30 aprile 2008

Glossario della crisi economica/3. SUBPRIME 2.0

Le Salsicce infette contagiano i mercati


Gli analisti negli ultimi tempi parlano di una crisi finanziaria di proporzioni enormi (Krugman parla di crisi simile a quella del 1929) avviata dallo scoppio della bolla immobiliare e dalla vicenda dei mutui subprime. La crisi dei mutui, infatti, rischia di minacciare la salute dell’intero mercato finanziario americano e di “contagiare” anche i mercati europei.
A questo punto è utile cercare di capire i perché di questo contagio, che non risiede solo in un periodo di panico e di mancanza di fiducia da parte degli investitori. Esiste, infatti, una catena di trasmissione che lega i mutui, i pignoramenti e le difficoltà dei risparmiatori americani alle attuali turbolenze finanziarie.
Il problema è quello delle salsicce infette. Ovvero: la banca che eroga i mutui può - a determinate condizioni - "cartolarizzarli", ossia trasformarli in strumenti finanziari: gli "ABS", Asset Backed Securities. Gli ABS sono titoli il cui valore è garantito del valore delle case ipotecate dal mutuo. Il rendimento dei titoli è legato agli interessi che il debitore paga e che sono tanto più alti quanto minore è la sua affidabilità.
Gli ABS immobiliari insieme con altre cartolarizzazioni vanno a comporre altri strumenti finanziari detti CDO, (Collateralized Debt Obligation), ossia obbligazioni composte da diversi tipi di titoli. La banca propone al risparmiatore un investimento in cui sono presenti moltissimi tipi diversi di obbligazioni e altre attività finanziarie, differenti per rischio e reddito, in modo da assicurare una certa stabilità ma anche un certo profitto.
Praticamente la banca si copre dal rischio legato ad investimenti rischiosi come i mutui emettendo “obbligazioni salsiccia” in cui dentro c’è un po’ di tutto, compresi i titoli legati ai subprime.
Questi titoli erano considerati redditizi e sicuri perché al momento dell'emissione non si avvertivano motivi particolari di preoccupazione e i prezzi delle case salivano. I frutti di questa'ingegneria finanziaria finivano poi in fondi comuni o in polizze vita senza che l'investitore finale fosse consapevole del rischio insito in questo genere di titoli.
In sintesi, le banche d’affari americane dopo aver concesso i mutui subprime li hanno impacchettati in una obbligazione e li hanno rivenduti ad altre banche in tutto il mondo (oltre agli USA soprattutto Inghilterra, Francia, Germania e Giappone) . Esiste un contagio da mutui le cui proporzioni ancora non sono chiare. L'incertezza non riguarda solo l'ammontare del valore di questi titoli, ma anche dove essi sono andati a finire. Anche perché questi strumenti finanziari possono essere impacchettati più volte in un sistema di scatole cinesi che impedisce alle stesse banche di capire dove finiscano effettivamente i titoli.
Per qualche tempo si è pensato che i titoli subprime fossero confinati solo in portafogli di istituzioni bancarie e finanziarie americane. Ma le cose non stavano così. La Bce ha ammesso che la situazione europea non è molto diversa da quella americana: ha cominciato la banca tedesca Ikb ad andare in bancarotta perché colpita dalla crisi dei mutui subprime e poi anche la banca olandese Nibc, poi Bnp Paribas.
Le banche, infatti, hanno dovuto affrontare una “crisi di liquidità”, ovvero: le banche con le obbligazioni si indebitano a breve termine, mentre i mutui immobiliari sono, per definizione, strumenti di lungo periodo. Quando il pagamento delle rate dei mutui procede senza problemi le banche riescono a ripagare le obbligazioni (il tasso d’interesse concesso sull’emissione dell’obbligazione per essere competitivo deve essere altissimo, se no non le sottoscrive nessuno). Però si è trascurato il fatto che alla scadenza i titoli vanno rimborsati e se chi ha fatto il mutuo (sottostante al titolo) non paga, la banca deve intaccare le proprie riserve o sperare di recuperare con una nuova emissione, contando sul fatto di posticipare il pagamento ai sottoscrittori.
La seconda via non è molto percorribile perché appena si diffonde la voce dell’inaffidabilità di un titolo questo non viene più acquistato. La banca si trova con un credito che non verrà rimborsato da una parte (mutuo), un debito da pagare e niente in mano per pagarlo. Con una crisi di ampie proporzioni come quella in atto ecco arrivare la crisi di liquidità che porta la banca sull’orlo della bancarotta (come Bear Sterns).
I primi sintomi della crisi sono stati ignorati nella convinzione che questo «nuovo mercato» del credito fosse strutturalmente molto meno esposto alle crisi finanziarie: i nuovi strumenti consentono infatti di diluire tutti i rischi. Il caso tipico è proprio quello dei mutui: l’istituto che li concede spezzetta poi il credito e lo trasferisce ad altri fondi e banche che a loro volta «impacchettano » il tutto sotto forma di obbligazioni che vengono rivedute sul mercato.
E’ vero che con la «nuova finanza» i rischi sono stati diluiti, ma non fino al punto di «vaccinare» il sistema dalle conseguenze di un’ondata di prestiti concessi in modo avventato. E’ una delle disfunzioni indotte da una trasformazione del mercato che un capitalismo ben funzionante dovrebbe vedere e correggere tempestivamente: i controlli sulla solvibilità dei debitori sono spesso venuti meno perché l’istituto che emetteva il mutuo era più interessato ai profitti che alle condizioni di prestiti destinati, comunque, a essere trasferiti ad altri.
Ora che si è tornati con i piedi per terra si scopre che il nuovo mercato dei derivati (un derivato è un titolo il cui valore è legato al valore di qualche altro bene o azione) oltre al positivo effetto di diluizione dei rischi, si tira dietro anche un problema, in qualche modo speculare rispetto a questo vantaggio: una volta che emerge una crisi, è difficile individuare e circoscrivere i focolai perché i prodotti finanziari «avariati»— nel nostro caso i mutui — possono essere finiti ovunque.

(Matteo Dian)

28 aprile 2008

Le imbarazzanti amicizie religiose del senatore McCain

Martino Mazzonis
Approfittando della lunghezza delle primarie democratiche, il senatore McCain mette a punto la sua strategia. Il veterano di guerra e della politica sa bene due cose: deve prendere le distanze da George W. Bush e tentare di espandere la base che ha eletto l’amministrazione in carica. La guerra al terrore non si vende più come nel 2004 e pensare di vincere con quella sarebbe perdente. Per questo McCain punta agli indipendenti e agli ingenui. O almeno così viene da pensare a giudicare dal tour che il candidato repubblicano ha compiuto negli ultimi giorni a caccia del voto afroamericano.
Di certo ci vuole faccia tosta a presentarsi nei quartieri poveri devastati dall’uragano Katrina e a Selma, luogo della storica marcia per i diritti guidata da Marthin Luther King. Nella città del sud ancora in attesa di risposte da parte del governo federale McCain ha spiegato che la risposta all’uragano è stata “disastrosa", che una cosa del genere "non deve più capitare" per poi non saper rispondere alla domanda: "Secondo lei questi quartieri poveri vanno demoliti o restaurati?". Non una domanda da poco dal momento che è in corso un duro braccio di ferro tra migliaia di persone che aspettano di potersene tornare a casa e gli immobiliaristi, che puntano a rendere la città un posticino di lusso dove far trasferire famiglie pronte a spendere migliaia di dollari al metro quadro.
Ma essere impreparati o furbetti non sarebbe un problema. Il problema di McCain a New Orleans è un altro e si chiama John Hagee, che di mestiere fa il telepredicatore miliardario. E qualcuno gli ha fatto una domanda anche su di lui. "Non è una mia vecchia conoscenza" ha risposto. Vero. Tanto quanto la scelta del senatore di cercare il sostegno ufficiale del pastore di San Antonio, sostegno ottenuto lo scorso febbraio. McCain non tira tra gli elettori che votano con la croce nella mano destra e da quando è diventato candidato corteggia quell’elettorato. Qual’è il problema di Hagee? Quelle che seguono sono sue frasi: "Katrina è una punizione divina contro New Orleans. In città c’era una quantità di peccato che era offensiva per dio. Il lunedì in cui è arrivato Katrina si doveva addirittura tenere una parata di omosessuali". Altro motivo per cui dio avrebbe mosso le acque è la pressione, in quelle settimane, di Washington su Israele perché abbandonasse gli insediamenti nei Territori. Avendo visto tolta terra a Israele, Dio l’ha tolta agli Usa. Andatelo a raccontare ai derelitti che hanno passato giorni sul tetto di casa che la catastrofe prodotta dall’incuria umana è una punizione divina. O che dio agisce come una Onu vendicativa.
Hagee è un personaggio controverso: è divorziato e risposato, guadagna milioni di dollari come amministratore delegato del suo network evangelico, trasmette su 160 canali locali, predica l’unità evangelica con Israele e sostiene che la religione musulmana invita a uccidere i cristiani. Pur non essendo tra i predicatori pittoreschi, ha un’influenza molto grande ed è una colonna portante di quella destra religiosa che sostiene il partito repubblicano in maniera smaccata. Non è il solo.
Tra gli alleati di McCain c’è Rod Parsley, il possibile futuro dell’evangelismo conservatore. Più giovane e carismatico, il suo territorio è l’Ohio, lo Stato dove Bush ha di fatto vinto le elezioni nel 2004. Quell’anno, guarda che caso, tra le schede su cui mettere la croce nel giorno delle presidenziali, c’era anche un referendum statale che aboliva il matrimonio omosessuale. Parlsey promosse il referendum e i cristiani dell’Ohio parteciparono come non mai al voto. Il corpulento pastore è uno che parla a neri e bianchi e, a fine febbraio, durante le primarie in Ohio, parlò ad un comizio di McCain a Cincinnati. Erano i giorni in cui dal campo delle primarie repubblicano non era ancora stato eliminato Mike Huckabee, il predicatore evangelico che raccoglieva i voti religiosi. Il sostegno di Parsley fu una mano santa per McCain.
Come Hagee, Parsley ha le sue teorie religiose. Nel suo libro del 2005, “Silent no more”, spiega che è in corso "una guerra tra islam e civiltà cristiana". L’America, secondo Parsley, sarebbe stata fondata con il disegno di "vedere distrutta questa falsa religione e l’11 settembre è una chiamata alle armi che non possiamo ignorare". Un vero moderato. Come quando sostiene che occorre mettere in galera gli adulteri. Uno tutto d’un pezzo? No, se è vero che si è beccato una denuncia per aver infranto le regole al sostegno dei partiti che consentono alla sua chiesa di non pagare le tasse - non paga se non si schiera e lui ha trovato il modo per schierarsi e non pagare, ma lo hanno beccato.
Nelle scorse settimane le frasi sull’11 settembre del reverendo Wright, padre spirituale di Barack Obama, hanno generato attacchi a raffica da parte di McCain. Se il senatore afroamericano dovesse diventare il candidato democratico come è probabile, avrà qualche freccia al suo arco. Agli elettori indipendenti e ai moderati negli Stati a maggioranza repubblicana potrebbero dispiacere più Hagee e Parsley che non Wright.

22 aprile 2008

L'ultima spiaggia di Clinton (l'ennesima)

Pittsburgh e Philadelphia, le industrie chiuse di acciaio e carbone e le terre coltivate che hanno un'anima conservatrice, le ascendenze nord europee ed una città, “Philly" come la chiamano, più cosmopolita e mista del resto dello Stato. Sondaggisti e strateghi da settimane si affannano per leggere in controluce la società e la politica della Pennsylvania, nuovo giro di boa delle primarie democratiche. Si è detto già altre volte: questo è un appuntamento decisivo, per Hillary Clinton è un'altra ultima spiaggia. E' probabile che superi anche questa, la composizione del voto democratico nello Stato (e i sondaggi) le danno un certo vantaggio. Il distacco di Barack Obama nelle intenzioni di voto rilevate dai sondaggisti però si è assottigliato: gli ultimi pubblicati regalano alla senatrice un vantaggio di tre cinque punti. Molti analisti concordano che un distacco ridotto sarebbe doloroso per Hillary perché non le consentirebbe di ridurre il ritardo accumulato nella conta dei delegati alla convention democratica di Denver ad agosto. La chiave di tutto saranno i maschi bianchi, come altre volte le donne bianche favoriscono Clinton in maniera abbastanza chiara e tutti gli afroamericani stanno a stragrande maggioranza con la loro speranza - così almeno ci racconta un sondaggio della Temple University di Philadelphia.
Ad oggi i numeri dicono +141 per il senatore nero dell'Illinois, +164 se si prendono in considerazione i superdelegati, eletti e dirigenti che partecipano di diritto. Negli ultimi mesi un numero crescente di questi pezzi grossi del partito hanno scelto di schierarsi con Obama, contribuendo così ad assottigliare la pattuglia di indecisi e riducendo al minimo il vantaggio di Clinton su questo terreno. Un vantaggio che a gennaio era ritenuto incolmabile da qualsiasi osservatore della politica statunitense.
Per questo la Pennsylvania è importante, dopo questo grande Stato che elegge molti delegati le cose potrebbero essere finite. Oppure no, è già successo nei mesi passati. E per questo le ultime settimane di campagne sono state tanto aspre, i toni cattivi, le polemiche accese. Negli ultimi due giorni gli spot Tv di entrambi sono cattivissimi, uno accusa l'altra di prendere soldi dalle lobby mentre la senatrice risponde con l'accusa di essere uno che parla contro il sistema che ci si trova bene dentro. La novità sta nell'aggressività di Obama, non viceversa. ha dichiarato David Axelrod, stratega del senatore. E poi dalle primarie in Mississippi sono passati quaranta giorni, la pausa più lunga era stata di due settimane. Gli elettori hanno avuto tempo per riflettere, i media hanno potuto sezionare i candidati, le polemiche esplodere ed essere digerite. Dopo questo voto, insomma, si capirà che tenuta ha Obama contro quegli attacchi duri che saranno il suo pane contro McCain nel caso diventi lui il candidato come ieri è arrivato ad auspicare il Financial Times (). L'editore di destra e crociato degli scandali anti Bill, Richard Mellon Scaife, ha invece scelto Hillary.
La Pennsylvania ha anche un valore nazionale, ci dirà se stiamo assistendo ad un cambiamento epocale. Da queste parti, infatti, abita il tipico elettore che negli anni 80 ha lasciato il partito democratico per diventare parte del tifone reaganiano, consolidandone la base. Classe lavoratrice bianca in crisi di identità, conservatrice sul terreno morale, che ha abbracciato la formula patriottica, moralista, della liberalizzazione e del meno tasse. La crisi del partito democratico, una certa mancanza di idee rinnovate, capaci di parlare a quel momento storico, l'assenza di leader carismatici ha spostato fasce prodigiose di elettorato. Era appena successo in Gran Bretagna e in forme diverse sarebbe successo ovunque. Bill Clinton ha saputo spezzare il ciclo, ma non dare una prospettiva nuova ai democratici. Dopo un mandato si è trovato un Congresso a maggioranza repubblicana e si è spostato progressivamente a destra. Poi Bush figlio ha portato in dote la mobilitazione degli evangelici, una loro partecipazione al voto massiccia e determinante in diversi Stati.
Erano i “Reagan democrats" e a novembre la scommessa democratica è di farli tornare all'ovile. Un ritorno alla partecipazione, all'iscrizione al voto e al volontariato si è già visto altrove, anche in diversi Stati tradizionalmente rossi (è il colore del Grand Old Party, i repubblicani) e anche in Pennsylvania la tendenza è questa. Nel 2002 i democratici registrati al voto furono 3 milioni e 200 mila, seicentomila in meno dei repubblicani, oggi sono 4 milioni e 200mila, un milione in più. Anche in contee rosse crescono i blu. Nel 2004 qui vinse Kerry, e i numeri sembrano dire che i Reagan democrats non ci sono più. La presenza di quella tipologia di elettore favorisce Hillary Clinton che fino ad oggi ha vinto in New Jersey e Ohio, Stati a maggioranza bianca con caratteristiche simili. Obama dovrà cercare di rosicchiare punti tra quell'elettorato e fare il pieno a Philadelphia e dintorni dove vivono più giovani (lo Stato è “vecchio", altro vantaggio per Hillary), più laureati, e una popolazione afroamericana che fa più del 40% della città. L'afflusso di nuovi elettori, immigrati nello Stato o giovani, è una buona notizia per lui. E', come sempre, una questione di coalizioni, di gruppi sociali, comunitari e più spesso una sovrapposizione delle due cose.
Classe e razza. Il reverendo Wright, controverso pastore di Obama e i commenti dello stesso senatore sulla popolazione sui lavoratori delle piccole città industriali in declino che per ritrovare speranza si aggrappano a croce e fucili. A parte il fatto che con altri fattori in gioco il ritorno alla tradizione di queste settimane ricorda qualcosa agli italiani - e perché no, al Pc francese che si ritrovò incalzato nei suoi bastioni del Nord non dai socialisti ma da Le Pen - l'analisi (fatta in privato) di Obama e la retorica a tratti eccessiva del suo padre spirituale sono diventati l'arma in più di Clinton. Di Sanità, Iraq, tasse e crisi economica la gente ha già sentito parlare per mesi e sono le notizie fresche quelle che possono condizionare un voto. E di questo si è parlato nel dibattito Tv di venerdì scorso, seguito da polemiche furiose contro i conduttori della Abc da parte dei giornali progressisti che fanno il tifo per Obama. Per giorni si è discusso sui media se il ragionamento del senatore afroamericano fosse offensivo, se fosse giusto. ha attaccato spesso Clinton nei suoi comizi. L'ex first lady qui, come già in New Jersey e Ohio, conta sui tempi d'oro della presidenza del marito, su una popolazione rurale e lavoratrice che non va pazza per l'idea di votare un nero e vede meglio la continuità democratica che non il cambiamento radicale - e a tratti vago - disegnato da Barack Obama. Contro il senatore si è scagliato anche McCain, che vuole continuare a sfruttare la sua immagine di semi indipendente nel partito per attrarre a sé il voto di alcune aree sociali bianche nel caso il nominato democratico fosse il senatore dell'Illinois. La vicenda del reverendo Wright è più vecchia ma segnerà anch'essa questo voto: a Philadelphia Obama ha tenuto il suo discorso sulla razza proprio per schivare gli attacchi e rilanciare in avanti. La sintesi politica stretta di un lungo testo di tono alto è: in America il problema della razza esiste, le asprezze e la rabbia del reverendo sono il bagaglio di una generazione presa a bastonate nella stagione dei diritti civili. La mia storia racconta che possiamo superarlo, anche per questo sono candidato.
Anche Hillary ha avuto i suoi piccoli guai in questa lunga pausa senza voti. Mark Penn, consigliere del marito e mente della sua campagna ha lasciato dopo mesi di polemiche interne. I superdelegati hanno continuato ad accumularsi nella bisaccia di Barack. Una sua battuta su MoveOn - organizzazione a rete che raccoglie fondi e lancia campagne, schierata con Obama dopo un referendum on line tra gli iscritti - e sui liberal ad una cena per raccogliere fondi susciterà la rabbia dei milioni di progressisti che stanno donando a Obama e potrebbero non darsi da fare per lei. E poi è e resta indietro e il suo argomento sulla non eleggibilità del suo avversario non regge alla prova dei sondaggi - e a quella degli Stati bianchi dove Obama ha vinto.
La chiave del voto in Pennsylvania sta tutta nella capacità di Obama di rispondere ai temi che lo hanno investito. Quanti lavoratori amareggiati sarà riuscito a convincere che il suo era un commento analitico e non una forma di disprezzo. Che i fucili e la croce non sono qualcosa di sbagliato in sé ma rischiano di diventare una trappola, un rifugio senza prospettive? Nessun candidato per qualsiasi piccolo incarico, se non forse in qualche quartiere di New York e San Francisco potrebbe sostenere il contrario e sembra che i gun owners, i possessori di fucili stiano uno contro due con la senatrice (sulla stampa sono apparsi articoli che ricordano l'attività per il gun control, la limitazione alla circolazione di armi da parte di Obama). Se il venditore di speranza avrà fatto bene i suoi compiti la corsa sarà finita e un outsider diventerà candidato alla Casa Bianca. Un fatto tanto storico quanto il fatto che il 45enne senatore non abbia il faccino rosato dei nord europei. Se il messaggio di Obama avrà funzionato in parte, perderà di poco e farà un altro passo verso la nomination e su Clinton le pressioni per lasciare aumenteranno ancora. Se Hillary dovesse vincere con dieci punti di vantaggio, aspettatevi i fuochi d'artificio. Che spesso bruciano le mani alla parte che ci gioca e avvantaggiano il vecchio McCain che aspetta sulla riva del fiume.

21 aprile 2008

Pennsylvania, 22 aprile 2008

Sguardo a volo d'uccello su questa Pennsylvania elettorale. Primo: le notizie di stampo enciclo- pedico sullo stato. E' stato fondato da un quacchero pacifico e molto avanti per i tempi come William Penn, che diede una terra ai suoi confratelli ("quaccheri brava gente": pacifici, tolleranti, open minded). Il soprannome dello stato è Keystone: era centrale nella geografia dell'Unione dei 13 stati, oltre a essere una piccola sintesi dell'economia americana già nell'800. Manifattura più agricoltura e latifondo. L'analista elettorale di casa Clinton James Carville lo ha descritto come "Pittsburgh e Filadelfia con l'Alabama ficcato in mezzo", cioè due grandi cinture industriali con una grande zona rurale che le divide.

In Pennsylvania ci sono 12 milioni di abitanti - è uno degli stati più popolosi - che eleggono 21 "grandi elettori" per le presidenziali del 2008. Il governatore è un democratico, i senatori sono uno repubblicano e uno democratico, Alla Camera dei Rappresentanti ci sono 11 democratici e 8 repubblicani. Il più celebre è il vecchio John Murtha.

Elettoralmente è il classico stato in bilico, tra quelli cruciali per qualsiasi elezione presidenziale. Nel 2004 qui vinse Kerry con due punti e mezzo di vantaggio, e i sondaggi della Rasmussen di questo mese danno in vantaggio qualsiasi candidato democratico su McCain. I sondaggi di aprile che riguardano le elezioni di novembre vanno sempre presi con le pinze, ma la tendenza è a favore dei democratici già da qualche anno (un democratico ha vinto lo stato nelle ultime quattro elezioni presidenziali). Un esempio è la conquista nel 2006 del collegio elettorale dei sobborghi di Pittsburgh, dove a sorpresa un democratico ha battuto la rappresentante uscente repubblicana.
Perché è un esempio importante? Perché si tratta di un collegio formato per lo più da sobborghi residenziali abitati da professionisti bianchi della classe media, con a disposizione un reddito pro capite più alto della media nazionale. Quel tipo di elettorato che più facilmente potrebbe abbandonare i repubblicani stanchi dell'amministrazione Bush, sempre che McCain non si adoperi con intelligenza al loro recupero.

Allo stesso tempo la Pennsylvania è considerata un tipico stato di residenza per i Reagan Democrats, le tute blu che hanno cominciato a votare repubblicano dai tempi di Reagan. Di nuovo è presumibile immaginare che questo tipo di elettorato premi - come in Ohio - la Clinton, la quale vuole affermare l'impossibilità di Obama di fare presa sull'elettorato che possiede questo genere di caratteristiche: tuta blu, bianco, di una certa età, conservatore per quello che riguarda i valori, il più delle volte cattolico e democratico da una vita (spesso per la contestuale frequentazione dell'ambiente sindacale). Nello stato gli over 65 sono il 15,1% della popolazione - contro il 12,4 della media nazionale - e a possedere una laurea è il 25,4%, rispetto al 27% del resto del paese.

I sondaggi oggi danno la Clinton in vantaggio, chi dice di 3 chi dice di 10 punti. A gennaio Obama era sotto anche di 30 punti percentuale. Evidentemente a ragione chi (come l'Economist) sostiene che anche la Pennsylvania è terreno di scontro tra le due americhe democratiche: quella appena descritta e quella "Obamiana", i neri, i giovani, i professionisti della società dei servizi che oggi patiscono gli effetti della crisi finanziaria o sono stufi di Bush.
Sempre l'Economist traccia una sorta di confronto tra i democratici della rust belt di Pittsburgh, cioè delle zona manifatturiera più in crisi, e l'area della Greater Filadelfia (dove si sono impiantate aziende high tech e di servizi). Pittsburgh ricorda l'Ohio, dove i posti di lavoro sono aumentati solo dello 0.5% negli ultimi cinque anni, mentre nell'area di Filadelfia l'occupazione è cresciuta ben oltre il 3% annuo. E nell'area della Grande Filadelfia vive il 60% dei democratici registrati per il voto.

Il risultato delle primarie della Pennsylvania darà un'idea piuttosto precisa del comportamento di voto dell'elettorato democratico, ma ci dirà poco sull'orientamento di chi si registra alle elezioni presidenziali come indipendente. In queste primarie esiste un doppio meccanismo di filtro: possono votare solo gli elettori registrati come democratici e tra loro quelli che lo hanno fatto con almeno un mese d'anticipo. Obama può sperare però che i 100 mila nuovi democratici iscritti a queste primarie siano "gente" sua, mobilitata dai suoi supporter e trascinata dal suo successo mediatico di questi mesi (gli infortuni sono arrivati dopo).

Comunque vadano le primarie (se la Clinton vincesse bene continuerebbe di essere l'unico candidato "presidenziabile", l'unica in grado di vincere negli stati in bilico) qualcuno dovrà ragionare, ancora una volta, su due elementi: come tenere unito il partito democratico a novembre, dove puntare per il futuro. La Pennsylvania, come l'Ohio, è uno stato che non cresce di popolazione, nel quale l'economia va così così (a parte alcune aree) e dove la categorie più allineate al partito sono minoranze in via di estinzione: pensionati e sindacalizzati vecchia maniera. Come il partito democratico italiano, che prende voti dai lavoratori del settore pubblico e dai pensionati. In queste condizioni, un partito può guardare lontano?

14 aprile 2008

Glossario della crisi economica/2. SUBPRIME

La crisi dei mutui

I subprime, (o "B-Paper" o "second chance") sono prestiti che vengono concessi ad un soggetto che non può accedere ai tassi di interesse di mercato (ovvero al mercato prime), in quanto ha avuto problemi con i debiti precedenti. Circa il 25% della popolazione americana ricade in questa categoria. I prestiti subprime sono rischiosi sia per i creditori sia per i debitori, vista la pericolosa combinazione di alti tassi di interesse e cattiva storia creditizia (fallimenti, insolvenze, pignoramenti …).
Poiché i debitori subprime vengono considerati ad alto rischio di insolvenza, i prestatori applicano un più alto tasso di interesse di quanto non farebbero in presenza di un debitore solido ed affidabile. Coloro che proponevano i subprime hanno sostenuto il ruolo positivo di questo tipo di credito: aver esteso l’accesso al credito a fasce di popolazione che prima ne erano escluse.
Dal 2007, l'industria statunitense dei mutui subprime è entrata in crisi. Un'ascesa vertiginosa nel tasso di insolvenza di mutui subprime ha costretto diverse banche d’affari al fallimento o alla bancarotta.
Gli analisti hanno indicato precise responsabilità. Molti hanno sottolineato le pratiche predatorie dei prestatori subprime e la mancanza di una effettiva supervisione da parte delle autorità governative. Altri criticano i debitori per aver contratto mutui, pur ben consci di non poterli soddisfare.
Al momento della forte crescita dei mutui, tuttavia, i tassi di interesse ai minimi storici e stabilmente bassi, lasciavano pensare che fossero convenienti mutui a tasso variabile. I contratti stessi non prevedevano espressamente un interesse massimo applicabile, perché nessuno si aspettava sostanziosi rialzi. La mancanza di un tetto massimo a permesso l’impennata dei tassi.
Molti rapporti sulla crisi evidenziano pure il ruolo della caduta dei prezzi degli immobili, iniziato nel 2005. Mentre i prezzi crescevano, dal 2000 al 2005, i debitori che avevano difficoltà nell'adempiere ai pagamenti potevano sempre vendere oppure accedere più facilmente a nuovi finanziamenti. Dal 2005, però i prezzi delle case sono calati improvvisamente e drasticamente. Da allora non è stato più possibile vendere la propria casa in caso di difficoltà a ripagare il mutuo.
Mentre la crisi si è rivelata e sono cresciuti i timori su un suo peggioramento, alcuni senatori democratici (Charles Schumer, Robert Menendez, Sherrod Brown) hanno proposto che il governo USA fornisca fondi per aiutare i debitori subprime nei guai ed evitare che queste persone possano perdere la loro abitazione. Alcuni economisti criticano la proposta, affermando che potrebbe persino peggiorare le insolvenze o incoraggiare prestiti ancora più rischiosi.
Quali sono le proposte dei candidati per fa pronte alla crisi?
Hillary Clinton ha l’esplicito obiettivo di salvare i titolari dei subprime e le loro case attraverso un programma di incentivi alla ristrutturazione dei “troubled mortgage”(mutui con problemi), di limitazione delle forti penalità inserite nei contratti e di rafforzamento dell’informazione attraverso un grande piano di strutture indipendenti di consulenza che aiutino e proteggano chi cerca casa e finanziamento.
Barack Obama invece, chiede soprattutto agevolazioni fiscali e fondi di sostegno. Per alcuni commentatori appare decisamente più moderato di Hillary.
McCain ritiene, al contrario, che il ruolo di Washington debba essere limitato, rifiutando la creazione di fondi federali. Il candidato del GOP ribadisce le soluzioni proposte per il bail out delle società in crisi (vedi post precedente):
“Non è compito del governo tutelare gli investitori irresponsabili (tra cui per McCain rientrano 2 milioni di famiglie con mutui a rischio). Il governo deve solo prevenire le crisi garantendo la trasparenza dei mercati”. Tutto ciò testimonia come la finanza e il modo di governarla siano entrati a pieno titolo nella campagna elettorale. Una volta, parlare di banche, borse, azioni e tassi di interesse significava rivolgersi a pubblici ristretti e quindi elettoralmente poco significativi. Oggi, e il popolo dei subprime è la più evidente dimostrazione, la finanza e le sue distorsioni riversano i loro effetti su fasce sociali sempre più ampie e sempre più interessate a sapere cosa ne pensano i candidati alle elezioni, candidati che devono mantenere un difficile equilibrio tra gli oggettivi bisogni di protezione delle persone più deboli e i pericoli delle derive populiste, molto facili in periodi preelettorali.

(Matteo Dian)

7 aprile 2008

Glossario della crisi economica/1. BAIL OUT

“To Bail or not to Bail?” questo è il problema

Parte del dibattito economico degli ultimo giorni si è svolto sulla questione del bail out. Cosa significa? Un bail out (letteralmente, tirare fuori dai guai) è un salvataggio di un’azienda in crisi da parte dello stato, di solito attraverso un prestito. La società in crisi beneficia del prestito per evitare la bancarotta, affrontare i debiti e le spese nell’immediato e per ristabilire la fiducia dei mercati. In questo modo si possono evitare le conseguenze economiche, finanziarie e sociali di un possibile fallimento. Questo tipo di salvataggio è però considerato distorsivo dei meccanismi auto regolativi del mercato (l’impresa che sa di essere salvata è portata a rischiare di più, innescando un circolo vizioso che fa venir meno l’avversione al rischio, con effetti negativi sul sistema economico e sul benessere generale).
Il caso più recente e più clamoroso è il bail out di Bearn Sterns, una delle più importanti banche d’affari degli Stati Uniti. E’ anche l’istituto di credito più attivo nel settore dei mutui sub-prime. Per questo Bearn Sterns si è trovata in crisi di liquidità (ovvero il suo patrimonio è ampio, ma a causa della crisi dei mutui molti creditori non riescono a restituire i prestiti). Quando la voce si è sparsa a Wall Street il titolo è crollato e la banca di investimento ha rischiato il fallimento, che sarebbe stato disastroso per l’intero mercato.
A questo punto è arrivato il salvataggio attraverso un prestito di breve periodo (28 giorni) da parte della Federal Reserve e di un rivale nel mercato finanziario, JP Morgan.
Due considerazioni: il fatto che JP Morgan si adoperi per salvare una delle principali concorrenti ci aiuta a capire come in questo momento ci sia un timore diffuso che la crisi finanziaria assuma dimensioni da Grande Depressione del ’29, con un crollo complessivo del sistema bancario.
Inoltre, il bail out in questione segna la più decisa espansione delle competenze della Federal Reserve dagli anni ’30. Questo testimonia una diffusa percezione dell’inadeguatezza delle politiche macroeconomiche dell’Amministrazione Bush e della sua fiducia assoluta nelle potenzialità del free market. (Jeff Madrick sul Huffington Post parla di “fine dell'Era di Friedman”).
Questa questione, che sembrerebbe una disputa tra economisti e finanzieri ha invece importanti risvolti politici. Il governo, cosciente della crisi finanziaria si discosta dalla sua ortodossia economica e “salva” Bearn Sterns, in difficoltà per la crisi dei mutui sub-prime, rassicurando Wall Street. La crisi però colpisce anche migliaia di famiglie che non riescono più a pagare il mutuo e sono costrette ad abbandonare le loro case. Per ora l’Amministrazione Bush non ha in mente nessun salvataggio per loro.
La questione non poteva che finire in cima all’agenda politica di queste settimane.

La senatrice Clinton ha proposto un fondo federale di 30 miliardi di dollari per aiutare i cittadini con problemi legati ai mutui sub prime che rischiano di dover abbandonare le loro case. (La proposta di Obama è simile).
McCain, come riportato dal NYT, ha preso nettamente le distanze da queste soluzioni affermando ““it is not the duty of government to bail out and reward those who act irresponsibly, whether they are big banks or small borrowers.” (Non è compito del governo salvare gli investitori irresponsabili, siano essi grandi banche o piccoli debitori).
La questione del bail out riflette le divisioni ideologiche del passato recente: McCain e il GOP ribadiscono la loro fiducia nel mercato, nella sue potenzialità di autoregolamentazione, senza troppa attenzione agli sconfitti generati dalla crisi economica. Clinton e Obama sembrano proporre una ricetta alternativa basata su un ruolo attivo del governo nel attenuare le conseguenze della crisi sia per le grandi società finanziarie sia per i piccoli risparmiatori. Come evidenziato da Paul Krugman i democratici hanno la possibilità di dare vita ad un patto simile a quello del New Deal: salvataggio in cambio in cambio di regolamentazione per evitare altre crisi. Questa, forse sarebbe, la fine della Friedman Era.


(Matteo Dian)

4 aprile 2008

Quel giorno a Memphis

Massimo Cavallini
Esattamente quarant’anni fa, il 4 aprile del 1968 alle ore 6 e un minuto del pomeriggio, Martin Luther King moriva ammazzato sul balcone antistante l’entrata della camera numero 306 del Motel Lorraine, a Memphis, nel Tennessee. E chi oggi ritorna sul luogo del delitto non ritrova, all’ombra dei nuovi grattacieli del “downtown” e nella fredda luce dei neon che illuminano Beale Street, che la memoria imbalsamata di quel giorno. Tutto com’era allora. Tutto meticolosamente uguale. La balconata, il numero della stanza, il colore delle pareti, il cortile e, oltre la strada, la Bessie Brewer boarding house da una delle cui finestre era partito il colpo mortale. Tutto al suo posto, diligentemente pietrificato nella religiosa immobilità d’un museo – il National Civil Rights Museum – che pur non vantando la marmorea solennità d’un monumento, come un monumento (o come un mausoleo) ha il compito di congelare, nella fredda ed artefatta realtà del mito, il senso ultimo, le più profonde ragioni del ricordo. L’uomo condannato per quell’omicidio, James Earl Ray, è morto in carcere dieci anni fa (il 23 aprile del 1998), in quasi perfetta coincidenza con il trentesimo anniversario dell’assassinio. Ed è, a suo modo, morto innocente. Non per la legge, com’è ovvio, ma per se stesso e, quel che più conta, per la famiglia e per i più stretti seguaci dell’uomo al quale quel monumento è dedicato. Pochi credono che davvero sia stato lui – James Earl Ray, un piccolo e maldestro criminale latitante, uno scialbo personaggio estraneo ad ogni ideologia razzista - a sparare il colpo di fucile che ha ucciso quella che è oggi un’intoccabile icona, un “santino” quasi, della storia ufficiale americana. E praticamente nessuno – nemmeno il House Selected Committee on Assassination, la commissione d’indagine creata dal Congresso nel 1976 – ha in questi anni sposato quella teoria dell’ assassino solitario (“one crazy man”) che nel marzo del ‘69, senza un vero processo, ha chiuso il caso con i 99 anni di carcere inflitti a Earl Ray.
Come l’attentato che, a Dallas, uccise John Fitzgerald Kennedy, e come quello che due mesi appena dopo Memphis, avrebbe stroncato la corsa presidenziale di Bob Kennedy, anche l’assassinio di Martin Luther King si muove in un cono d’ombra popolato dai fantasmi di troppe incongruenze e strane coincidenze, dallo sfregio d’una condanna definita (extra giudizialmente, come si dice in gergo) sulla base d’una confessione che sarebbe stata subito dopo ritrattata, dai fumi fetidi d’una verità prima negata e, poi, cristallizzata in una edificante leggenda. Eppure, non c’è dubbio: per cogliere il significato più autentico di questo anniversario – quello che i mausolei ed i “santini” tendono a nascondere – occorre davvero “tornare a Memphis”. Non per visitare il museo dei diritti civili sorto sul luogo del delitto, ma per ritrovare le ragioni che, in quel giorno d’aprile, avevano spinto il reverendo Martin Luther King verso la più grande città del Tennessee.
C’era uno sciopero in corso a Memphis, in quell’inizio di primavera del 1968. E non si trattava d’uno sciopero qualunque. Ad incrociare le braccia erano stati, tre settimane prima, gli ultimi degli ultimi. Ovvero: i lavoratori delle immondizie, 1200 anime, uomini “invisibili” in grande maggioranza di pelle nera, che, lungo le strade secondarie o immersi nelle fognature, raccoglievano i rifiuti della città. E che come rifiuti vivevano o, non di rado, morivano. Proprio per questo, infatti, la sera del 12 febbraio, lo sciopero era cominciato. Per il cattivo funzionamento d’uno dei camion della raccolta, due lavoratori erano stati risucchiati, come immondizia, dagli ingranaggi che triturano il sudiciume. Le cose che i “garbage men” chiedevano erano legate, nel modo più semplice e diretto, alla difesa della vita e della dignità umana. Chiedevano più sicurezza. Chiedevano una doccia per potersi lavare al termine del turno di lavoro ed un posto dove poter orinare. Chiedevano orari meno massacranti (la giornata lavorativa poteva arrivare a 14 ore, senza straordinari) e salari che consentissero di sopravvivere. Chiedevano la fine della discriminazione (solo ai lavoratori di pelle bianca venivano pagate le giornate perdute a causa del maltempo). Ma per il sindaco della città, Henry Loeb – un personaggio il cui ritratto spicca nella galleria dell’America più reazionaria e razzista – erano soltanto dei “comunisti”, nemici della Patria e dell’ordine. Sovversivi da rimettere al loro posto. La sua amministrazione aveva compensato con un mese aggiuntivo di salario (300 dollari) e con un assegno di 500 dollari le vedove dei due lavoratori morti. E tanto doveva bastare. Nessuna concessione, nessuna trattativa.
Il Martin Luther King che era disceso a Memphis per dare il suo appoggio ai lavoratori in lotta era già, a tutto tondo, una “celebrità” politica. Ma era, nel contempo, un uomo molto diverso da quello che nel 1964 aveva ritirato – a riconoscimento della sua battaglia per i diritti civili dei negri d’America – il premio Nobel per la Pace. E molto diverso, anche, da quello del “Bloody Sunday” di Selma, punto culminante, nel marzo del ’65, della battaglia contro l’apartheid. Lo sfondo della sua visita – uno sfondo turbolento, luminoso e cupo al tempo stesso – era quello del 1968, l’anno nel quale tutti i nodi della Storia d’America erano parsi collidere nel medesimo crocevia. L’anno cruciale della protesta contro la guerra nel Vietnam. L’anno della ribellione nei campus, delle rivolte nei ghetti urbani e, sull’altra sponda, l’anno del consolidamento della “maggioranza silenziosa”. Martin Luther King era, in quei giorni di fuoco, un uomo alla ricerca di nuovi cammini, di nuove verità. Ed era, a suo modo, un uomo solo.
Esattamente un anno prima di quello che sarebbe diventato il giorno della sua morte, il 4 aprile del 1967, nella Riverside Church di New York, King aveva definito in un memorabile discorso – consegnato alla Storia sotto il titolo “Beyond Vietnam”, oltre il Vietnam – le ragioni filosofiche, politiche e religiose della sua opposizione alla guerra (potete leggerne ampi stralci qui sotto). E questo aveva tagliato, in pratica, tutti i ponti che, nel corso della battaglia per i diritti civili, erano stati gettati tra lui ed il presidente Lyndon Johnson. O, per meglio dire, tra lui e l’establishment bianco. «Calunnie demagogiche che assomigliano a comunicati di Radio Hanoi». Così il settimanale Time aveva definito le sue parole contro la presenza americana in Vietnam. E subito il Washington Post aveva fatto eco sottolineando come quelle stesse parole avessero irrimediabilmente «sminuito l’utilità della causa» di cui King era divenuto simbolo. Tra i neri d’America era, intanto, andata crescendo l’influenza di quelle che King chiamava «le sirene della separazione e della violenza». Vale a dire: la forza del “Black Power” che ratificava la “inconciliabilità” tra gli interessi dell’America nera e quelli dell’America bianca, rimarcando la necessità del ricorso alla forza. In questo quadro la nuova e tormentata frontiera di Martin Luther King si chiamava, in quella primavera del 1968, “Poor People Campaign”, campagna contro la povertà. E, contro la povertà, contro la “umiliazione del bisogno e della diseguaglianza" King stava cercando di forgiare una nuova coalizione sociale "senza distinzione di razza" capace, senza violenza, di "ricostruire la società americana» sulla base del nuovo paradigma d’una "giustizia che non ha colore". Ed il suo obiettivo era, per l’appunto, come nel 1964, una nuova grande marcia su Washington. Una marcia per la pace e la giustizia.
Non era la prima volta che King arrivava a Memphis. Solo due settimane prima, il 18 marzo, proprio lui aveva condotto un corteo per le vie della città. Ed aveva, in quell’occasione, potuto ascoltare e vedere le "sirene della separazione e della violenza". Ai margini della manifestazione, gruppi di giovani – chiamati “The Invaders”, gli invasori – avevano fracassato vetrine e rovesciato automobili, consentendo alla stampa locale e nazionale di definire "il pacifista reverendo King" come un proverbiale "lupo nella pelle d’agnello". Martin Luther King era dunque tornato tra gli uomini della spazzatura, tra gli ultimi degli ultimi, per ribadire, una volta di più, il suo “sovversivo” credo di non violenza, la sua fede in una giustizia sociale che fosse, senza distinzioni, giustizia per tutti. La sua idea di un’America nella quale finalmente, come recita la Dichiarazione d’Indipendenza, "tutti gli uomini sono creati uguali".
Raccontano le cronache come King fosse arrivato in città, esausto dopo un lungo viaggio, la sera del 3 di aprile. E come avesse, per stanchezza, deciso di non partecipare all’assemblea che, quella notte, era stata programmata nel Mason Temple, affidando a Ralph Albernathy, il più in vista dei suoi seguaci, il compito di parlare alla gente. Ma non ci fu nulla da fare, i “garbage men” di Memphis volevano sentire lui e solo lui. Sicché a King altro non rimase che lasciare la sua stanza d’albergo e, giunto nel Mason Temple, improvvisare un discorso. Fu così, seguendo d’istinto il filo dei suoi pensieri e dei suoi tormenti , che pronunciò parole (le sue ultime) destinate a restare – come si usa dire – scolpite nella pietra. Parole piene di poesia e di forza. Parole profetiche. Gli annali rammentano quel discorso sotto il titolo “I’ve been to the Montaintop”, sono stato in cima alla montagna. Ma al centro del discorso c’era – come spesso nei discorsi di King – una parabola evangelica: quella del buon Samaritano che, lungo la strada che porta Gerico, assiste un viandante derubato e picchiato dai banditi. Anche l’America, aveva detto King, sta camminando lungo la via Gerico, tutti noi, bianchi, neri, gialli e marroni, stiamo camminando lungo la via Gerico…
Martin Luther King aveva parlato anche di se stesso, del suo cammino. Ed aveva raccontato del giorno in cui, a New York, una squilibrata lo aveva accoltellato. La lama, disse, era penetrata nel petto e si era fermata a meno di un millimetro dall’aorta. Sarebbe bastato uno starnuto e lui sarebbe morto dissanguato. Ma così non fu. Ed oggi – aveva aggiunto – "sono contento di non avere starnutito perché ho potuto continuare a camminare lungo la strada di Gerico". Perché ho potuto vedere il boicottaggio degli autobus di Montgomery e la resurrezione della grande marcia su Washington. Ho potuto vedere Selma. Sono contento di non avere starnutito perché ho potuto venire qui, a Memphis, dove altri viandanti, picchiati ed umiliati, hanno bisogno di amore e di giustizia. "Non so quel che accadrà ora…ma non m’importa perché io sono stato in cima alla montagna…Anch’io, come tutti, vorrei vivere una lunga vita…ma non è a questo che penso ora, perché io voglio fare la volontà di Dio. E Dio mi ha permesso di raggiungere la cima della montagna. E dalla montagna io ho guardato ed ho visto la terra promessa. Forse io non la potrò raggiungere insieme a voi. Ma voglio che voi sappiate che noi, come popolo, raggiungeremo la terra promessa. E per questo, stasera io sono felice. Sono felice e non ho paura di nulla, non temo nessuno. Perché i miei occhi hanno visto la gloria e l’avvento del Signore".
Il giorno dopo, Martin Luther King moriva ammazzato. Ed oggi nel luogo della sua morte sorge un museo il cui direttore, J.R. “Pitt” Hyde è un repubblicano che, lo scorso anno, ha attivamente ed impunemente partecipato ad una campagna elettorale – quella che ha visto la sconfitta del democratico nero Harold Ford nella corsa per un seggio senatoriale – marcata da molto acuti toni razzisti. King – il sovversivo King che sobillava gli uomini della spazzatura e che il Fbi perseguitava - è diventato “patrimonio nazionale”. Ed in una della sale, un manichino-robot ripete incessantemente le parole finali del suo ultimo discorso. Parole intatte nella loro potenza evocativa. Ma l’America che l’ascolta è, oggi, più diseguale che mai. La terra promessa che il reverendo aveva visto dalla cima della montagna, appare perduta oltre gli orizzonti della retorica e del mito. Lontana. Irraggiungibile.

Religione, politica e l'eredità del doctor King

Martino Mazzonis
In America religione e politica si intrecciano in mille forme diverse: il leader della lotta per i diritti civili e gli incappucciati che impiccavano i neri agli alberi erano - e spesso sono - animati dal discorso religioso. La sinistra democratica afroamericana è religiosa come lo è la destra che si domanda se votare il repubblicano McCain che non è abbastanza netto sull’aborto. La religione e il reverendo King sono già entrati due volte nella campagna delle primarie democratiche del 2008. E parlando di MLK si parla di razza come non lo si faceva dai tempi dei diritti civili. Non è un caso.
Nei suoi discorsi, Barack Obama ripete spesso che la sua conversione al sociale negli anni di Chicago è passata per la sua conversione al cristianesimo nella chiesa del reverendo Jeremiah Wright. Grazie alla sua religiosità Obama ha conquistato diversi voti bianchi in qualche Stato dove il suo essere un candidato nero e più o meno liberal non è un buon lasciapassare. Per colpa dei sermoni di Jeremiah Wright, Obama è poi finito sotto il tiro incrociato dei clintoniani e dei repubblicani. In entrambi i casi Obama ha fatto ricorso all’eredità del “doctor King”. Parlando nella chiesa dove predicava, la Ebenezer baptist church di Atlanta il 21 gennaio, prima delle elezioni in South Carolina e a Philadelphia, il 18 marzo, quando era alle spalle al muro e le frasi sull’11 settembre del reverendo Wright (God damn America, Dio maledica l’America)passavano ogni minuto su Fox news, il canale più trash e di destra del palinsesto americano.
Ad Atlanta Obama ha parlato davanti a una platea nera, che faceva “yeah" a ogni frase con riferimenti religiosi. Erano i giorni del voto nel Sud, quelli in cui si diceva che Obama non era abbastanza nero - mentre Bill Clinton, si scherza spesso, è il primo presidente nero d’America. Quel discorso era per i neri: Obama parlava di unità, della sua identità meticcia e del lascito del reverendo.
Quel giorno Obama parlava dei muri che devono venire giù e che per abbatterli serve unità, come nella Gerico del libro di Giosué, un tema caro agli evangelici, un gospel tra i più famosi (“Joshua fit the battle of Jerico”). Il tema era ed è di quelli duri, difficili da masticare e indigesti alle comunità e alla politica americana. “Non possiamo credere che l’unità e la riconciliazione razziale sia facile, che se cacciassimo i demagoghi i nostri problemi sarebbero risolti" diceva Obama. "Ci sono barriere strutturali e istituzionali per il lavoro decente e la salute per tutti. L’unità comincia cambiando i nostri cuori e le nostre menti". E ce n’è anche per gli afroamericani: "Dobbiamo essere onesti: la nostra comunità non è sempre nel solco del dottor King. Abbiamo disprezzato i gay, a volte siamo antisemiti e spesso pensiamo agli immigrati come gente che ci ruba il lavoro". King insomma diventa il luogo da cui Obama trae l’ispirazione per il suo discorso sull’unità.
Poi c’è stata la vicenda del reverendo Wright, il guru spirituale di Obama, quello che lo ha sposato con Michelle e ha battezzato le sue figlie. Per difendersi il senatore ha rilanciato, tornando sulla questione di razza, religione e politica in maniera scomoda, approfondendo alcuni temi che aveva affrontato ad Atlanta. Ma nella chiesa di King giocava in casa, a Philadelphia tutto era diverso, era l’unica settimana in cui Obama sembrava essere sul punto di perdere. Nel discorso di Philadelphia c’è la macchia dello schiavismo nella costituzione e c’è la disobbedienza civile. “Vorremmo continuare quella strada, per un America più giusta e prospera. Abbiamo storie diverse, non ci assomigliamo fisicamente, ma dobbiamo avere un obbiettivo comune". Obama attacca anche su Wright: "Sapevo cosa dice il pastore? Certo! Quel discorso è sbagliato perché divide in un momento in cui c’è bisogno di unità: guerre e recessione non sono roba da bianchi, neri o ispanici. Ma io amo la mia chiesa perché c’è la comunità nera: il medico e la donna che vive di buoni pasto, lo studente modello e il membro della gang; ci sono l’intelligenza e l’ignoranza, l’amore e l’amarezza che costruiscono la vita degli afroamericani". Il problema di Wright, secondo Obama, non è che ha parlato di razzismo, ma che immagina di una società statica. I commentatori si sono schierati e divisi: “Non ha condannato abbastanza", "Ha detto quel che doveva". La questione è un’altra: il video di "A more perfect Union", così si intitola la prolusione, è già stato visto da quattro milioni di persone su Youtube. E tutti dicono che per il suo essere coraggioso e scomodo, questo discorso sembra un sermone di Martin Luther King.
L’effetto del discorso di Philadelphia è stato quello di far tornare il tema della razza al centro della scena politica. E visto che si avvicina l’annversario della morte del reverendo a Memphis, predicatori, politici e studiosi afroamericani parlano di King e Obama. Otis Moss III, il pastore che ha preso il posto di Wright alla Trinty church di Chicago parlando alla televsione pubblica ha detto: "Credo e spero che questa campagna serva a rompere gli steccati, che gli evangelici comincino a parlare di ambiente e povertà come temi religiosi, ad andare oltre le certezze di ciascuno". Un po’ King, un po’ Obama. Harry Jackson la vede diversamente: riconciliazione razziale e giustizia sociale vanno assieme alla lotta contro l’aborto. “Le fondamenta del lavoro di King", sostiene, "erano bibliche e oggi sarebbe un conservatore sociale". Al suo opposto Lennox Yearwood, pastore militante che ha fondato l’Hip-hop caucus: "Abbiamo ancora a che fare con razzismo e povertà e spendiamo più soldi per guerra che per programmi sociali. La nostra è la generazione della speranza per il XXI secolo, l’Iraq è il nostro Vietnam e Katrina è la nostra Birmingham (il luogo del razzismo per eccellenza). Oggi leggiamo King solo con il suo “I have a dream”. Ma King era un radicale". Lewis Baldwin, che insegna Studi religiosi crede che sia proprio la religiosità di King ad aver dato forza al suo messaggio politico: "C’era sempre l’idea che qualcosa di soprannaturale stesse dietro al movimento".
Tutti vogliono essere King. Come spiega Cheryl Sanders, professoressa di Etica cristiana alla Howard university: "Tutti parlano di King e trovano argomenti per dire che starebbe con loro". Sanders parla anche di politica: "Spero che la gente non voti Obama per il colore, ma per come parla di razza e religione. Non dice piccole cose per piacere ai religiosi, ha una visione religiosa delle cose. Anche io mi sento offesa da alcune delle parole di Wright, ma la verità è che c’è discriminazione razziale in questo Paese ed è da la che vengono quelle parole". Peserà questo dibattito acceso sull’eredità di King? Verrà dimenticato come un passaggio qualsiasi della campagna elettorale? Oppure siamo alla vigilia di una trasformazione radicale come quella che Marthin Luther King contribuì a forgiare assieme a Malcolm X ed altri leader? Lo scopriremo a novembre e - se Obama verrà eletto - negli anni successivi. Come ha scritto Alice Walker, l’autrice de «Il colore viola» in un articolo di appoggio al candidato: “Questo Paese è in tale stato che anche se Obama diventa presidente sarà oltre i suoi poteri rimetterlo in sesto". In politica si ha la tendenza a personalizzare e per la comunità afroamericana il dottor King e il senatore Obama sono bandiere. Ma a entrambi sono servite e - semmai - serviranno le energie di coloro a cui volevano e vogliono garantire più diritti.