11 giugno 2009

La sottile linea verde: il dialogo e le elezioni in Iran

Se il presidente siriano Assad sembra aver deciso che in fondo gli conviene rimettersi in gioco, a Teheran la partita è molto più complicata. Innanzitutto dalla lunga campagna elettorale e dai proclami che durante questa sono stati usati dal candidato alla rielezone, il presidente Ahmadinejad. L’ala dura del regime iraniano ha etichettato le aperture di Washington come propaganda: il leader supremo, l’ayatollah Khamenei, ha ricordato che «l’odio che gli iraniani sentono per gli Stati Uniti è profondo» mentre un articolo comparso sul settimanale delle Guardie della rivoluzione, Sobh-e Sadeq, spiegava che, al Cairo, Obama non ha fatto che ribadire vecchi concetti mentre gli Usa continuano a finanziare organizzazioni che vogliono distruggere la Repubblica islamica. Non esattamente aperture.
Eppure diverse agenzie di stampa iraniane (Irna, Isna, Fars) riportano dichiarazioni di figure non secondarie che spiegano che il dialogo non è tabù. Tanto più che un sondaggio pubblicato di recente indica che le priorità degli iraniani sono l’economia, elezioni e stampa libere e migliori relazioni con l’Occidente. Il sondaggio, condotto a maggio, indica Ahmadinejad come favorito di poco e, con il 70 per cento dei consensi, vede le persone interrogate favorire la rinuncia all’arma nucleare in cambio di buone relazioni con gli Usa.
Il terreno sarebbe quindi fertile. Tanto più che Washington e Teheran condividono diverse preoccupazioni a cominciare dalla situazione afghana. Le tensioni crescenti tra Teheran e i Paesi arabi preoccupati per il peso crescente degli sciiti favoriscono in qualche modo il dialogo.
Il primo grande problema che gli americani hanno è capire davvero chi parlare. I centri di potere della Repubblica islamica sono molti e spesso in conflitto tra loro. Lo si è capito un poco durante il regno di Ahmadinejad - con segnali non univoci sulla disponibilità a trattare sul programma nucleare - e lo si è capito benissimo negli anni del riformista Khatami, che perse la sua battaglia politica anche e a causa della quantità di freni e poteri di veto da parte di autorità religiose e istituzionali varie. L’esito delle presidenziali non basterà a spianare la strada al dialogo anche se dovesse vincere Moussavi. E poi, come ha scritto
Mohamed El Baradei, ex capo dell’Aiea che ha tribolato per anni attorno al programma atomico di Teheran, «gli iraniani sono dei bravissimi baazaris (commercianti di baazar, ndr.)» e aspetteranno di capire quel’è il risultato della revisione della politica Usa prima di scoprirsi. E’ un problema che Obama, Clinton e gli altri avranno anche in altri Paesi con i quali vogliono aprire il dialogo.
Il nodo più grande e complicato è però un altro. L’Iran vuole vedersi riconosciuto un ruolo da potenza regionale. E soprattutto, praticamente tutta la classe politica nata con la rivoluzione del ’79 ha come preoccupazione quella di mantenere in vita la Repubblica islamica. Dialogare con Teheran, per gli americani, significa riconoscere questo punto di partenza. Gli ayatollah non vogliono giocare una partita a scacchi sul programa nucleare - per quello hanno rifiutato le proposte europee di aiuti in cambio di rinuncia - ma essere rassicurati sul fatto che il dialogo non sarà la loro fine. Hanno molte armi da giocarsi per convincere gli americani: possono premere sui diversi compagni d’affari europei che hanno (Italia, Francia, Russia), chiudere o meno i rubinetti ad Hezbollah, alimentare il disordine iracheno e altro ancora. Dal dialogo, Teheran ha da guadagnare sul fronte economico e del prestigio regionale. Usa e Iran, insomma, hanno molto da scambiarsi. Ma come a Teheran, anche a Washington c’è chi proprio non vuole discutere: ieri l’ex ambasciatore neocon all’Onu Bolton scriveva sul Wall street Journal che se Israele colpisse le centrali nucleari iraniane non ci sarebbe nulla da temere. Quando si dice gli opposti estremismi.

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