17 giugno 2009

Un convegno sulla crisi iraniana

Ecco una sintesi di alcuni degli interventi al convegno del Centro studi americani di Roma. Tra i presenti: Ephraim Sneh, Già Vice Ministro della Difesa, Renzo Guolo dell'Università di Torino, Nicola Pedde e Nasser Hadian, professore a Teheran di legge e scienze politiche, l'ex ambasciatore a Teheran Toscano, diplomatico di grande esperienza oggi a Delhi. Il professor Hadian ha anche detto cose molto interessanti sulla questione nucleare, magari le useremo un'altra volta.

L'ala militare del regime (i basji), la milizia volontaria che inquadra le masse fin dall'indomani della rivoluzione, pronta a mobilitarsi. L'ala militare è cresciuta nel tempo dopo una fase di debolezza all'interno di un regime nel quale le fazioni esistono, sono forti, rappresentano ceti e interessi e si combattono apertamente.
Nel primo decennio postrivoluzionario, l'ala radicale non clericale ha contato molto, ma dalla morte di Khomeini e durante la ricostruzione del Paese per mano della presidenza Rafsanjani, ha contato poco. Gli assi del regime erano incentrati tra l'alleanza tra religiosi e conservatori pragmatici: l'ala che pensava a una modernizzazione del sistema rivoluzionario, incorporando le milizie rivoluzionarie nelle strutture statuali. Depotenziare questa sorta di poteri paralleli con i comitati da una parte e lo Stato dall'altro. In questo decennio, molto più tecnocratico e liberista che non nel decennio della guerra, con la necessità di questi settori del regime di giunere a una normalizzazione dell'Iran nel sistema delle relazioni internazionali.
I primi passi di Rafsanjani hanno aperto spazi alla spinta riformista, esplosa con l'elezione di Khatami. La coalizione che portò a due presidenze dell'ayatollah era composita: la sinistra islamica, una forte componente di sistema e una parte di giovani e donne che vedevano nel presidente il traghettatore verso un sistema diverso. L'uomo del mutamento moderato, senza implosioni di sistema. La coalizione è implosa perché Khatami non è mai andato allo scontro con la Guida Suprema.
Khamenei, che è soprattutto un politico, uno che sul fronte della filosofia, della dottrina religiosa non è un granché, ha lavorato per recuperare il partito radicale-militare che, una volta tornato al potere non ha accettato un ruolo da sola guardia pretoriana. La mia tesi è che Khamenei non è più solo a decidere. I radicali capeggiati da Ahmadinejad sono penetrati nei gangli del potere ed hanno adottato una politica di spesa pubblica che non è servita a far uscire l'Iran dalla crisi - disoccupazione e inflazione - ma ha redistribuito reddito verso le fasce più deboli in maniera clientelare, creando nuova fedeltà tra i diseredati. Questa è ala base di Ahmadinejad.
L'interrogativo è, quanto Khamenei deve fare i conti con i militari? Il partito radicale non è più emarginabile. Può la Guida Suprema fare a meno dei radicali o, resosi conto dell'errore nell'imbarcare questa fazione può usare la piazza contro i radicali? Attenzione: i basji che sparano sulla folla sono un elemento di rottura simbolica con la rivoluzione. Era successo solo nel 1979 ed erano gli uomini dello Shah che sparavano. Insomma, quanto è Khamenei a condurre il gioco? Sta provando a contrapporre le piazze per riacquistare centralità? Quello che è certo è che l'assetto e la legittimità istituzionale del regime in questi giorni si incrinerà. E che l'Iran non sarà più lo stesso.
Nucleare: le aspettative su Mousavi erano eccessive, anche in caso di vittoria. Come moti riformisti viene dall'ambiente radicale ed ha una forte impronta nazionalista e non avrebbe messo in dubbio il diritto all'energia atomica. Il nodo è come si arriva al nucleare. E' vero pure che gli slogan di Ahmadinejad sono il frutto dell'ambiente che lo esprime - l'ala radicale, appunto - L'Iran come riferimento islamico dell'antimperialismo. Discorso più facile da fare con la presidenza Bush. La sconfessione aperta del discorso di Obama implicherebbe una risposta dura da parte Usa e questo l'ala pragmatica l'ha capito.

Una presidenza Bush avrebbe reso più tollerabile una vittoria di Mousavi: la retorica rivoluzionaria, che non è solo religiosa, ma anche anti-americana e anti-israeliana avrebbe potuto restare la stessa. La domanda difficile da porsi è però relativa al campo riformista: come mai, nonostante molti anni passati al potere e la consapevolezza della presa di Ahmadinejad tra le masse dei diseredati, questi non abbiano a loro volta elaborato una piattaforma populista capace di spostare il voto della parte a ideologica dei ceti più poveri della società.

L'ex viceministro israeliano parla di teocrazia repressiva dalla politica estera aggressiva che non vuole parlare con nessuno. Sneh sostiene che la proposta di dialogo di Obama è tempo perso perché il regime di Teheran e l'amministrazione Obama hanno due idee molto diverse di cosa cavare dal dialogo. L'ex ministro cita il rapporto dell'International crisis group elaborato attraverso settimane di interviste con funzionari iraniani. Da qui si evincerebbe che non c'è nessuna volontà di parlare del nucleare, ma che Teheran vuole un ruolo riconosciuto e la fine di qualsiasi tentativo di rovesciare il regime da parte americana. La verità è che il politico israeliano sembra non cogliere la portata del tentativo di Obama che vuole in realtà parlare di molti altri temi oltre al nucleare. Metterlo quasi da parte, depotenziarlo per poter discutere di Iraq, Afghanistan, Pakistan e commercio dell'oppio. Questa è una delle sottolineature di Hadian, cme naturale più abbottonato degli altri.





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