interesse di Israele, nell'interesse della Palestina, nell'interesse dell'America e nell'interesse del mondo intero. È a ciò che io alludo espressamente quando dico di voler perseguire personalmente questo risultato con tutta la pazienza e l'impegno che questo importante obiettivo richiede.
Gli obblighi per le parti che hanno sottoscritto la Road Map sono chiari e inequivocabili. Per arrivare alla pace, è necessario ed è ora che loro - e noi tutti con loro - facciamo finalmente fronte alle rispettive responsabilità.
I palestinesi devono abbandonare la violenza. Resistere con la violenza e le stragi è sbagliato e non porta ad alcun risultato. Per secoli i neri in America hanno subito i colpi di frusta, quando erano schiavi, e hanno patito l'umiliazione della segregazione. Ma non è stata certo la violenza a far loro ottenere pieni ed eguali diritti come il resto della popolazione: è stata la pacifica e determinata insistenza sugli ideali al cuore della fondazione dell'America. La stessa cosa vale per altri popoli, dal Sudafrica all'Asia meridionale, dall'Europa dell'Est all'Indonesia. Questa storia ha un'unica semplice verità di fondo: la violenza è una strada senza vie di uscita. Tirare razzi a bambini addormentati o far saltare in aria anziane donne a bordo di un autobus non
è segno di coraggio né di forza. Non è in questo modo che si afferma l'autorità morale: questo è il modo col quale l'autorità morale al contrario cede e capitola definitivamente.
È giunto il momento per i palestinesi di concentrarsi su quello che possono costruire. L'Autorità Palestinese deve sviluppare la capacità di governare, con istituzioni che siano effettivamente al servizio delle necessità della sua gente. Hamas gode di sostegno tra alcuni palestinesi, ma ha anche delle responsabilità. Per rivestire un ruolo determinante nelle aspirazioni dei palestinesi, per unire il popolo palestinese, Hamas deve porre fine alla violenza, deve riconoscere gli accordi intercorsi, deve riconoscere il diritto di Israele a esistere.
Allo stesso tempo, gli israeliani devono riconoscere che proprio come il diritto a esistere di Israele non può essere in alcun modo messo in discussione, così è per la Palestina. Gli Stati Uniti non ammettono la legittimità dei continui insediamenti israeliani, che violano i precedenti accordi e minano gli sforzi volti a perseguire la pace. È ora che questi insediamenti si fermino.
Israele deve dimostrare di mantenere le proprie promesse e assicurare che i palestinesi possano
effettivamente vivere, lavorare, sviluppare la loro società. Proprio come devasta le famiglie palestinesi, l'incessante crisi umanitaria a Gaza non è di giovamento alcuno alla sicurezza di Israele. Né è di giovamento per alcuno la costante mancanza di opportunità di qualsiasi genere in Cisgiordania. Il progresso nella vita quotidiana del popolo palestinese deve essere parte integrante della strada verso la pace e Israele deve intraprendere i passi necessari a rendere possibile questo progresso.
Infine, gli Stati Arabi devono riconoscere che l'Arab Peace Initiative è stato sì un inizio importante, ma che non pone fine alle loro responsabilità individuali. Il conflitto israelo-palestinese non dovrebbe più essere sfruttato per distogliere l'attenzione dei popoli delle nazioni arabe da altri problemi. Esso, al contrario, deve essere di incitamento ad agire per aiutare il popolo palestinese a sviluppare le istituzioni che costituiranno il sostegno e la premessa del loro Stato; per riconoscere la legittimità di Israele; per scegliere il progresso invece che l'incessante e autodistruttiva attenzione per il passato.
L'America allineerà le proprie politiche mettendole in sintonia con coloro che vogliono la pace e per essa si adoperano, e dirà ufficialmente ciò che dirà in privato agli israeliani, ai palestinesi e agli arabi. Noi non possiamo imporre la pace. In forma riservata, tuttavia, molti musulmani riconoscono che Israele non potrà scomparire. Allo stesso modo, molti israeliani ammettono che uno Stato palestinese è necessario. È dunque giunto il momento di agire in direzione di ciò che tutti sanno essere vero e inconfutabile.
Troppe sono le lacrime versate; troppo è il sangue sparso inutilmente. Noi tutti condividiamo la
responsabilità di dover lavorare per il giorno in cui le madri israeliane e palestinesi potranno vedere i loro figli crescere insieme senza paura; in cui la Terra Santa delle tre grandi religioni diverrà quel luogo di pace che Dio voleva che fosse; in cui Gerusalemme sarà la casa sicura ed eterna di ebrei, cristiani e musulmani insieme, la città di pace nella quale tutti i figli di Abramo vivranno insieme in modo pacifico come nella storia di Isra, allorché Mosé, Gesù e Maometto (la pace sia con loro) si unirono in preghiera.
Terza causa di tensione è il nostro comune interesse nei diritti e nelle responsabilità delle nazioni nei confronti delle armi nucleari. Questo argomento è stato fonte di grande preoccupazione tra gli Stati Uniti e la Repubblica islamica iraniana. Da molti anni l'Iran si distingue per la propria ostilità nei confronti del mio Paese e in effetti tra i nostri popoli ci sono stati episodi storici violenti. Nel bel mezzo della Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno avuto parte nel rovesciamento di un governo iraniano democraticamente eletto. Dalla Rivoluzione Islamica, l'Iran ha rivestito un ruolo preciso nella cattura di ostaggi e in episodi di violenza contro i soldati e i civili statunitensi. Tutto ciò è ben noto. Invece di rimanere intrappolati nel passato, ho
detto chiaramente alla leadership iraniana e al popolo iraniano che il mio Paese è pronto ad andare avanti.
La questione, adesso, non è capire contro cosa sia l'Iran, ma piuttosto quale futuro intenda costruire.
Sarà sicuramente difficile superare decenni di diffidenza, ma procederemo ugualmente, con coraggio, con onestà e con determinazione. Ci saranno molti argomenti dei quali discutere tra i nostri due Paesi, ma noi siamo disposti ad andare avanti in ogni caso, senza preconcetti, sulla base del rispetto reciproco. È chiaro tuttavia a tutte le persone coinvolte che riguardo alle armi nucleari abbiamo raggiunto un momento decisivo. Non è unicamente nell'interesse dell'America affrontare il tema: si tratta qui di evitare una corsa agli armamenti nucleari in Medio Oriente, che potrebbe portare questa regione e il mondo intero verso una china molto pericolosa.
Capisco le ragioni di chi protesta perché alcuni Paesi hanno armi che altri non hanno. Nessuna nazione dovrebbe scegliere e decidere quali nazioni debbano avere armi nucleari. È per questo motivo che io ho ribadito con forza l'impegno americano a puntare verso un futuro nel quale nessuna nazione abbia armi nucleari. Tutte le nazioni - Iran incluso - dovrebbero avere accesso all'energia nucleare a scopi pacifici se rispettano i loro obblighi e le loro responsabilità previste dal Trattato di Non Proliferazione. Questo è il nocciolo, il cuore stesso del Trattato e deve essere rispettato da tutti coloro che lo hanno sottoscritto.
Spero pertanto che tutti i Paesi nella regione possano condividere questo obiettivo.
Il quarto argomento di cui intendo parlarvi è la democrazia. Sono consapevole che negli ultimi anni ci sono state controversie su come vada incentivata la democrazia e molte di queste discussioni sono riconducibili alla guerra in Iraq. Permettetemi di essere chiaro: nessun sistema di governo può o deve essere imposto da una nazione a un'altra.
Questo non significa, naturalmente, che il mio impegno in favore di governi che riflettono il volere dei loro popoli, ne esce diminuito. Ciascuna nazione dà vita e concretizza questo principio a modo suo, sulla base delle tradizioni della sua gente. L'America non ha la pretesa di conoscere che cosa sia meglio per ciascuna
nazione, così come noi non presumeremmo mai di scegliere il risultato in pacifiche consultazioni elettorali.
Ma io sono profondamente e irremovibilmente convinto che tutti i popoli aspirano a determinate cose: la possibilità di esprimersi liberamente e decidere in che modo vogliono essere governati; la fiducia nella legalità e in un'equa amministrazione della giustizia; un governo che sia trasparente e non si approfitti del popolo; la libertà di vivere come si sceglie di voler vivere. Questi non sono ideali solo americani: sono diritti umani, ed è per questo che noi li sosterremo ovunque.
La strada per realizzare questa promessa non è rettilinea. Ma una cosa è chiara e palese: i governi che proteggono e tutelano i diritti sono in definitiva i più stabili, quelli di maggior successo, i più sicuri.
Soffocare gli ideali non è mai servito a farli sparire per sempre. L'America rispetta il diritto di tutte le voci pacifiche e rispettose della legalità a farsi sentire nel mondo, anche qualora fosse in disaccordo con esse. E
noi accetteremo tutti i governi pacificamente eletti, purché governino rispettando i loro stessi popoli.
Quest'ultimo punto è estremamente importante, perché ci sono persone che auspicano la democrazia soltanto quando non sono al potere: poi, una volta al potere, sono spietati nel sopprimere i diritti altrui.
Non importa chi è al potere: è il governo del popolo ed eletto dal popolo a fissare l'unico parametro per tutti coloro che sono al potere. Occorre restare al potere solo col consenso, non con la coercizione; occorre rispettare i diritti delle minoranze e partecipare con uno spirito di tolleranza e di compromesso; occorre mettere gli interessi del popolo e il legittimo sviluppo del processo politico al di sopra dei propri interessi e del proprio partito. Senza questi elementi fondamentali, le elezioni da sole non creano una vera
democrazia.
Il quinto argomento del quale dobbiamo occuparci tutti insieme è la libertà religiosa. L'Islam ha una fiera tradizione di tolleranza: lo vediamo nella storia dell'Andalusia e di Cordoba durante l'Inquisizione. Con i miei stessi occhi da bambino in Indonesia ho visto che i cristiani erano liberi di professare la loro fede in un Paese a stragrande maggioranza musulmana. Questo è lo spirito che ci serve oggi. I popoli di ogni Paese devono essere liberi di scegliere e praticare la loro fede sulla sola base delle loro convinzioni personali, la loro predisposizione mentale, la loro anima, il loro cuore. Questa tolleranza è essenziale perché la religione possa prosperare, ma purtroppo essa è minacciata in molteplici modi.
Tra alcuni musulmani predomina un'inquietante tendenza a misurare la propria fede in misura
proporzionale al rigetto delle altre. La ricchezza della diversità religiosa deve essere sostenuta, invece, che si tratti dei maroniti in Libano o dei copti in Egitto. E anche le linee di demarcazione tra le varie confessioni
devono essere annullate tra gli stessi musulmani, considerato che le divisioni di sunniti e sciiti hanno portato a episodi di particolare violenza, specialmente in Iraq.
La libertà di religione è fondamentale per la capacità dei popoli di convivere. Dobbiamo sempre esaminare le modalità con le quali la proteggiamo. Per esempio, negli Stati Uniti le norme previste per le donazioni agli enti di beneficienza hanno reso più difficile per i musulmani ottemperare ai loro obblighi religiosi. Per questo motivo mi sono impegnato a lavorare con i musulmani americani per far sì che possano obbedire al loro precetto dello zakat.
Analogamente, è importante che i Paesi occidentali evitino di impedire ai cittadini musulmani di praticare la religione come loro ritengono più opportuno, per esempio legiferando quali indumenti debba o non debba indossare una donna musulmana. Noi non possiamo camuffare l'ostilità nei confronti di una religione qualsiasi con la pretesa del liberalismo.
È vero il contrario: la fede dovrebbe avvicinarci. Ecco perché stiamo mettendo a punto dei progetti di servizio in America che vedano coinvolti insieme cristiani, musulmani ed ebrei. Ecco perché accogliamo positivamente gli sforzi come il dialogo interreligioso del re Abdullah dell'Arabia Saudita e la leadership turca nell'Alliance of Civilizations. In tutto il mondo, possiamo trasformare il dialogo in un servizio interreligioso, così che i ponti tra i popoli portino all'azione e a interventi concreti, come combattere la malaria in Africa o portare aiuto e conforto dopo un disastro naturale.
Il sesto problema di cui vorrei che ci occupassimo insieme sono i diritti delle donne. So che si discute molto di questo e respingo l'opinione di chi in Occidente crede che se una donna sceglie di coprirsi la testa e i capelli è in qualche modo "meno uguale". So però che negare l'istruzione alle donne equivale sicuramente a privare le donne di uguaglianza. E non è certo una coincidenza che i Paesi nei quali le donne possono studiare e sono istruite hanno maggiori probabilità di essere prosperi.
Vorrei essere chiaro su questo punto: la questione dell'eguaglianza delle donne non riguarda in alcun modo l'Islam. In Turchia, in Pakistan, in Bangladesh e in Indonesia, abbiamo visto Paesi a maggioranza musulmana eleggere al governo una donna. Nel frattempo la battaglia per la parità dei diritti per le donne continua in molti aspetti della vita americana e anche in altri Paesi di tutto il mondo.
Le nostre figlie possono dare un contributo alle nostre società pari a quello dei nostri figli, e la nostra comune prosperità trarrà vantaggio e beneficio consentendo a tutti gli esseri umani - uomini e donne - di realizzare a pieno il loro potenziale umano. Non credo che una donna debba prendere le medesime decisioni di un uomo, per essere considerata uguale a lui, e rispetto le donne che scelgono di vivere le loro vite assolvendo ai loro ruoli tradizionali. Ma questa dovrebbe essere in ogni caso una loro scelta. Ecco perché gli Stati Uniti saranno partner di qualsiasi Paese a maggioranza musulmana che voglia sostenere ildiritto delle bambine ad accedere all'istruzione, e voglia aiutare le giovani donne a cercare un'occupazione tramite il microcredito che aiuta tutti a concretizzare i propri sogni.
Infine, vorrei parlare con voi di sviluppo economico e di opportunità. So che agli occhi di molti il volto della globalizzazione è contraddittorio. Internet e la televisione possono portare conoscenza e informazione, ma anche forme offensive di sessualità e di violenza fine a se stessa. I commerci possono portare ricchezza e opportunità, ma anche grossi problemi e cambiamenti per le comunità località. In tutte le nazioni - compresa la mia - questo cambiamento implica paura. Paura che a causa della modernità noi si possa perdere il controllo sulle nostre scelte economiche, le nostre politiche, e cosa ancora più importante, le nostre identità, ovvero le cose che ci sono più care per ciò che concerne le nostre comunità, le nostre famiglie, le nostre tradizioni e la nostra religione.
So anche, però, che il progresso umano non si può fermare. Non ci deve essere contraddizione tra sviluppo e tradizione. In Paesi come Giappone e Corea del Sud l'economia cresce mentre le tradizioni culturali sono invariate. Lo stesso vale per lo straordinario progresso di Paesi a maggioranza musulmana come Kuala Lumpur e Dubai. Nei tempi antichi come ai nostri giorni, le comunità musulmane sono sempre state all'avanguardia nell'innovazione e nell'istruzione.
Quanto ho detto è importante perché nessuna strategia di sviluppo può basarsi soltanto su ciò che nasce dalla terra, né può essere sostenibile se molti giovani sono disoccupati. Molti Stati del Golfo Persico hanno conosciuto un'enorme ricchezza dovuta al petrolio, e alcuni stanno iniziando a programmare seriamente uno sviluppo a più ampio raggio. Ma dobbiamo tutti riconoscere che l'istruzione e l'innovazione saranno la valuta del XXI secolo, e in troppe comunità musulmane continuano a esserci investimenti insufficienti in questi settori. Sto dando grande rilievo a investimenti di questo tipo nel mio Paese. Mentre l'America in passato si è concentrata sul petrolio e sul gas di questa regione del mondo, adesso intende perseguire
qualcosa di completamente diverso.
Dal punto di vista dell'istruzione, allargheremo i nostri programmi di scambi culturali, aumenteremo le borse di studio, come quella che consentì a mio padre di andare a studiare in America, incoraggiando unnumero maggiore di americani a studiare nelle comunità musulmane. Procureremo agli studenti musulmani più promettenti programmi di internship in America; investiremo sull'insegnamento a distanza per insegnanti e studenti di tutto il mondo; creeremo un nuovo network online, così che un adolescente in Kansas possa scambiare istantaneamente informazioni con un adolescente al Cairo.
Per quanto concerne lo sviluppo economico, creeremo un nuovo corpo di volontari aziendali che lavori con le controparti in Paesi a maggioranza musulmana. Organizzerò quest'anno un summit sull'imprenditoria per identificare in che modo stringere più stretti rapporti di collaborazione con i leader aziendali, le fondazioni, le grandi società, gli imprenditori degli Stati Uniti e delle comunità musulmane sparse nel mondo.
Dal punto di vista della scienza e della tecnologia, lanceremo un nuovo fondo per sostenere lo sviluppo tecnologico nei Paesi a maggioranza musulmana, e per aiutare a tradurre in realtà di mercato le idee, così da creare nuovi posti di lavoro. Apriremo centri di eccellenza scientifica in Africa, in Medio Oriente e nel Sudest asiatico; nomineremo nuovi inviati per la scienza per collaborare a programmi che sviluppino nuove fonti di energia, per creare posti di lavoro "verdi", monitorare i successi, l'acqua pulita e coltivare nuove specie. Oggi annuncio anche un nuovo sforzo globale con l'Organizzazione della Conferenza Islamica mirante a sradicare la poliomielite. Espanderemo inoltre le forme di collaborazione con le comunità musulmane per e promuovere la salute infantile e delle puerpere.
Tutte queste cose devono essere fatte insieme. Gli americani sono pronti a unirsi ai governi e ai cittadini di tutto il mondo, le organizzazioni comunitarie, gli esponenti religiosi, le aziende delle comunità musulmane di tutto il mondo per permettere ai nostri popoli di vivere una vita migliore.
I problemi che vi ho illustrato non sono facilmente risolvibili, ma abbiamo tutti la responsabilità di unirci per il bene e il futuro del mondo che vogliamo, un mondo nel quale gli estremisti non possano più minacciare i nostri popoli e nel quale i soldati americani possano tornare alle loro case; un mondo nel quale gli israeliani e i palestinesi siano sicuri nei loro rispettivi Stati e l'energia nucleare sia utilizzata soltanto a fini pacifici; un mondo nel quale i governi siano al servizio dei loro cittadini e i diritti di tutti i figli di Dio siano rispettati.
Questi sono interessi reciproci e condivisi. Questo è il mondo che vogliamo. Ma potremo arrivarci soltanto insieme.
So che molte persone - musulmane e non musulmane - mettono in dubbio la possibilità di dar vita a questo nuovo inizio. Alcuni sono impazienti di alimentare la fiamma delle divisioni, e di intralciare in ogni modo il progresso. Alcuni lasciano intendere che il gioco non valga la candela, che siamo predestinati a non andare d'accordo, e che le civiltà siano avviate a scontrarsi. Molti altri sono semplicemente scettici e dubitano fortemente che un cambiamento possa esserci. E poi ci sono la paura e la diffidenza. Se sceglieremo di rimanere ancorati al passato, non faremo mai passi avanti. E vorrei dirlo con particolare chiarezza ai giovani di ogni fede e di ogni Paese: "Voi, più di chiunque altro, avete la possibilità di cambiare questo mondo".
Tutti noi condividiamo questo pianeta per un brevissimo istante nel tempo. La domanda che dobbiamo porci è se intendiamo trascorrere questo brevissimo momento a concentrarci su ciò che ci divide o se vogliamo impegnarci insieme per uno sforzo - un lungo e impegnativo sforzo - per trovare un comune terreno di intesa, per puntare tutti insieme sul futuro che vogliamo dare ai nostri figli, e per rispettare la dignità di tutti gli esseri umani.
È più facile dare inizio a una guerra che porle fine. È più facile accusare gli altri invece che guardarsi dentro.
È più facile tener conto delle differenze di ciascuno di noi che delle cose che abbiamo in comune. Ma nostro dovere è scegliere il cammino giusto, non quello più facile. C'è un unico vero comandamento al fondo di ogni religione: fare agli altri quello che si vorrebbe che gli altri facessero a noi. Questa verità trascende nazioni e popoli, è un principio, un valore non certo nuovo. Non è nero, non è bianco, non è marrone. Non è cristiano, musulmano, ebreo. É un principio che si è andato affermando nella culla della civiltà, e che tuttora pulsa nel cuore di miliardi di persone. È la fiducia nel prossimo, è la fiducia negli altri, ed è ciò che mi ha condotto qui oggi.
Noi abbiamo la possibilità di creare il mondo che vogliamo, ma soltanto se avremo il coraggio di dare il via a un nuovo inizio, tenendo in mente ciò che è stato scritto. Il Sacro Corano dice: "Oh umanità! Sei stata creata maschio e femmina. E ti abbiamo fatta in nazioni e tribù, così che voi poteste conoscervi meglio gli uni gli altri". Nel Talmud si legge: "La Torah nel suo insieme ha per scopo la promozione della pace". E la Sacra Bibbia dice: "Beati siano coloro che portano la pace, perché saranno chiamati figli di Dio".
Sì, i popoli della Terra possono convivere in pace. Noi sappiamo che questo è il volere di Dio. E questo è il nostro dovere su questa Terra. Grazie, e che la pace di Dio sia con voi.

5 maggio 2009

L'automobilismo di massa e il sindaco sacrificale

L'altro ieri mi sono schiantato in bici a Chinatown. Un manovale cinese - alla sua 21esima ora di lavoro senza pause - non si é accorto di me e ha aperto la porta anteriore del suo furgoncino proprio in corrispondenza del mio passaggio. Sono atterrato di lato sul soffice asfalto di Manhattan (voi direte 'che quello di Casalecchio di Reno é diverso?' e io vi risponderò: mi piaceva l'espressione, non rompete i coglioni).

Qui hanno una formuletta fantastica per descrivere il fenomeno, di quelle che ti fanno capire l'oggettiva superiorità pratica della lingua inglese. Dicono 'I've been doored', e la gente capisce che ci si riferisce nello specifico a qualcosa di ciclistico. Quindi sono stato 'doored' anche io, entrando a far parte stabilmente del folto gruppo di ciclisti guerriglieri di New York. Per i bikers usare la bicicletta a New York é un atto politico, aggredire l'automobilista é necessario come inevitabile - e giusto - é il sacrificio del 'being doored' o dell'essere vittima di altri incidenti e angherie. Nell'ideologia dei bikers c'è spazio anche per un po' di estetica del martirio come fra i serbi e gli sciiti - non la spiegherei così, non temete - e ogni centimetro di pista ciclabile é un'occasione per esercitarla: si spera sempre che l'automobilista del vicino New Jersey - il mio amico Rey, biker fondamentalista, dice che sono sempre loro all'origine del male - ti offra l'occasione per uno scontro verbale o ti provochi magari una feritina da esibire la sera stessa ad un raduno di bikers arrabbiati. Si tratta di gente bizzarra, é evidente. Ma hanno ragione.

E' ormai oggettivo che vita urbana é automobilismo di massa sono incompatibili: o hai le auto o hai le città, a noi sta la scelta. I costi ambientali e sociali dell'utilizzo dell'automobile nelle aree urbane sono ormai assolutamente insostenibili, a partire dalla quotidiana moria di ciclisti: ogni città ha il suo 'segnale' per ricordare un ciclista ammazzato, qui delle bici bianche e dalle nostre parti fiori e foto ancora più struggenti. Sappiamo benissimo che inefficienza e alti costi del servizio pubblico sono il risultato dell'utilizzo di massa dell'automobile: senza auto, autobus e tram sarebbero più veloci e più economici sia in termini di produzione del servizio che in termini di costo al consumo. Inoltre, gli effetti sociali e anche economici della fine dell'automobilismo di massa nelle nostre città sarebbero rivoluzionari.

Sono pronto a scommettere su una significativa riduzione della solitudine come dell'insicurezza urbane e su una ripresa del commercio di prossimità, una volta che avremo abbandonato per sempre la bizzarra idea dell'auto sotto casa. Conosciamo le obiezioni...E' vero, l'industria automobilistica ha un ruolo rilevante nello sviluppo teconologico: lo avrebbe anche se la produzione si spostasse prevalentemente su mezzi di trasporto collettivo. Mentre é meno vero di un tempo che il suo peso occupazionale é talmente rilevante da renderla irrinunciabile (e anche in questo caso si tratterebbe e di convertire e non di chudere....). Comunque, le politiche omeopatiche - oasi pedonali, tickets di accesso, fasce orarie- hanno fatto il loro tempo. Bisogna passare alla seconda fase: semplicemente vietare l'utilizzo dell'auto nelle città. Una vera e propria rivoluzione, altro che Chavez. La cosa implicherebbe investimenti massicci, una grande occasione in un mondo improvvisamente risvegliatosi keynesiano.

L'avvento dell'automobilismo di massa é stato reso possibile da investimenti pubblici di dimensioni ciclopiche - pensate solo ai programmi autostradali su entrambi i lati dell'Atlantico - la de-automobilizzazione di massa ne implicherà altrettanti. Ma per ora abbiamo bisogno di qualcuno che dia l'esempio, abbiamo bisogno di un sindaco sacrificale. Qualcuno o qualcuna che eletto/a alla guida di una grande città decida programmaticamente di non essere rieletto/a cinque anni dopo: l'esito probabilmente necessario di un esperimento di de-automobilizzazione di massa (di cui ovviamente non si dovrebbe parlare nel corso della campagna elettorale)....Fatevi avanti, ovviamente con le vostre automobili (da esibire nel corso della campagna per non dare nell'occhio...)

26 gennaio 2009

"Come cambia l'America"

Il 5 febbraio sarà finalmente in libreria il nostro libro, già da ora però potete cominciare a tenere d'occhio il sito dell'editore dove sarà possibile acquistarlo online. Ma prima di comprarlo, forse volete saperne un po' di più.
"Come cambia l'America" prova a raccontare e interpretare la storica vittoria di Barack Hussein Obama; perché è potuta accadere; che cosa ci dice degli Stati Uniti di oggi. Pensiamo che le grandi elezioni siano un po' l'autobiografia delle nazioni dove si svolgono: ci sarebbe stato impossibile quindi spiegare la vittoria di Barack Obama tralasciando di raccontare cos'è successo nella politica e nella società degli Usa. Abbiamo diviso il testo in due parti, una parla dell’America di oggi e una indaga i “pensieri lunghi”, come gli Stati uniti guarderanno a sé e al mondo in politica estera e in economia. Ecco cosa di cosa parlano specificamente i 5 capitoli del libro:
- Obama è un prodotto sofisticato, frutto di una riflessione intellettuale complessa: come rielaborare e superare in chiave liberal il ’900 politico americano – nel primo capitolo trovate la nostra interpretazione del suo viaggio politico da Chicago alla Casa Bianca, passando per il radicalismo nero e le grandi università del paese;
- questa elezione del 2008 può veramente essere l’alba di un nuovo blocco politico e sociale – il secondo capitolo spiega le dieci ragioni per le quali Obama ha vinto, a partire dall’organizzazione, la partecipazione e la creazione di una nuova narrazione collettiva;
- il sistema americano della rappresentanza funziona male, è arcaico, ingiusto e inefficiente (caratteristiche che rendono la vittoria di Obama ancora più eclatante) – nel terzo capitolo si discute del sistema di voto, delle primarie, dei partiti e della
relazione tra denaro e politica;
- l’economia americana è a un punto di svolta – nel capitolo che ne parla si descrivono le origini della crisi e i danni di lungo periodo prodotti da trent’anni di deregulation e redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto. Oggi si apre una stagione dalla quale il modello di sviluppo americano potrebbe venire trasformato;
- in politica estera siamo di fronte a una fase completamente nuova, anche se Obama manterrà grande continuità con gli ultimi due anni dell’amministrazione Bush – nel quinto capitolo sosteniamo che è finita l’epoca del post guerra fredda, quando l’America credeva di poter fissare per sempre il proprio primato. Ne comincia una nuova che ha lo stesso obiettivo – mantenere la leadership – ma in un contesto molto diverso.
Le conclusioni – “Maccaroni” – sono scritte pensando al cortile di casa nostra.