23 novembre 2008

Il discorso sull'economia di Obama

Good morning.

The news this week has only reinforced the fact that we are facing an economic crisis of historic proportions. Financial markets faced more turmoil. New home purchases in October were the lowest in half a century. 540,000 more jobless claims were filed last week, the highest in eighteen years. And we now risk falling into a deflationary spiral that could increase our massive debt even further.

While I’m pleased that Congress passed a long-overdue extension of unemployment benefits this week, we must do more to put people back to work and get our economy moving again. We have now lost 1.2 million jobs this year, and if we don’t act swiftly and boldly, most experts now believe that we could lose millions of jobs next year.

There are no quick or easy fixes to this crisis, which has been many years in the making, and it’s likely to get worse before it gets better. But January 20th is our chance to begin anew – with a new direction, new ideas, and new reforms that will create jobs and fuel long-term economic growth.

I have already directed my economic team to come up with an Economic Recovery Plan that will mean 2.5 million more jobs by January of 2011 – a plan big enough to meet the challenges we face that I intend to sign soon after taking office. We’ll be working out the details in the weeks ahead, but it will be a two-year, nationwide effort to jumpstart job creation in America and lay the foundation for a strong and growing economy. We’ll put people back to work rebuilding our crumbling roads and bridges, modernizing schools that are failing our children, and building wind farms and solar panels; fuel-efficient cars and the alternative energy technologies that can free us from our dependence on foreign oil and keep our economy competitive in the years ahead.

These aren’t just steps to pull ourselves out of this immediate crisis; these are the long-term investments in our economic future that have been ignored for far too long. And they represent an early down payment on the type of reform my Administration will bring to Washington – a government that spends wisely, focuses on what works, and puts the public interest ahead of the same special interests that have come to dominate our politics.

I know that passing this plan won’t be easy. I will need and seek support from Republicans and Democrats, and I’ll be welcome to ideas and suggestions from both sides of the aisle.

But what is not negotiable is the need for immediate action. Right now, there are millions of mothers and fathers who are lying awake at night wondering if next week’s paycheck will cover next month’s bills. There are Americans showing up to work in the morning only to have cleared out their desks by the afternoon. Retirees are watching their life savings disappear and students are seeing their college dreams deferred. These Americans need help, and they need it now.

The survival of the American Dream for over two centuries is not only a testament to its enduring power, but to the great effort, sacrifice, and courage of the American people. It has thrived because in our darkest hours, we have risen above the smallness of our divisions to forge a path towards a new and brighter day. We have acted boldly, bravely, and above all, together. That is the chance our new beginning now offers us, and that is the challenge we must rise to in the days to come. It is time to act. As the next President of the United States, I will. Thank you.

4 novembre 2008

Due anni vissuti pericolosamente

Martino Mazzonis
Chicago - nostro inviato
è una frase che Barack Obama ripete in ogni comizio da un mese a questa parte. Ricorda la storia recente. Una storia che finisce e comincia questa notte tra l'una e le quattro, quando i seggi chiuderanno da una costa all'altra degli Stati Uniti. Sono quasi due anni che il profeta del cambiamento e il veterano del Vietnam battono ogni angolo degli Stati Uniti. Cercando consensi alle primarie e voti veri. Il democratico è diventato credibile portando ai seggi migliaia di persone nel freddo inverno dell'Iowa, promettendo un'America diversa, un cambiamento vero, ma credibile. Il repubblicano è risorto in New Hampshire, dopo che George W. Bush lo aveva fatto fuori dalle primarie del 2000 usando le tecniche più sporche possibili. A fine gennaio i due senatori incassano il successo della South Carolina. Per uno significa portare a casa il voto della comunità afroamericana, per l'altro vincere lo Stato dove Bush lo aveva fatto uscire di carreggiata otto anni prima. Le primarie per le presidenziali del 2008 verranno ricordate. C'è stato un tempo in cui i partiti Usa arrivavano alle convention con pacchetti di deleghe e, insultandosi, comprando voti, tirandosi sedie, sceglievano il loro candidato. Non è più così. Ma stavolta, in casa democratica ci siamo andati vicini.

La scalata delle primarie
La scelta repubblicana è fuori dal comune. Il drappello non è di quelli particolarmente entusiasmanti: c'è il vecchio Rudy Giuliani, che è ha concluso malamente la sua carriera politica, il mormone Romney, miliardario scaltro che piace all'apparato e a nessun altro, c'è l'evangelico sociale Huckabee, il più duro sui temi etici, il più a sinistra in materia sociale. Vince McCain, il candidato che non piace al partito, il moderato, l'outsider. Tra i democratici la lotta è tra titani: la nomination dovrebbe andare per acclamazione a Hillary Clinton, poi c'è la star nascente della politica Obama, che mette in piedi una rete di sostegno dal basso formidabile e batte subito tutti i record di finanziamento ricevendo centinaia di migliaia di piccole donazioni. E infine c'è John Edwards, terzo incomodo che finisce subito al tappeto. A febbraio, in Florida, McCain porta a casa la nomination, mentre il duello tra Hillary e Obama divide il partito, la sua base, i media. Durerà fino alla convention di Denver, costerà fatica, montagne di soldi e metterà alla prova Obama, ne testerà la capacità di tenere duro ed avere una strategia. Durante le primarie il senatore dell'Illinois dovrà rispondere agli attacchi sul reverendo Jeremiah Wright e sul suo sermone , dovrà parlare del suo patriottismo, della sua religione, del suo nome, dell'amicizia con lo speculatore di Chicago Tony Rezko, della sua inesperienza. Dovrà essere fiero del colore della sua pelle e contemporaneamente farlo dimenticare. Lo staff di Hillary ha fatto il lavoro sporco, trovato gli argomenti anti Obama per i repubblicani. Ma avendo tenuto botta a quello, per il Grand Old Party e per McCain è stato più difficile trovare qualche coniglio (meglio, qualche topo) da tirare fuori dal cilindro per mettere in difficoltà il senatore afroamericano.

Due città, due messaggi
I democratici hanno scelto Denver per la convention perché sperano di rompere il monopolio repubblicano nel selvaggio West. Colorado, New Mexico, Nevada, magari il Montana. Sul palco sono passati i giovani governatori e le giovani governatrici. Tante donne. A sorpresa arriva a dare una zampata Ted Kennedy, che ha mantenuto la promessa di restare vivo per vedere vincere l'uomo che ha appoggiato voltando le spalle alla sua amica Hillary. Obama ha avuto all'inizio il sostegno della nuova leva, poi ha saputo conquistare l'establishement. Adesso il partito è roba sua (con qualche azione pesante dell'ex coppia presidenziale). Un partito cambiato da otto anni di sconfitte brucianti e dai tempi. Un partito in cerca in una nuova coalizione sociale vincente, capace di riconquistare il voto dei lavoratori rapiti da Ronald Reagan negli anni '80, di far aumentare la partecipazione di giovani e afroamericani al voto e di prendere il voto latino, che Bush aveva conquistato promettendo riforme dell'immigrazione che non sono arrivate. Un partito diviso. Tante donne e tanti lavoratori bianchi erano furiosi con Obama. Come aveva potuto questo ragazzino elegante e ben vestito rubare la presidenza a Hillary?
La senatrice era furiosa anche lei. Ma le pressioni del partito e la paura di regalare un'altra volta la vittoria ai repubblicani hanno avuto la meglio. Con un colpo di teatro fantastico, l'ex first lady ha incoronato Obama durante la conta dei delegati a Denver: è comparsa in platea, seguita dai delegati di New York e ha detto: . Un mese dopo avrebbe cominciato, a Scranton, il suo tour per riportare all'ovile i lavoratori bianchi. Il giorno dopo la nomination, la folla che riempiva lo stadio dei Denver Broncos ascoltava il discorso di accettazione di Obama. Addio alla retorica sulla storia personale, meno "Change" e più idee: miliardi da investire in infrastrutture e energie rinnovabili, sanità meno cara, scuola migliore, servizio civile in cambio di college gratuito, una diplomazia più efficace e meno muscolosa. Sul palco generali, lavoratori bianchi, piccoli imprenditori rovinati, maestri di scuola.
John McCain aveva un altro problema a Saint Paul. Farsi accettare da una base che non lo amava. Un indipendente che dopo la batosta ricevuta da Bush stava per mollare il partito. Un divorziato, un moderato che non andava bene allo zoccolo duro, ai conservatori religiosi, ai libertari che chiuderebbero Washington. E allora McCain sceglie Sarah Palin, la governatrice dell'Alaska che più a destra non si può. Pro caccia, anti aborto, rozza come piace alla gente degli Stati sperduti e rozzi, cattiva come deve essere il vice nella campagna elettorale - gli attacchi sono compito del numero due. La scelta è degli strateghi che hanno preso in mano la sua campagna. Della gente di Bush. Fatto sta che mentre il "maverick" nel so discorso raccontava se stesso e la sua dedizione per la Patria, sul palco della convention si alternavano vecchi figuri che sparavano bordate contro Obama e la svolta a sinistra dei democratici. Dopo la tre giorni in Minnesota - dove Bush e Cheney hanno evitato di farsi vedere con la scusa degli uragani - quello è diventato il tono della campagna McCain: vincere in Iraq, difendere i cittadini dai ladri di Washington, dagli abortisti, dai socialisti. Per un paio di settimane ha funzionato. I sondaggi raccontavano di una corsa più tesa. Poi è crollata Wall street.

La crisi e il ritorno di Obama
Il giorno in cui il Segretario al tesoro ha proposto di salvare le banche con i soldi pubblici, McCain doveva partecipare a uno show comico. Non ci è andato spiegando di dover correre a discutere della crisi, ha proposto di cancellare l'ultimo dibattito presidenziale, sospendere la campagna elettorale. A Washington era necessaria la sua presenza. Alla riunione con Paulson, tutti hanno raccontato di un senatore senza idee chiare. Obama ha risposto meglio, non si è fatto prendere dal panico e ha chiesto agli americani di stare tranquilli. Poi, lui e il suo partito hanno ottenuto qualche non grande miglioramento al pacchetto Paulson e lo hanno approvato. La straordinaria macchina elettorale di Obama ha continuato a girare a pieno ritmo, la proposta di un piano di infrastrutture - e quella di intervenire subito in soccorso delle famiglie in crisi - sono suonate come appropriate. L'idea di un nuovo New deal e della fine di un'era cominciata con Nixon e Reagan ha ricominciato a circolare anche fuori dai circoli liberal. Obama torna in vantaggio nei sondaggi. Il cambiamento è sotto gli occhi di tutti ed è in peggio. I repubblicani hanno portato il Paese alla catastrofe, vendono una ricetta usata ed hanno le spalle rivolte al passato. Chi li voterà spera di tornare agli anni in cui tutto andava bene, l'Urss crollava, l'economia tirava, la benzina non costava. Ma Wall street e il prezzo del barile hanno forse aperto gli occhi agli americani. Il mondo sta cambiando rapidamente, il modello americano è in crisi profonda e il ruolo internazionale del Paese non potrà più essere quello di un tempo. Il prossimo presidente ha un compito enorme e pauroso. Oggi andando al voto i cittadini della prima potenza mondiale potranno far finta di non vedere, provare a dimenticare la realtà illudendosi della vittoria in Iraq e accontentarsi di un taglio alle tasse che non aiuterà gli Usa a uscire dalla fossa che si sono scavati. Oppure scegliere un cammino più tortuoso e difficile. In parte ignoto, come lo è sempre il futuro, in parte rassicurante come il tono della voce del candidato democratico.

La democrazia che non ama il popolo

Uno spettro si aggira per l’America, lo spettro della socialdemocrazia. Negli ultimi giorni della campagna elettorale i repubblicani hanno scelto una delle parole utilizzate da Obama in questi mesi – redistribuzione – per descriverlo come un pericoloso socialista. Indirettamente si parlava anche della razza: ogni volta che di Obama si sottolinea la presunta diversità – è americano solo a metà, si chiama Hussein di secondo nome, è un’intellettuale, usa queste parole (“redistribuzione”) che hanno un sapore socialista, cioè una cosa non americana – si ricorda la sua alterità senza menzionarne il tratto fondamentale, il colore della pelle. Evocato un elemento di diversità, l‘associazione che gli elettori sono spinti a compiere è quella successiva, la più ovvia: Obama non è bianco come abitualmente sono i presidenti.

Torniamo allo spettro socialdemocratico. Nel denunciarne l’apparizione il più esilarante è stato il Wall Street Journal del 27 ottobre: Obama aumenterà le tasse per redistribuire ricchezza ma in realtà saremo tutti più poveri; aumenterà la regolazione dell’economia; i sindacati aumenteranno il loro potere. Votando per McCain, dice il columnist Pete Du Pont, si salverà “l’America dall’europeizzazione, il nostro popolo non perderà il denaro e il lavoro e il mercato resterà libero”. Come ci ricorda lo storico Eric Foner in un suo testo fondamentale, “Storia della libertà in America”, l’interpretazione del termine libertà è sempre stato oggetto di battaglie feroci e di vittorie, temporanee, di questo o quell’altro campo.

Il contenzioso ruota attorno a un concetto che è legato a doppio filo alla storia degli Stati uniti - un paese nato da una guerra di indipendenza, e quindi da un processo di liberazione - e che gli americani hanno utilizzato troppo spesso come fosse una clava. Altri storici hanno descritto con grande efficacia quanto il tema della libertà abbia accompagnato quello dell’espansione imperiale, come se quest’ultima fosse ritenuta indispensabile per mantenere la prima. Liquidare tutto questo con l’etichetta di “ideologia” sarebbe troppo facile, perchè questo concetto di libertà - e di democrazia - sono parte integrante di un processo di elaborazione culturale molto sofisticato, attraverso il quale gli americani rappresentano se stessi nel mondo.

Quale libertà e quale modello di democrazia il Wall Street Journal ritiene minacciata? E quale modello dovrebbe rappresentare Obama? Nel primo caso fin troppo facile pensare a quella di mercato di matrice neoliberista, ma si tratta in realtà di molto di più: la concezione di un uomo completamente autosufficiente e libero da legami, che sfrutta le interdipendenze solo in quanto opportunità economiche. “L’uomo nuovo” del capitalismo. La costruzione di questo uomo nuovo è fallita ancora una volta, squarciando il velo sulle macerie umane che essa ha creato.

Che sia un progetto vero, ingenuo, oppure di semplice opportunismo, Obama rappresenta oggi un movimento che va in senso contrario, verso l’inclusione sociale e politica. Un’impresa molto difficile perchè, va ricordato, la democrazia più antica del mondo è la più scrupolosa nel rendere impraticabili i diritti dei propri cittadini.

Fin dal principio le elite politiche americane si sono confrontate, con timore, con il problema del “popolo” e della sua emancipazione. La rivoluzione americana è stata prima di tutto l’emancipazione dei proprietari dallo sfruttamento della madrepatria, ma il carattere universalistico del credo americano è stato reinterpretato e utilizzato da ogni soggetto sociale a tutti i tornanti della storia: tanto dai gruppi più conservatori (soprattutto dai nemici del ruolo pubblico dello stato) che da quelli radicali che lottavano per l’uguaglianza e l’allargamento dei diritti civili. La Costituzione e la Dichiarazione d’indipendenza sono un canovaccio utilizzato, ancora oggi, da ogni forza politica e sociale.

Obama, fin dal principio, ha cercato nell’allargamento della base politica di consenso - sua e del partito democratico – la chiave per tentare di raggiungere la presidenza. Gli Stati uniti sono un paese dove si scoraggia la partecipazione politica (nelle presidenziali del 2004 ha votato solo il 55% degli americani), attraverso gli strumenti più disparati. Per questo la campagna elettorale di Obama è divenuta strumento per l’inclusione politica di gruppi altrimenti marginalizzati: la loro partecipazione al voto è la sua assicurazione sulla vita (politica). Non si tratta di un’impresa semplice, visto che razza di democrazia dell’esclusione è quella americana.

Basti pensare al sistema della procedura di voto - anzi, ai mille sistemi locali - un misto di elementi arcaici, anti-democratici e persino di pura truffa e intimidazione. Il sistema della registrazione individuale al voto, così tanto discusso, è lo scoglio principale. Votare diventa un’operazione complicata che favorisce chi ha soldi, tempo e cultura per farlo e per interessarsi alla politica. Questo sistema nacque agli inizi del ‘900 (prima votava quasi il 90% degli aventi diritto) insieme ad altre riforme nefaste come l’invenzione delle primarie, ideate per indebolire le macchine di partito – piuttosto corrotte - che del voto erano il motore. Da allora si è creata a tavolino una democrazia tagliata su misura per un americano medio - moderato e con quel tanto di soldi in tasca da non doversi lamentare - che vive più nei manuali di sociologia e scienza politica che nella realtà complicata degli Usa. E infatti in America non si vota: alle elezioni di mid-term del Congresso non si arriva mai al 40% della partecipazione elettorale.

Sfogliando un manuale di scienza politica come quello di Theodore Lowi e Benjamin Ginsberg, vi spiegheranno cosa comporta realmente doversi registrare al voto. In molti stati bisogna presentarsi personalmente e con un discreto anticipo di fronte a un pubblico ufficiale, il quale deve certificare che voi siete voi: dovete fornire prova di identità, residenza e cittadinanza. Ci si può registrare quasi ovunque solo nelle ore lavorative - non tutti possono, di conseguenza – e in alcuni stati va ripetuta regolarmente questa procedura; quest’anno è successo che ci si scontrasse sulla congruenza delle liste elettorali con quelle della residenza in mano alle municipalità: se non corrispondevano, via dalla lista degli elettori registrati e annullamento del diritto di voto. Considerando che i poveri hanno il maggior tasso di mobilità... Lo stesso manuale ci spiega come a votare siano soprattutto i bianchi, i ricchi, i laureati e gli anziani.

Per questo l’assicurazione sulla vita di Obama è rappresentata dai milioni di persone che si stanno registrando – grazie soprattutto allo sforzo della sua organizzazione – tra i giovani, le minoranze e i lavoratori sindacalizzati. Un movimento talmente ampio – 5 milioni di volontari, 3 milioni di singoli finanziatori - che pochi giorni fa Newsweek si chiedeva preoccupato quanto esso potrebbe condizionare il mandato di un ipotetico presidente Obama. Un riflesso condizionato, mosso dalla paura che spesso coglie l’intellighenzia americana.

Ovviamente negli Stati uniti esistono un’altra miriade di fattori distorsivi del processo democratico, in grado di neutralizzare qualsiasi cosa appaia di buono: il potere dei soldi e degli interessi privati; la forte personalizzazione del confronto elettorale e dei meccanismi di funzionamento dell’istituzione presidenziale; la menzogna e la manipolazione come strumento della comunicazione politica ecc. ecc. Per questo però, non c’è bisogno di approfondimento: siamo sufficientemente preparati sul tema anche qui da noi.

31 ottobre 2008

Il fantasma di Motown

Martino Mazzonis
Detroit - nostro inviato
Detroit è un fantasma. La civiltà industriale del '900 si sta sgretolando e coprendo di ruggine sulle rive del lago Michigan. Motown, la città che è stata l'emblema della civiltà dell'automobile, la fucina del taylorismo, quasi non esiste più. E' vuota, spenta, priva di un futuro immaginabile. Qui si costruivano le grandi auto scintillanti dai nomi strani che tutti sognavano di avere. Chevrolet, Buick, Cadillac, figlie della General Motors e della altre due Big three, i giganti incontrastati del mercato dell'automobile: Ford e Chrysler. Le auto non si fanno quasi più qui - tutt'al più si assemblano - e i giganti se la passano male. Proprio ieri GM ha diffuso i dati relativi all'ultimo trimestre: meno 11,4 per cento di auto vendute, più di due milioni, meno peggio dello stesso trimestre dello scorso anno. Comunque un disastro tale de far prevedere che quest'anno Toyota, gli odiati giapponesi che diedero il primo colpo al mercato dell'auto Usa negli anni 80, diventerà il primo gruppo per quantità di veicolo venduti. Il mese scorso la coreana Hyundai ha aperto una fabbrica in Indiana, Chrysler ha tagliato 5mila impiegati, in cinque anni il comparto auto americano ha perso (nel mondo) 100mila posti di lavoro. Le "Big three" - come scriveva il Wall street journal domenica scorsa - sono in crisi da anni, hanno un disperato bisogno di capitale per rimanere a galla e ripensare le loro produzioni - ma la crisi finanziaria è destinata a colpirle sua sul fronte bancario che su quello dei consumi. Facendo accelerare la discesa verso il basso: se precipiti non fai in tempo ad aggiustare i conti tagliando i costi, nemmeno licenziando. Si parla di fusione tra GM e Chrysler, "Non avrei mai pensato che Big Three finissero con il diventare le piccole due", dice triste Jamie, una volontaria per Obama che sta lavorando nei pressi dell'ufficio elettorale.
"Il declino non è cominciato con la crisi delle Big three, è precedente. Certo, questa situazione non aiuta", spiega John Mogk, che insegna alla facoltà di Legge della Wayne University e si occupa di pianificazione urbana. Con una serie di mappe racconta l'espansione della città, che dalla fine dell'800 in poi cresce a ondate, per fermarsi negli anni '50 e cominciare a svuotarsi. . Oggi gli abitanti sono 900mila. Secondo Mogk uno dei fattori determinanti della decadenza è il cambiamento della struttura della fabbrica dopo gli anni '50. "Lo spazio era finito e gli impianti industriali non vengono più costruiti in altezza, diventano a un piano. Così si edifica fuori città, i sobborghi crescono in densità e numero di abitanti, la città so comincia a svuotare". E così dalle fabbriche modello, si passa agli scheletri di cemento.
La crisi ha fatto il resto: oggi la città è piccola e per l'80 per cento afroamericani. Attraversare il centro e le zone periferiche che portano a 8 Mile - vialone che segna il limite cittadino divenuto famoso per essere il titolo del film interpretato da Eminem, il rapper bianco più famoso d'America - è un viaggio nella decadenza. Il centro, che come racconta Mogk, era così pieno da non poter ospitare più fabbriche, oggi è vuoto. Rimangono i grandi edifici che segnano i fasti di un tempo, l'ex quartier generale della GM, oggi trasferito in un grattacielo, gli edifici dell'università, qualche teatro, molte grandi chiese, diverse cattoliche, segnale di un tempo ancora più remoto quando la città era abitata di polacchi, italiani, irlandesi. In mezzo spazi vuoti, enormi stabilimenti abbandonati: in venti anni, in tutta la città, sono stati demoliti più di centomila edifici, mentre le licenze concesse per costruire sono 5mila. Fuori dal centro lo spettacolo è apocalittico. Strade che un tempo dovevano essere piene di gente sono vuote, gli unici negozi sono i liquor store, i tutto a un dollaro e qualche banco dei pegni. Sui viali già commerciali le insegne sono cadute, i negozi sono stati buttati giù, non c'è nessuno che cammina. Pochi autobus e una coppia di cinquantenni sdentate che arrancano su un marciapiede sconnesso. Nelle strade con le villette tipiche di ogni città americana, una casa su tre o quattro è vuota, semi distrutta, bruciata. Carcasse di auto, prati incolti, muchi di copertoni o di immonidizie. Qualche senza tetto che occupa i telai rimasti in piedi, uno ha un'inquietante passamontagna di quelli che si usano per le rapine. Se da queste verande negli anni '50 e '60 usciva la musica della Tamla Motown suonata dalle radio locali, oggi si sente solo il rumore degli alberi. In città si fa molto rap e qui è cresciuta la musica elettronica negli anni 90. Segno dei tempi: dalle note allegre di Marta Reeves, Stevie Wonder o dei bambini Jackson 5, all'asprezza delle rime di Eminem o del sound post-inudstriale della techno.
Nelle case occupate rimangono famiglie indigenti, senza lavoro, qualche bambino e diversi ragazzi maschi si aggirano per le strade, cappuccio in testa e aria povera e senza futuro. In queste strade la criminalità è diffusa, mentre in centro, che le autorità cittadine tengono pulito e stanno cercando di ravvivare, non si commettono più reati. "Il lavoro del comune è solo per un pezzetto della città - dice sconsolato Mogk, che la città la conosce palmo a palmo e si capisce che soffre a vederla ridotta tanto male - Sulla stampa si scrive spesso di Detroit, se ne dice bene e male". Indicando la pianta della città spiega: "Le cose buone sono qua - e circoscrive un pezzettino lungo il fiume - le cose cattive qua", e indica tutto il resto dell'area urbana. Per quello che non è il centro non si hanno idee e né soldi. Il tasso di povertà è sopra il 20 per cento, quindi le tasse pagate sono poche e nessuno sembra intenzionato a investire da queste parti: "C'è un poco di sviluppo lungo due direttrici fuori città, niente di clamoroso. Se poi aggiungiamo che le autorità delle contee che confinano con Detroit non collaborano tra di loro, si fanno la guerra, non pensano al futuro, capisci bene che di futuro non sembra essercene". L'ex sindaco democratico, Kwame Malik Kilpatrick, eletto nel 2002 poco più che trentenne, si è dimesso a settembre dopo aver ricevuto accuse di ogni tipo. Oggi è in carcere.
La crisi dei subprime sta dando un altro colpo. E coinvolge anche i sobborghi. Per le strade vuote spesso si vedono i cartelli "Si vende, 1000 dollari". Ovvero, se proprio non sapete dove andare a vivere, qui potete comprare una casa con meno di mille euro. Da gennaio a settembre in città ci sono state 37mila procedure di appropriazione da parte delle banche. Il prezzo medio di una casa in città è diecimila dollari. Nelle strade con qualche casa abitata in più, sulle verande delle case ci sono le luminarie e le zucche pronte per la notte di Hallowen. Meno che altrove, più tristi. Sul giornale locale c'è il racconto di una madre che spiega che quest'anno sua figlia non potrà andare in giro a chiedere "dolcetto o scherzetto?". Nel viale dove vivono, in un sobborgo della città, non abitano più bambini. Hanno tutti dovuto lasciare la loro casa. "L'anno scorso ho comprato dieci pacchi di caramelle e cioccolatini - spiega la signora - quest'anno due, magari qualcuno si presenta e non vorrei non avere nulla da regalare".

18 luglio 2008

Glossario della crisi economica/4. Fannie and Freddie

Cos’è successo questa volta? Quali sono le cause della nuova possibile ondata di crisi finanziaria? Questa volta è colpa di e Fannie Mae e Freddie Mac.
Sono due nomi sconosciuti nel resto del mondo, ma familiari agli americani per la loro funzione vitale: da loro dipende l'erogazione dei mutui normali, quelli "sani", considerati sicuri, almeno fino a ieri. Fin’ora, infatti, la crisi colpiva i debitori subprime, cioè quelli che già avevano avuto qualche problema nel far fonte ai loro debiti. Se la crisi tocca Fannie e Freddie vengono colpiti i prime, cioè chi ha una curriculum creditizio immacolato.
Cerchiamo di capire chi sono Fannie e Freddie e perché sono così importanti.
Fannie Mae (ovvero Federal National Mortgage Association, associazione nazionale mutui) è una banca semi pubblica che ha il compito di erogare mutui a prezzi controllati. E’ un istituzione nata durante il New Deal per immettere liquidità nel mercato immobiliare e permettere alla nascente middle class americana di accedere a finanziamenti per la casa.
Freddie Mac (Federal Home Loan and Mortgage Corporation) ha un compito molto simile a quello dell’istituzione gemella, essendo nata nel 1970 per rompere il monopolio di Fannie Mae in seguito alla sua parziale privatizzazione.
Il compito di "Fannie e Freddie" è essenziale per la salute dell'economia reale. Sono loro a finanziare il 50% di tutti i mutui americani. Negli ultimi mesi a causa della paralisi del mercato dei mutui la loro quota del credito immobiliare è salita fino al 98% di tutti i nuovi prestiti. Anche quando una famiglia ottiene il suo prestito dalla Citibank o dalla Bank of America, oppure da una piccola banca locale, in realtà il finanziatore di ultima istanza è uno dei due "gemelli". Sono Fannie e Freddie che ricomprano i mutui dalle banche ordinarie; ne garantiscono il finanziamento emettendo dei titoli obbligazionari che vengono a loro volta comprati e finiscono nei portafogli delle banche, dei fondi d'investimento, dei risparmiatori. Titoli ultra-sicuri - sempre fino a ieri- non come quella "spazzatura" che ha infestato il sistema finanziario mondiale dalla crisi dei mutui subprime.
Come nel caso del salvataggio di Bear Sterns e del “pacchetto Paulson” torna il problema irrisolto che sta alla base di questa crisi: la grande tensione e incertezza che ancora regna tra le autorità di sorveglianza dei mercati e del sistema finanziario, a cominciare dalla Banca centrale e dal Dipartimento del Tesoro.
Nella bufera di crisi e regole, i titoli dei gemelli hanno perso gran parte del loro valore. La tempesta che si è abbattuta su Fannie e Freddie colpisce quella che doveva essere la zona solida del sistema. Ora che si è dileguata la fiducia anche in queste istituzioni onorate, il contagio della crisi può diventare spaventoso. Finora la caduta dei valori delle case ha colpito duramente le fasce sociali più deboli.
Le famiglie a rischio, quelle che stentavano ad arrivare a fine mese, erano strangolate dai mutui subprime. Ma se ora l'intero credito immobiliare si paralizza, il colpo diventa ben più esteso e più pesante. Nessuno è al riparo, neanche i cittadini dai redditi medio alti riusciranno a ottenere un prestito per la casa. Inoltre il sistema di finanziamento di Fannie e Freddie è in qualche modo simile a quello che ha scatenato il contagio tra mutui subprime e banche d’affari e che ha messo in ginocchio Bear Sterns: quello del mortgage back security, che abbiamo descritto nelle puntate precedenti del glossario della crisi. Il prestatore si copre dal rischio del prestito inserendo il mutuo in un sistema di fondi e titoli derivati della più varia natura e spargendoli per il mondo.
Il Presidente Bush e il segretario al Tesoro Henry Paulson sono intervenuti per tentare di calmare il panico. "Sono due istituzioni molto importanti", ha dichiarato il Presidente. "Oggi la mia preoccupazione primaria è sostenerle", gli ha fatto eco Paulson.
Bernanke e Paulson sono stati chiamati al Congresso a spiegare i loro progetti. Entrambi hanno chiesto al Congresso maggiori poteri per sanare le crisi di società finanziarie, sottolineando però le difficoltà della sfida. Bernanke, da parte sua, già aveva cercato di coniugare l'obiettivo di avere un polso più fermo per prevenire e risolvere crisi con la necessità di evitare moral hazard, ovvero salvataggi che incoraggino eccessivi rischi. Ha detto anche di «non voler ripetere l'esperienza di Bear Stearns » . E ha invitato il Congresso a ampliare i poteri della Fed, con una legge che sancisca più stretti controlli su banche d'investimento e altre società di Wall Street.
Per l’amministrazione si ripropone, forse in termini ancora più netti, il solito dilemma “to bail or not to bail?”. Salvare o non salvare Fannie e Freddie?. In questo caso la risposta non può che essere positiva dato l’impressionante rischio che stanno correndo le famiglie americane.
Anche Reagan in occasione della crisi “save and loan” ricorse al salvataggio, mettendo da parte per l’occasione l’ortodossia liberista.
In periodo di elezioni, questo ulteriore sviluppo della crisi potrebbe convincere sempre più elettori a scegliere l’opzione “change”, ovvero quella di Obama (che si era già dichiarato a favore di un intervento a sostegno delle famiglie indebitate con i subprime). La crisi di Fannie e Freddie, due simboli del sogno americano e della middle class, potrebbe essere la crisi dei suburb, quelle cinture di villette a schiera che circondano le metropoli e che costituiscono una colonna portante della base repubblicana. Il fallimento della ricetta economica di Bush, fatta di “Ownership Society” e fedeltà assoluta nelle capacità di autoregolamentazione del mercato è sempre più evidente e inizia a colpire anche le fasce benestanti.
Perciò questa crisi potrebbe colpire McCain che punta a giocare la campagna elettorale sui temi della sicurezza e non su quelli dell’economia. Inoltre il senatore dell’Arizona, pur ammettendo la necessità di salvare Fannie e Freddie, si propone come continuatore delle ricette economiche di Bush e Reagan, difendendo un modo di pensare l’intervento federale nell’economia che sembra sempre di più inadatto alla complessità del mercato e alle esigenze della società americana.

25 giugno 2008

La destra religiosa alla prova del 2008

Martino Mazzonis
Lo sguardo fiero, la prosa profetica, l’abitudine alle foto assieme al presidente. Dalla fine degli anni ’70 i paladini dell’evangelismo frequentano la Casa Bianca, le forniscono voti, dettano l’agenda morale al Paese e fanno pressioni sulla Corte Suprema. Per anni ci siamo abituati ad immaginare gli evangelici americani come a una falange romana pronta a tutto per il bene del partito repubblicano. Sermoni infuocati, odio nei confronti dei nemici politici, fiamme dell’inferno evocate ogni quattro parole. Per anni quest’immagine ha avuto un senso. Da Reagan in poi il blocco degli elettori che votavano repubblicano a partire da valutazioni morali è stato uno dei pilastri della lunga stagione conservatrice cominciata con Nixon.
Il 2008 potrebbe rappresentare un momento di passaggio anche per l’elettorato religioso. I grandi costruttori del consenso religioso ai repubblicani stanno morendo uno ad uno o andando in pensione e le vittorie di George W. Bush, architettate dal suo cervello Karl Rove, frutto della grande mobilitazione evangelica, potrebbero essere le ultime costruite così. Rove teorizzava che le elezioni si vincono mobilitando al massimo la propria base e portando a casa gli Stati decisivi per ottenere la presidenza. Il sistema elettorale americano è tale che non serve prendere più voti ma eleggere più grandi elettori - eletti nei singoli Stati, più o meno in proporzione alla popolazione. Nel 2004, l’Ohio fu vinto proprio grazie alla grande mobilitazione dei religiosi: Rod Parsley, predicatore di destra che oggi sostiene McCain aveva proposto un referendum sull’aborto, garantendo così una grande affluenza alle urne dei value voters, gli elettori che votano in base ai valori morali.
Nell’America del 2008 sembra che alcune di queste cose stiano cambiando. Sia McCain che Obama potrebbero avere la possibilità di vincere le elezioni strappando all’avversario Stati e voti che negli ultimi decenni sono stati saldamente in mano al partito avversario. Una delle tante ragioni della possibilità di Obama di farcela sta nelle crepe enormi che si sono prodotte nel blocco evangelico. In primo luogo la colpa è di Bush. La crisi, la guerra e la mancanza di successi in materia di pubblica morale non sono compensati dalla generosità con cui le casse federali hanno dato soldi alle congregazioni religiose. Di quei soldi hanno beneficiato solo i pastori e le loro organizzazioni. Poi c’è la mancanza di fascino esercitata dal candidato McCain sui leader e cristianissimi elettori. Seppure lo staff del senatore repubblicano stia facendo di tutto per corteggiare la lobby del Vangelo, ricordando i voti contro l’aborto e criticando la recente decisione della Corte suprema sul matrimonio gay, le cose non funzionano. Il veterano non ha le carte di George W., non è rinato in Cristo e criticò alcuni dei leader religiosi schierati con Bush nelle primarie del 2000, definendoli «agenti dell’intolleranza». James Dobson, fondatore dell’impero Focus on the Family, la figura pubblica più visibile sul fronte della destra evangelica negli ultimi anni, non ha appoggiato ufficialmente McCain e i suoi collaboratori sostengono che non lo farà.
La difficoltà di McCain è anche tattica: per vincere gli servono voti indipendenti, la mobilitazione del proprio elettorato non basterà a vincere, e per averli non si può essere un candidato con il marchio dell’intolleranza religiosa. Per questo, dopo aver corteggiato Rod Parsley e John Hagee ha dovuto rifiutare il loro appoggio. I due le hanno sparate grosse su Hitler, i musulmani e altro ancora, con loro gli indipendenti non si convincono. Ma senza la mobilitazione dei religiosi ci sono Stati dove i repubblicani non hanno possibilità di vincere.
Obama questa verità la conosce e si è messo a caccia di una parte di quell’elettorato. Non può pensare di corteggiare quelli che interruppero l’insediamento della Camera dei rappresentanti nel 2000 perché invece di un cristiano c’era Venkatachalapathi Samuldrala, religioso indù, a pronunciare la benedizione. E neppure quelli che stazionano agli angoli delle strade con foto di feti squarciati o quelli che mandano i figli ai Jesus camps, dove i bambini imparano di essere peccatori destinati alle fiamme dell’inferno. La strategia è duplice: convincere e ridurre il danno, non diventando oggetto di una campagna feroce. Per questo secondo aspetto, all’inizio del mese Obama ha incontrato diversi leader religiosi a Chicago per discutere di aborto, povertà, sistema sanitario, spiegare il suo punto di vista. «Non cercavamo voti» ha spiegato un suo portavoce. La caccia ai religiosi però c’è: ci sono alcuni evangelici progressisti che lavorano nello staff del senatore democratico e ragionano su cosa dire e come parlare a quei segmenti di elettorato bianco che si lasca guidare dai valori morali anche nella scelta del presidente. Nelle primarie Obama ha perso quei voti a scapito di Clinton negli Stati democratici, e nel 2004 Kerry perse perché evitò la questione religiosa mentre Bush la cavalcava.
Ma le possibilità democratiche di riconquistare un pezzo dell’elettorato religioso, e segnatamente di quello evangelico, passa per un mutamento profondo avvenuto proprio dentro al mondo dei pastori di anime e delle loro organizzazioni. La vecchia guardia repubblicana doc sta passando a miglior vita e il suo impianto ideologico viene pesantemente messo in discussione. Troppo funzionale ai repubblicani, troppo ideologico, troppo politicizzato nel senso deteriore. I giovani evangelici invece sono molto preoccupati per l’ambiente e mettono la protezione del creato e la povertà davanti alle crociate contro l’omosessualità.
Non si tratta di uno spostamento “a sinistra”, ma di una acquisizione di indipendenza e di una maggiore frammentazione. A marzo di quest’anno, la Southern Baptist Convention, gruppo teologicamente conservatore, ha emanato un documento in cui chiede ai suoi affiliati di predicare e lavorare per la protezione dell’ambiente. L’aborto non si dimentica, ma non è più l’unica priorità. I repubblicani, così vicini alla lobby petrolifera, faranno bene a metterselo in testa.
Che le crepe nel rapporto tra evangelici e politica di destra stiano diventando crateri, sembra confermarlo l’Evangelical manifesto, un documento firmato da 90 eminenti pastori e teologi, liberali e conservatori, reso pubblico a maggio. Leggendolo si ha l’impressione non ci sia scritto nulla. Un tratto caratteristico dei documenti politico-religiosi a scopo interno. Eppure il manifesto ha suscitato un vespaio. Il documento non esprime una visione politica, ma chiede più indipendenza, cerca di portare fuori dall’abbraccio con la destra di Washington le chiese evangeliche del Paese. Troppa partigianeria, troppo odio, eccesso di attenzione su due o tre No (aborti, divorzio, matrimonio gay) e assenza di interesse al resto.
L’anno scorso il presidente designato della Christian coalition decise di non accettare l’incarico perché la sua attenzione a lotta alla povertà e all’ambiente non era accettata dai dirigenti anziani della coalizione. Joel Hunter, così si chiama, è un moderato conservatore ed è solo l’ultimo segnale che c’è una vecchia America dell’evangelismo poulista e minaccioso che sta perdendo forza, nonostante la sua forza organizzativa e materiale non è più in sintonia con le sue anime (o con una parte cospicua di queste). Non sarà un caso se in questi giorni esce in libreria “La fede di Barack Obama”, di Thomas Nelson, autore di best seller religiosi, in cui si spiega che il senatore è certo un liberale, ma è uomo di profonda fede. Come un pezzo consistente della nuova generazione di evangelici. Nelson è stato biografo della conversione religiosa di un altra figura importante, il suo libro più venduto parla della rinascita in Cristo del presidente Bush.


SCHEDA: qualche numero sugli evangelici
Gli evangelici sono poco più del 25 per cento dei cittadini americani, i cattolici sono il 23, i protestanti tradizionali (luterani, anglicani, presbiteriani) il 18, gli affiliati alle chiese di tradizione afroamericana il 7 per cento. Ebrei e mormoni contano entrambi intorno all’1,7, mentre i non religiosi sono il 16 per cento. Affiliati alle chiese a prevalenza nera ed evangelici sono i gruppi religiosi con il reddito medio più basso.
Le chiese evangeliche possono essere singole mega edifici in mano a un singolo predicatore famoso, reti di pastori collegati tra loro e uniti da un tipo di predicazione e credo, hanno le loro televisioni, organizzano incontri e settimane di preghiera in stadi e palazzetti, hanno le loro università. Non c’è una gerarchia, ma la capacità predicatoria e imprenditoriale di ciascun predicatore rende il suo gospel il più ascoltato e venduto a seconda dei periodi.
In Oklahoma, Arkansas, Tennessee gli evangelici contano più di metà del totale della popolazione. Sono più o intorno al 40 in Ohio, Texas, North e South Carolina, Alabama, Mississippi, Kentucky, Missouri. All’80 per cento sono bianchi, il 56 per cento ha un’educazione che va dalle scuole superiori in giù, il 13 per cento ha l’equivalente di una nostra laurea.
Gli evangelici sono all’80 per cento contro il matrimonio gay (la media nazionale è 55 per il No) mentre sostengono la pena di morte al 74 per cento (la media Usa è 62).


Religione e politica, una cronologia

1973
La sentenza della Corte costituzionale Roe Vs. Wade, che consente l’aborto, apre un enorme dibattito sui temi morali. La battaglia contro questa sentenza e altre della Corte è, da ora in poi, uno dei principali temi della mobilitazione evangelica.

1976 Il primo a raccogliere e portare in politica la rinascita in Cristo è Jimmy Carter. Viene dalla Georgia, non dagli Stati in mano al suo partito. Ne ’76 porta a casa il 56% dei voti battisti e viene eletto. Tutto il Sud vota democratico (nel 2000 e 2004 sarà l’esatto contrario).

1978, nasce Christian voice, una campagna che fa le pagelle ai poltici sulla base dei valori morali e del loro modo di votare in Congresso sui temi cari agli evangelici.

1979, è l’anno chiave. Jerry Falwell porta la croce nell’urna costruendo la Moral majority. Basta avere paura delle istituzioni, Falwell parla di politica e ne parla tanto, non gira attorno alle questioni e organizza il voto. Nel primo anno la sua organizzazione raccoglie 400mila iscritti e gioca un ruolo determinante nel successo di Ronald Reagan nel 1980

1985 George W. Bush passeggia su una spiaggia del Maine assieme a Billy Graham, consigliere spirituale di diversi presidenti e influente predicatore. Comincia la rinascita in Cristo, se ne sentirà parlare una ventina d’anni dopo. (Dell’aneddoto esistono diverse versioni).

1988 In 3 milioni firmano la petizione che chiede al telepredicatore Pat Robertson di cercare la nomination repubblicana.

1990 Robertson fonda la Christian Coalition utilizzando i fondi della campagna presidenziale fallita. La coalizione religiosa organizza la registrazione e partecipazione al voto in favore di candidati vicini alle idee del gruppo.

1993 L’introduzione della regola “non chiedo/non dire”, che consente agli omosessuali di fare il militare - senza potersi dichiarare, senza che gli venga chiesto - scatena una campagna contro Bill Clinton

2000-2004 Bush junior vince due volte. Il voto evangelico è determinante. La geografia del voto, che regala gli Stati dove le organizzazioni e le mega chiese sono più presenti ai repubblicani, sembra diventata una costante della politica americana.

2006-2008 New Jersey, Vermont, Massachussets e California decretano che le coppie dello stesso sesso devono avere gli stessi diritti di quelle eterosessuali. Nel 2008 la Corte suprema autorizza la California a procedere con i matrimoni gay. In una campagna elettorale centrata su economia, Iraq, energia e ambiente, i valori rischiano di tornare. Aiuteranno McCain?

2007 Joel Hunter, presidente designato della Christian coalition, non accetta l’incarico. La sua visione dell’intervento in politica - oltre i no ad aborto e matrimonio gay, per la difesa dell’ambiente e la ricostruzione dell’organizzazione dal basso, dice, non è condivisa dal resto della direzione della Cc.

11 giugno 2008

L'americanizzazione incompresa

Americanizzazione. E' così che molti interpretano la catastrofe del 14 aprile per dipingere la direzione verso la quale corre il treno della politica italiana. Ma cos'è l'americanizzazione? Ci serve una narrazione della vicenda nella quale siamo immersi che utilizzi questa interpretazione? O non c'è un rischio di attribuire un'etichetta, decidendo che questa funziona perché è la formula che si usa dalla caduta del Muro di Berlino? Negli anni della febbre da maggioritario, metteva d'accordo molti: quelli a favore e gli aspri critici. Non è una coazione a ripetere? E, più di tutto, che cosa vuol dire americanizzazione?

La prima risposta che viene in mente è quella legata al bipartitismo: negli Stati uniti è in vigore un sistema elettorale mal funzionante e criticato, con un forte deficit di rappresentanza democratica. Il risultato sarebbe un sistema dove tutti corrono al centro, promovendo politiche più o meno simili e inseguendo più o meno lo stesso elettorato. Questo non è vero da molto tempo: i repubblicani hanno dimostrato che si vince costruendo un’identità politica forte e con l’organizzazione delle proprie “truppe”. Quello che un tempo facevano i partiti europei. La corsa al centro ha caratterizzato i democratici della Terza via alla Bill Clinton: peccato che quella generazione politica, e quell’ideologia debole, sia già defunta.

Da noi non esiste un sistema bipartitico. A destra c’è una coalizione composita (nel quale la Lega certo non corre al centro), tenuta assieme dalla figura del Capo. Finché c’è lui. Dall’altra parte un capetto che ha cercato di uccidere la sinistra, e che invece si è suicidato nella sua corsa a destra. Senza un risultato così disastroso (che chiama in causa le scelte della sinistra prima delle strategie di Veltroni) ci sarebbe anche la sinistra. Forse il nostro quadro politico istituzionale somiglia più alla Spagna o alla Germania con i loro partiti localistici ben radicati e spesso determinanti, piuttosto che agli Stati uniti. La misura del nostro ragionamento, però, è quella di due fallimenti: l’americanizzazione c’entra poco.

E allora cos'è l'americanizzazione? Una campagna elettorale di plastica? L’applicazione delle regole del marketing alla lotta politica? Lo scarso dibattito sulle grandi questioni che appassionano o preoccupano gli elettori? Lo scarso protagonismo dei lavoratori e dei cittadini? Se è così, allora non ci siamo proprio. Anzi, l'America del 2008 sembra andare in direzione opposta rispetto all'idea di americanizzazione che abbiamo e che tendiamo troppo facilmente a usare.

Durante questa campagna per le primarie si stanno battendo tutti i record di partecipazione, specie sul versante democratico. Ovunque. E più in generale le organizzazioni comunitarie, i sindacati, i comitati che organizzano la registrazione al voto, stanno facendo uno sforzo epocale per far aumentare la quantità di persone che eleggerà il prossimo Congresso e il prossimo presidente. A differenza delle primarie del Pd italiano, poi, le primarie americane si stanno dimostrando un grande esercizio democratico su entrambi i fronti.

I repubblicani hanno nominato McCain contro la volontà della testa del partito e dell'amministrazione in carica. E sei mesi fa chiunque avesse detto che forse Hillary Clinton non sarebbe stata nominata in un batter di ciglia sarebbe stato preso per idiota. Barack Obama ha saputo mobilitare milioni di persone, come i piccoli finanziatori della campagna, le centinaia di migliaia di volontari. Sul successo di questa campagna, sul suo mix di modernità e lavoro territoriale di base occorrerebbe davvero riflettere, forse studiare (prima che lo facciano tutti gli altri).

Per vincere Obama attinge alla tradizione politica del suo paese. E funziona. Da noi si scimmiottano le mode altrui: la sconfitta veltroniana – e la lezione di Obama – mostrano che per guardare al futuro bisogna saper fare i conti con quello che si è stati e trasformarlo in risorsa, senza però cristallizzare i simboli come fossero pietre. Obama, tra l'altro, raccoglie enormi consensi tra quei giovani stanchi di Washington e del suo modo immobile di funzionare: detto in italiano, prende l'antipolitica, le fa una proposta politica e la fa partecipare al processo politico.

Quanto alla società americana in generale, negli ultimi anni a centinaia di migliaia hanno sfilato contro la guerra - e la guerra è già costata le elezioni di mezzo termine ai repubblicani; i sindacati, specie quelli nei settori dove il lavoro è più precario e sfruttato, sono in crescita e sperimentano grande innovazione come nella SEIU; gli immigrati hanno saputo organizzare un movimento che ha portato nelle piazze più gente di quanta non se ne fosse mai vista nella storia degli Stati uniti d'America. Non esattamente una palude della politica, quella americana.
Se si parla di contenuti è la stessa cosa. Sanità, commercio internazionale, guerra, posti di lavoro volati all'estero, crisi strutturale del ruolo e della percezione che l'America ha di se stessa, immigrazione, riforma della politica e persino rapporti tra le razze. I temi della campagna elettorale sono questi. E' di questo che bisogna rispondere all'elettorato, è questo che chiedono i giornalisti aspettandosi risposte puntuali e incalzando di fronte alla vaghezza. In America una conferenza stampa può essere un incubo, anche per il presidente. La sala stampa della Casa Bianca non è Palazzo Chigi e nemmeno il Cremlino.

Così dipinto il panorama politico degli Stati Uniti d'America sembra un paradiso. Non è così. Negli Stati Uniti le lobby sono un pezzo fondante del sistema, la partecipazione politica è ancora troppo bassa, i partiti spesso carrozzoni personalistici. E poi non c'è la sinistra. Ma quella è anche la storia di quel paese, una storia diversa da quella italiana. Ma per quanto sia un sistema non entusiasmante, quello americano non somiglia, ci pare, a quello italiano.
In Italia nessuno ha messo a tema la questione della crisi epocale che vive il paese, né stavolta, né in passato. E l'unico che mette a fuoco il tema della crisi della globalizzazione dei mercati è il futuro ministro dell'economia Giulio Tremonti, manifestando il paradosso che, in Europa, a guidare il ritorno del dirigismo e dell’interventismo pubblico in campo economico sarà la destra.

Esistono aspetti di “mercatizzazione” della politica molto americani, comuni a tutto l’occidente. E’ un fatto: ma da noi c’è una crosta d’America sotto un magma antico. Il ritorno del trasformismo politico, la venerazione per il capo, la richiesta di ordine della borghesia impaurita del nord, il sud dei notabili e delle clientele.
Americanizzazione è una formula troppo facile, che legge troppo poco di quanto accade nella società italiana: siccome le formule tendono a incrostarsi, si ripetono, si fossilizzano, dobbiamo invece raccontare, interpretare e criticare la società italiana per quello che è, senza usare la scorciatoia della “deriva americana”. Non serve a capire, serve solo a dare certezze.

Lezioni di organizzazione (Obama e l'Italia)

Obama e l’Italia fin’ora è stato solo un matrimonio d’interesse. Per di più una delle due parti (quella americana) aveva molto poco da guadagnarci. E’ inutile tornare sul tormentone amaro del “Yes, We Can”, il “si può fare” veltroniano. Ma la storia di quello slogan dà un idea della distanza tra Stati uniti e Italia. Di là dall’oceano si recupera uno slogan radicato nella propria cultura e tradizione politica, di qua si ricerca uno refrain pubblicitario senza curarsi del fatto che a mancare è il prodotto.

Obama ha tradotto in inglese e fatto suo lo slogan "Si, se puede", lanciato da Dolores Huerta nel 1972 durante il digiuno di protesta di Cesar Chavez, allora a capo della lotta contadina degli ispanici della California. "Si, se puede" è anche il motto del sindacato fondato da Chavez e Huerta, lo United Farm Workers. Obama ha acquisito lo slogan un paio di anni fa: "Yes, We Can" era il nome di un programma di educazione politica per giovani neri. 20 persone da formare come organizzatori di campagne elettorali, con particolare riguardo a quelle nei ghetti neri. "Yes, We Can" si è trasformato, quindi, in un videoclip che ha musicato un discorso di Obama, infarcito di celebrità, che ha fatto il giro del mondo. E lo slogan, alla fine, è arrivato in Italia.

Qui tutti tirano Obama per la giacchetta. “Il Foglio”, per esempio, oscilla tra la tradizionale ostilità per i liberal all’apprezzamento verso l’approccio messianico del candidato democratico: per Ferrara va bene qualsiasi cosa ricordi un afflato di spiritualità religiosa. Al Partito democratico italiano bastava l’elemento della novità (“change”), allo scopo di galvanizzare le proprie truppe confuse da tanti cambi di identità e a rischio di affogamento nel partito liquido. L’ironia è che l’unico a fare propria la lezione di Obama con successo è stato Umberto Croppi, l’attuale assessore alla cultura di Roma e capo della comunicazione di Alemanno durante la campagna elettorale: mentre il senatore dell’Illinois si riferiva incessantemente alla “solita Washington che dobbiamo cacciare”, la destra sociale romana concentrava la sue invettive contro “il solito gruppo di potere” che comandava la città. A quanto pare è un mantra che funziona.

L’elemento che in Italia è stato analizzato poco o niente – allo scopo di farne tesoro - è quello del modello organizzativo della vittoria di Obama. Mentre i partiti italiani si cesarizzano o si polverizzano, in America si procede a un’europeizzazione del sistema dei partiti, sempre più distinti nelle opzioni culturali e ideologiche, sempre più organizzati su una base di stabilità e continuità di lavoro tra un’elezione e l’altra (fino a poco tempo fa i partiti erano mere agenzie di sostegno elettorale a imprenditori politici che utilizzavano il franchising repubblicano o democratico).

Obama ha cominciato la sua carriera politica come “community organizer” nei ghetti di Chicago, seguendo gli insegnamenti di un radicale non marxista come Saul Alinsky, un nome della sinistra americana mai sufficientemente celebrato. Laddove il rapporto con la politica si riduce al voto di scambio o non esiste, le reti sociali di un quartiere o di una città vanno ricostruite su basi nuove: non bastano (o non sono credibili, o non esistono..) i partiti, servono persone inserite o capaci di inserirsi nei tessuti sociali, tecniche per farlo, educazione politica, continuità di lavoro, strumenti culturali per leggere la società nella quale si vive.
Obama vuole nazionalizzare questa sua esperienza locale: pochi giorni fa ha spronato il suo staff affinché costruisse “la migliore organizzazione politica degli Stati uniti”.

A causa del colore della sua pelle la sua candidatura è una scommessa, è intende vincerla grazie all’organizzazione. Ancor prima del messaggio: al di là del chiacchiericcio mediatico, i simboli che non hanno gambe e sostanza (o che non parlano più alle persone) durano molto poco. La sostanza è tanto nell’organizzazione e nelle tecniche che la determinano, quanto in un profilo culturale che riscopre parole d’ordine ed elementi culturali che hanno sempre fatto parte della tradizione democratica e liberal. E’ come se si cercasse di risvegliare il progressista dormiente – e il suo orgoglio - in ogni elettore democratico americano. In questo modo Obama ha saputo dare uno sbocco al disagio sociale e all’insofferenza di questi ultimi anni: in America Robin Hood non è amico di Tremonti. Riflettere su questo è il migliore insegnamento possibile per la sconcertata sinistra italiana.

29 maggio 2008

La Casa Bianca di Bush? Un porto delle nebbie (il libro di McClennan)

Martino Mazzonis
Un porto delle nebbie. Così verrà ricordata dagi storici la Casa Bianca dell’era Bush II. Non c’è ex generale, collaboratore, portavoce, aiutante che, lasciando l’amministrazione in carica, non abbia sparato a zero su Cheney e la sua marionetta presidenziale. Gli unici a stare zitti o a svicolare sono Rumsfeld e Wolfovitz le figure portanti finite male. L’ultimo della serie è Scott McClellan, ex capo ufficio stampa della Casa Bianca per sei anni che ha pensato bene di dare alle stampe un libro che colpisce una presidenza barcollante e ai minimi storici per approvazione.
Il libro di McClennan si chiama “Cosa è successo: dentro la Casa Bianca di Bush e la sua cultura washingtoniana dell’inganno”, un titolo fatto apposta per vendere tante copie, che è esattamente il motivo per cui negli Stati Uniti in tanti si tolgono sassolini dalle scarpe nel momento in cui lasciano un posto importante. Ci aveva provato anche Ari Fleischer, ex portavoce di Bush ma si dice che il suo libro sia così noioso e privo di notizie sensazionali che dopo qualche tempo sugli scaffali delle librerie sia pronto per il macero.
McClellan non risparmia nessuno: accusa Rove, l’ex stratega di Bush, di avergli mentito sulla vicenda della fuga di notizie dalla Cia, Condoleezza Rice di essere sorda alle critiche e Cheney di essere “il mago" che manovra la politica da dietro le quinte stando bene attento a non lasciare traccia del suo passaggio.
L’ex portavoce della Casa Bianca non arriva fino ad accusare Bush di aver volutamente mentito sulle vere ragioni per invadere l’Iraq, ma afferma che lui e il suo staff oscurarono la verità e fecero in modo che "la crisi fosse gestita così da far apparire la guerra come l’unica opzione praticabile". Quella messa in piedi dalla Casa Bianca nell’estate del 2000, aggiunge McClellan, fu una "campagna di propaganda politica" mirata a "manipolare le fonti alle quali attinge l’opinione pubblica" e a "minimizzare le reali ragioni della guerra»". Tra gli altri episodi citati nel libro anche un dialogo a porte chiuse tra Rove e Lewis Scooter Libby, aiutante di Cheney che rivelò le notizie su Valerie Plame agente segreto della Cia. Su tutta la faccenda Libby paga col carcere e in molti chiedono l’impeachment per il vicepresidente (mentre Rove è indagato). McClellan lasciò la Casa Bianca il 19 aprile del 2006 dopo che il nuovo capo di gabinetto Joshua Bolten, avviò un radicale rimpasto di cui fece le spese anche Karl Rove.
"Ammiro ancora Bush" scrive McClellan, che ha appena compiuto 40 anni e lavora con il presidente dai tempi in cui govrnava placidamente sul Texas, nelle 341 pagine del libro anticipato dal Washington Post, "ma lui e i suoi consiglieri hanno confuso la propaganda con l’onestà e il candore necessari a costruire e mantenere il supporto dell’opinione pubblica in tempo di guerra. Da questo punto di vista Bush è stato terribilmente malconsigliato, specie per quanto riguarda la sicurezza nazionale". L’ex capo ufficio stampa ha anche accusato lo staff della Casa Bianca di aver gestito in maniera disastrosa la comunicazione durante la devastazione portata dall’uragano Katrina nel 2005. "Per tutta la prima settimana non hanno fatto altro che negare" scrive McClellan, "così uno dei più gravi disastri della storia del nostro Paese è diventato il più grave disastro della presidenza Bush". McClennan racconta anche della famosa foto (qui sopra) con il presidente che guarda New Orleans seduto sull’Air force one, invece che in mezzo alla gente. Su quella foto c’è stata un discussione e, come sempre, racconta McClennan, l’ha avuta vinta Rove. Mancano sei mesi all’addio di George W., un altro libro ci racconta dall’interno che disastro è stato questa presidenza. Persino per chi ci ha lavorato.

21 maggio 2008

Il nuovo secolo degli Stati Uniti, intervista con Arnaldo Testi

Martino Mazzonis

La politica e la storia americane sono più ricche e articolate di quanto non tendiamo a raccontarci. Il secolo degli Stati Uniti (Il Mulino, 20€) di Armando Testi, che insegna storia degli Stati Uniti a Pisa, è un affresco completo, rapido e ricco di suggestioni. Una lettura del secolo americano dove si intrecciano i grandi accadimenti ufficiali e le mutazioni di lungo periodo, le guerre e la produzione culturale. Con Testi abbiamo provato a parlare della campagna presidenziale Usa con uno sguardo rivolto al secolo scorso.

L’ultimo capitolo del libro (che riguarda la presidenza Bush) è narrato al passato, un’esigenza editoriale o il secolo americano sta davvero finendo?
Sono vere entrambe le cose. Pensavo all’effetto che avrebbe fatto tra due anni a uno studente, certo, ma probabilmente possiamo già parlare al passato dell’era Bush. C’è l’ipotesi di uno dei grandi cambiamenti di regime che caratterizzano la storia nazionale americana. Sia dal punto della politica estera che da quello della politica interna mi sembra di percepire una grande incertezza. Cosa sono i due grandi partiti e chi sono i loro elettori? I democratici si interrogano su quale sia la coalizione sociale che può restituire loro una forza stabile, mentre i repubblicani ragionano sul crollo finale della coalizione che sostenne il New deal. Molti studiosi si chiedono se le prossime saranno elezioni storiche, ma è difficile dare una risposta netta. E’ già così per le candidature democratiche, anche se Obama potrebbe finire come McGovern, che perse nel 1972 come outsider con una piattaforma populista e anti guerra del Vietnam. Ma la sensazione resta, c’è un senso di eccitazione e partecipazione e i dati quantitativi parlano chiaro.

Tra le cose che cambiano sembra esserci un nuovo atteggiamento nei confronti del rapporto tra religione e politica.
A guardare alcuni dati sembra che anche su quel fronte stia avvenendo una rottura: gli evangelici non sono più così legati ai repubblicani. McCain non ha il profilo del candidato valoriale che piace alla destra, ma la stessa destra religiosa sembra non essere più la punta egemonica del movimento religioso protestante. Così la coalizione repubblicana perderebbe una delle componenti di amalgama tra valori e interessi che l’ha sorretta. Qualche indagine approfondita mostra che la difesa del creato (il tema ambientale) stia diventando più importante dell’aborto. Non è chiaro se si tratti solo di una speranza di alcuni analisti. Certo è che negli anni 70 ci abbiamo messo tempo a capire che la destra evangelica non era un gruppetto strambo ma un movimento politico poderoso.

Passiamo ai partiti. Quelli americani sono solo macchine elettorali del leader? Le ultime primarie, con due outsider che vincono (nel caso di Obama non è sicuro al cento per cento) sembrano raccontare un’altra storia.
Negli ultimi anni si è vista una ripresa di funzioni, di ruolo, di autorità del partito struttura permanente. E’ ovvio che le primarie vere, di diritto pubblico che non servono a fare votare uno già scelto dall’alto, spingono a far crescere la personalità e il carisma del candidato. Ma c’è una riorganizzazione generale dei partiti e, in particolar modo dei democratici. Per la prima volta il segretario, Howard Dean, è una figura nota, la sua elezione ha avuto un significato politico e sta funzionando. Lo stesso Dean ha detto delle presidenziali: «Bisogna far finta che sia un’elezione diretta». Vuol dire che ogni voto conta, che bisogna essere presenti ovunque anche dove non c’è speranza di prendere lo Stato e i relativi grandi elettori. E poi, cosa importante per uno che ha fatto le primarie del 2004 usando benissimo il Web e le nuove tecnologie, Dean ha detto «Basta Tv, facciamo il porta a porta». Non esattamente il modello di politica americana che noi immaginiamo, dove il lavoro organizzativo di base è stare nei quartieri, esserci, parlare. C’è un’estensione dell’autorità del partito, anche se è ovvio che di fronte a delle primarie vere con candidati forti, non è il partito che interviene a sciogliere i conflitti, a decidere se Clinton debba o no lasciare. Io sostengo che dagli anni 70 c’è stata una ripresa organizzativa della forza dei partiti. Lo stesso vale per la riorganizzazione delle primarie negli anni 80 - una reazione alla sconfitta di McGovern - con l’invenzione dei supermartedì. Mettendo tutte le primarie assieme solo i candidati che hanno il sostegno del partito riescono a sopravvivere. Lo stesso Dean venne macinato in fretta.

Si vincono solo al centro le elezioni americane? O è anche questa una nostra proiezione?
Se guardiamo le cose sul lungo periodo osserviamo che i modi di vincere le elezioni sono diversi. In alcuni casi c’è stata la corsa al centro, in altri, e queste sono state le elezioni significative, si sono mobilitate le ali o i non elettori. E’ il caso del New deal e quello di Ronald Reagan. Quando i candidati hanno egemonizzato il centro e attratto le ali. Non saprei cosa potrebbe essere il centro nel 2008. Entrambi punteranno agli elettori indipendenti, ma questi non sono necessariamente il centro. In questo senso credo che possano essere due candidature diverse. Il problema di Obama è che di certo porta dentro, ma probabilmente lascia anche scappare - non sappiamo come reagirà l’elettorato bianco. Gli elettori bianchi si sono mossi molto tra il ’64 e il ’68, poi nell’80 e di nuovo con Clinton. Non c’è più quella lealtà incrollabile rappresentata da quanto sentii dire da un’anziana signora: «Neanche se Gesù fosse repubblicano voterei per loro...e d’altra parte Gesù non può essere repubblicano». Una cosa simile a Pci e Dc. Non è più così ed è difficile sapere chi premieranno o puniranno gli spostamenti. Obama è capace di fare una intelligente narrazione della storia nazionale. Il suo discorso sulla razza in risposta alla polemica sul reverendo Wright è uno dei discorsi intelligenti politici fatti negli Usa in epoca moderna, difficile da fare in maniera razionale sulla piazza pubblica. Lui può usare la sua vicenda personale, che è una storia conflittuale. Sua moglie Michelle manda un messaggio diverso. La prima volta che ho visto i due Obama ho ricevuto dei messaggi nettamente distinti. Lui lancia un messaggio di non aggressività e non risentimento nei confronti dell’elettorato bianco. Michelle un po’ meno e i bianchi americani lo percepiscono.

Un tema molto presente nelle primarie è quello populista del commercio internazionale, del protezionismo. C’è spazio per un ritorno vero di quelle scelte?
Secondo me sono discorsi elettorali. Chiunque vincerà dovrà deludere quelle promesse. L’economia americana è così globalizzata che sembra davvero difficile poter scegliere quella strada. Ci sono stati episodi di lingua biforcuta da parte di entrambi i candidati sui temi del commercio estero: mentre criticavano il Nafta davano garanzie informali sul fatto non ci saranno rivoluzioni. Diverso sarebbe se scoppiassero guerre commerciali e il meccanismo di redistribuzione dell’autorità a livello globale (verso Cina e India) non prendesse forme così aspre da precipitare in una crisi. Svolte protezionistiche ci saranno in caso di crisi internazionali, non per stare mantenere promesse fatte agli operai dell’Ohio. Nel suo ultimo libro Fareed Zakaria (auorevole giornalista/esperto di politica internazionale del Newsweek) sostiene che non c’è una crisi Usa, ma la crescita di altri poteri e che ci si deve preparare a un’età policentrica. Una bella cosa in teoria, ma non prevede il momento di passaggio: cosa succede quando ci si sente minacciati nelle proprie posizioni, quando si perdono pezzi di mercato e le forme di competizione che ci penalizzano? Una crisi difficile da gestire. Mi pare di capire che nello staff di Obama il problema venga contemplato e che si spinga per usare i tavoli multilaterali. Potrebbe essere un segno della raggiunta consapevolezza della propria debolezza.

Obama ha (quasi) vinto raccogliendo consensi tra i giovani e criticando le forme della politica e della gestione del potere. E’ in atto un salto generazionale?
Non è successo dalla sera alla mattina. Ci sono simil-Obama in giro: come governatori, sindaci, un senatore del Sud. C’è una generazione di quarantenni neri, a volte figli dei dirigenti dei diritti civili, ma radicalmente diversi dai loro genitori. Il sindaco di Newark, Booker, ad esempio. Anche di lui si è detto che non era abbastanza nero. C’è chi si porta dietro il peso di quello che ha significato fare politica negli anni 60, esponenti di un ceto sociale uscito dal ghetto. Sia Obama che il sindaco di Newark sono persone che sono tornate a lavorare nel ghetto per scoprirlo, impararlo. E’ difficile mischiare Obama e compagnia con la cultura del rap, sono abissi culturali. E quindi c’è un cambiamento nella comunità afroamericana, ma anche nelle comunità ispaniche e bianche. Francamente prevedere se il cambiamento generazionale è anche un cambiamento reale del panorama politico è difficile. Non si riesce a intravedere ancora qual’è la nuova cultura politica. Probabilmente però vedremo l’emergere di un ceto politico nuovo che finalmente manderà in pensione i baby boomers.

5 maggio 2008

North Carolina, profondo Sud (che cambia)

Come l'Indiana, la North Carolina non è un Paese per democratici. Il georgiano e bianco possidente del Sud Jimmy Carter è l'ultimo presidente ad aver portato a casa lo Stato per il suo partito. Nemmeno Clinton, l'altro presidente del Sud, è riuscito a strapparla al Grand Old Party.
Come per l'Indiana, lo Stato è stato colpito negli ultimi anni dalle conseguenze dall'abbattimento delle barriere commerciali. Al pari della sua parente del Sud, la Carolina ha visto le sue aree rurali e i piccoli centri industriali spazzati via dalla concorrenza asiatica: un quinto del lavoro manufatturiero è andato perduto e il cotone e il tabacco non servono più a produrre ricchezza. Ma la crisi della vecchia industria non è tutto. Se in South Carolina è il turismo ad essere la nuova frontiera, a Raleigh e Charlotte il tentativo è quello di generare crescita con un enorme investimento in ricerca e sviluppo. Lo Stato sta investendo 5 miliardi di dollari per costruire un Research campus a Kannapolis con l'idea di produrre 37mila nuovi posti di lavoro. Un esperimento simile ha funzionato con il Research triangle park, fondato el 1959, all'inizio del declino di tessile e tabacco. Il problema, qui come altrove, è che il nuovo lavoro di qualità non pesca nei bacini della disoccupazione post-industriale. Come altrove, insomma, lo sviluppo è destinato ad attrarre giovani brillanti e laureati, ma lascia fuori quel ceto medio in balia della grande trasformazione che sta attraversando tutti gli Stati Uniti.
Su gli scontenti e insicuri punta Hillary Clinton, che spera così di colmare il divario che da mesi la vede dietro nei sondaggi. La proposta sul taglio delle tasse sulla benzina - populista e di corto respiro - sembra fatta apposta per corteggiare le famiglie che non ce la fanno a pagare i conti. Gli attacchi a Obama sul gun control sono la stessa cosa. Il tentativo è quello di replicare Ohio e Pennsylvania. Sulla grande comunità afroamericana può contare Obama: il 21% della popolazione e possibile 40% degli elettori delle primarie sono neri e voteranno a grande maggioranza per lui. Anche i cambiamenti dell'economia locale, con i centri di eccellenza sono un bastione del senatore dell'Illinois. La vicenda del reverendo Wright lo ha colpito pesantemente e il suo vantaggio, un tempo sopra i dieci punti, oggi oscilla nei sondaggi tra un massimo di dieci e 3 punti. Una sconfitta di misura sarebbe per Hillary il segnale da agitare che è lei ad avere il vento nelle vele. Per Obama un vantaggio sotto i cinque punti sarebbe un disastro. Una vittoria larga è importante anche sul fronte dei delegati: qui sono 115, il numero più alto rimasto prima di Denver e portarne a casa parecchi, per Obama, sarebbe un passo in più verso la nomination. Le cronache dal campo raccontano di una campagna del senatore meno caratterizzata da grandi raduni, che punta sul porta a porta e gli incontri tematici. Qui come in Indiana, piccoli centri in crisi e fabbriche sono stati molto corteggiati.
Nessuno tra i contendenti può contare sull'appoggio di John Edwards, che è nato qui e qui veniva eletto senatore. Un suo sostegno servirebbe proprio a corteggiare quei lavoratori bianchi che sono diventati oggetto del contendere dal Supermartedì in poi. Ma l'ex avvocato dei poveri non ha intenzione di scoprirsi: vuole un posto nella prossima amministrazione e gli serve di sostenere il vincitore finale.

Indiana elettorale

L'indiana è uno stato con poco più di 6 milioni di abitanti, terra di fabbriche (senza grandi città industriali, però), di campi di grano e di sport: la gara automobilistica di Indianapolis e il basket, grandissima passione dello stato. E' uno stato conservatore che fa da cerniera tra il mid-west e il sud: a ovest l'Illinois, a est l'Ohio e a sud il Kentucky. Un democratico qui non vince le presidenziali dal 1964 (nell'immagine la distribuzione del voto nel 2004 nei distretti elettorali dello stato: in rosso i repubblicani. I democratici vincono nelle città, come al solito).
Gli abitanti dell'Indiana sono chiamati Hoosiers, non si sa bene perché (in realtà un po' di storie al riguardo esistono, e una è divertente: si tratterebbe di una cattiva ricezione del termine "ussaro" a inizio '800. Scherzi delle migrazioni dalla vecchia Europa). Fine delle notizie alla wikipedia.
Dal punto di vista elettorale, in queste primarie, dovrebbe essere favorita la Clinton, anche se i sondaggi hanno visto un testa a testa tra i due candidati proprio nell'ultimo mese. L'elettorato democratico è composto in buona parte dal tipico bacino elettorale della Clinton: lavoratori bianchi, sindacalizzati e poco scolarizzati (l'industria manufatturiera e quella dell'automobile in questo stato sono - erano - una cosa seria). Come in Pennsylvania (vedi qui e qui le nostra schede). Vicino all'Illinois le buone notizie per Obama: una discreta percentuale di popolazione nera che subisce l'influenza dello stato di provenienza del senatore. Inoltre, al contrario della Pennsylvania, in queste primarie possono votare anche gli indipendenti, più propensi a sostenere Barack. Vedremo se il suo sforzo di portare nuovi elettori al seggio funzionerà.
Il solito mix di necessità mediatiche e opportunità politiche ha caricato questo appuntamento di enormi significati, ed entrambi i candidati hanno speso grosse cifre per la campagna elettorale. Se Obama vincesse la Clinton sarebbe quasi costretta al ritiro, al contrario avrebbe un ulteriore spinta, ora che è già in recupero. I suoi strateghi continuano a sostenere che chi vince in Indiana vincerà le presidenziali. Forse esagerano..
Il senatore democratico dello stato Evan Bayh, molto popolare, appartiene a una vecchia dinastia politica locale (suo padre è stato senatore e ha partecipato alle primarie democratiche per le presidenziali del 1976) ed è un grande sostenitore della Clinton. E' un possibile candidato alla vicepresidenza nel caso la Clinton ce la facesse.
I temi locali della campagna elettorale sono stati tre: lavoro, lavoro, lavoro. La crisi è la stessa dell'Ohio, della Pennsylvania.. Si è promesso lavoro e molto protezionismo, un tema ricorrente di questa campagna elettorale (guardate qui lo spot elettorale di Hillary che ricorda, con toni populistici, le sue umili origini, e qui il video di Obama di fronte a una fabbrica dismessa). Ormai le parole, le strategie, i contenuti e gli stili di comunicazione di questa campagma elettorale non cambieranno. Aspettiamo, da domani, il prossimo diluvio di numeri e commenti.

30 aprile 2008

Glossario della crisi economica/3. SUBPRIME 2.0

Le Salsicce infette contagiano i mercati


Gli analisti negli ultimi tempi parlano di una crisi finanziaria di proporzioni enormi (Krugman parla di crisi simile a quella del 1929) avviata dallo scoppio della bolla immobiliare e dalla vicenda dei mutui subprime. La crisi dei mutui, infatti, rischia di minacciare la salute dell’intero mercato finanziario americano e di “contagiare” anche i mercati europei.
A questo punto è utile cercare di capire i perché di questo contagio, che non risiede solo in un periodo di panico e di mancanza di fiducia da parte degli investitori. Esiste, infatti, una catena di trasmissione che lega i mutui, i pignoramenti e le difficoltà dei risparmiatori americani alle attuali turbolenze finanziarie.
Il problema è quello delle salsicce infette. Ovvero: la banca che eroga i mutui può - a determinate condizioni - "cartolarizzarli", ossia trasformarli in strumenti finanziari: gli "ABS", Asset Backed Securities. Gli ABS sono titoli il cui valore è garantito del valore delle case ipotecate dal mutuo. Il rendimento dei titoli è legato agli interessi che il debitore paga e che sono tanto più alti quanto minore è la sua affidabilità.
Gli ABS immobiliari insieme con altre cartolarizzazioni vanno a comporre altri strumenti finanziari detti CDO, (Collateralized Debt Obligation), ossia obbligazioni composte da diversi tipi di titoli. La banca propone al risparmiatore un investimento in cui sono presenti moltissimi tipi diversi di obbligazioni e altre attività finanziarie, differenti per rischio e reddito, in modo da assicurare una certa stabilità ma anche un certo profitto.
Praticamente la banca si copre dal rischio legato ad investimenti rischiosi come i mutui emettendo “obbligazioni salsiccia” in cui dentro c’è un po’ di tutto, compresi i titoli legati ai subprime.
Questi titoli erano considerati redditizi e sicuri perché al momento dell'emissione non si avvertivano motivi particolari di preoccupazione e i prezzi delle case salivano. I frutti di questa'ingegneria finanziaria finivano poi in fondi comuni o in polizze vita senza che l'investitore finale fosse consapevole del rischio insito in questo genere di titoli.
In sintesi, le banche d’affari americane dopo aver concesso i mutui subprime li hanno impacchettati in una obbligazione e li hanno rivenduti ad altre banche in tutto il mondo (oltre agli USA soprattutto Inghilterra, Francia, Germania e Giappone) . Esiste un contagio da mutui le cui proporzioni ancora non sono chiare. L'incertezza non riguarda solo l'ammontare del valore di questi titoli, ma anche dove essi sono andati a finire. Anche perché questi strumenti finanziari possono essere impacchettati più volte in un sistema di scatole cinesi che impedisce alle stesse banche di capire dove finiscano effettivamente i titoli.
Per qualche tempo si è pensato che i titoli subprime fossero confinati solo in portafogli di istituzioni bancarie e finanziarie americane. Ma le cose non stavano così. La Bce ha ammesso che la situazione europea non è molto diversa da quella americana: ha cominciato la banca tedesca Ikb ad andare in bancarotta perché colpita dalla crisi dei mutui subprime e poi anche la banca olandese Nibc, poi Bnp Paribas.
Le banche, infatti, hanno dovuto affrontare una “crisi di liquidità”, ovvero: le banche con le obbligazioni si indebitano a breve termine, mentre i mutui immobiliari sono, per definizione, strumenti di lungo periodo. Quando il pagamento delle rate dei mutui procede senza problemi le banche riescono a ripagare le obbligazioni (il tasso d’interesse concesso sull’emissione dell’obbligazione per essere competitivo deve essere altissimo, se no non le sottoscrive nessuno). Però si è trascurato il fatto che alla scadenza i titoli vanno rimborsati e se chi ha fatto il mutuo (sottostante al titolo) non paga, la banca deve intaccare le proprie riserve o sperare di recuperare con una nuova emissione, contando sul fatto di posticipare il pagamento ai sottoscrittori.
La seconda via non è molto percorribile perché appena si diffonde la voce dell’inaffidabilità di un titolo questo non viene più acquistato. La banca si trova con un credito che non verrà rimborsato da una parte (mutuo), un debito da pagare e niente in mano per pagarlo. Con una crisi di ampie proporzioni come quella in atto ecco arrivare la crisi di liquidità che porta la banca sull’orlo della bancarotta (come Bear Sterns).
I primi sintomi della crisi sono stati ignorati nella convinzione che questo «nuovo mercato» del credito fosse strutturalmente molto meno esposto alle crisi finanziarie: i nuovi strumenti consentono infatti di diluire tutti i rischi. Il caso tipico è proprio quello dei mutui: l’istituto che li concede spezzetta poi il credito e lo trasferisce ad altri fondi e banche che a loro volta «impacchettano » il tutto sotto forma di obbligazioni che vengono rivedute sul mercato.
E’ vero che con la «nuova finanza» i rischi sono stati diluiti, ma non fino al punto di «vaccinare» il sistema dalle conseguenze di un’ondata di prestiti concessi in modo avventato. E’ una delle disfunzioni indotte da una trasformazione del mercato che un capitalismo ben funzionante dovrebbe vedere e correggere tempestivamente: i controlli sulla solvibilità dei debitori sono spesso venuti meno perché l’istituto che emetteva il mutuo era più interessato ai profitti che alle condizioni di prestiti destinati, comunque, a essere trasferiti ad altri.
Ora che si è tornati con i piedi per terra si scopre che il nuovo mercato dei derivati (un derivato è un titolo il cui valore è legato al valore di qualche altro bene o azione) oltre al positivo effetto di diluizione dei rischi, si tira dietro anche un problema, in qualche modo speculare rispetto a questo vantaggio: una volta che emerge una crisi, è difficile individuare e circoscrivere i focolai perché i prodotti finanziari «avariati»— nel nostro caso i mutui — possono essere finiti ovunque.

(Matteo Dian)

28 aprile 2008

Le imbarazzanti amicizie religiose del senatore McCain

Martino Mazzonis
Approfittando della lunghezza delle primarie democratiche, il senatore McCain mette a punto la sua strategia. Il veterano di guerra e della politica sa bene due cose: deve prendere le distanze da George W. Bush e tentare di espandere la base che ha eletto l’amministrazione in carica. La guerra al terrore non si vende più come nel 2004 e pensare di vincere con quella sarebbe perdente. Per questo McCain punta agli indipendenti e agli ingenui. O almeno così viene da pensare a giudicare dal tour che il candidato repubblicano ha compiuto negli ultimi giorni a caccia del voto afroamericano.
Di certo ci vuole faccia tosta a presentarsi nei quartieri poveri devastati dall’uragano Katrina e a Selma, luogo della storica marcia per i diritti guidata da Marthin Luther King. Nella città del sud ancora in attesa di risposte da parte del governo federale McCain ha spiegato che la risposta all’uragano è stata “disastrosa", che una cosa del genere "non deve più capitare" per poi non saper rispondere alla domanda: "Secondo lei questi quartieri poveri vanno demoliti o restaurati?". Non una domanda da poco dal momento che è in corso un duro braccio di ferro tra migliaia di persone che aspettano di potersene tornare a casa e gli immobiliaristi, che puntano a rendere la città un posticino di lusso dove far trasferire famiglie pronte a spendere migliaia di dollari al metro quadro.
Ma essere impreparati o furbetti non sarebbe un problema. Il problema di McCain a New Orleans è un altro e si chiama John Hagee, che di mestiere fa il telepredicatore miliardario. E qualcuno gli ha fatto una domanda anche su di lui. "Non è una mia vecchia conoscenza" ha risposto. Vero. Tanto quanto la scelta del senatore di cercare il sostegno ufficiale del pastore di San Antonio, sostegno ottenuto lo scorso febbraio. McCain non tira tra gli elettori che votano con la croce nella mano destra e da quando è diventato candidato corteggia quell’elettorato. Qual’è il problema di Hagee? Quelle che seguono sono sue frasi: "Katrina è una punizione divina contro New Orleans. In città c’era una quantità di peccato che era offensiva per dio. Il lunedì in cui è arrivato Katrina si doveva addirittura tenere una parata di omosessuali". Altro motivo per cui dio avrebbe mosso le acque è la pressione, in quelle settimane, di Washington su Israele perché abbandonasse gli insediamenti nei Territori. Avendo visto tolta terra a Israele, Dio l’ha tolta agli Usa. Andatelo a raccontare ai derelitti che hanno passato giorni sul tetto di casa che la catastrofe prodotta dall’incuria umana è una punizione divina. O che dio agisce come una Onu vendicativa.
Hagee è un personaggio controverso: è divorziato e risposato, guadagna milioni di dollari come amministratore delegato del suo network evangelico, trasmette su 160 canali locali, predica l’unità evangelica con Israele e sostiene che la religione musulmana invita a uccidere i cristiani. Pur non essendo tra i predicatori pittoreschi, ha un’influenza molto grande ed è una colonna portante di quella destra religiosa che sostiene il partito repubblicano in maniera smaccata. Non è il solo.
Tra gli alleati di McCain c’è Rod Parsley, il possibile futuro dell’evangelismo conservatore. Più giovane e carismatico, il suo territorio è l’Ohio, lo Stato dove Bush ha di fatto vinto le elezioni nel 2004. Quell’anno, guarda che caso, tra le schede su cui mettere la croce nel giorno delle presidenziali, c’era anche un referendum statale che aboliva il matrimonio omosessuale. Parlsey promosse il referendum e i cristiani dell’Ohio parteciparono come non mai al voto. Il corpulento pastore è uno che parla a neri e bianchi e, a fine febbraio, durante le primarie in Ohio, parlò ad un comizio di McCain a Cincinnati. Erano i giorni in cui dal campo delle primarie repubblicano non era ancora stato eliminato Mike Huckabee, il predicatore evangelico che raccoglieva i voti religiosi. Il sostegno di Parsley fu una mano santa per McCain.
Come Hagee, Parsley ha le sue teorie religiose. Nel suo libro del 2005, “Silent no more”, spiega che è in corso "una guerra tra islam e civiltà cristiana". L’America, secondo Parsley, sarebbe stata fondata con il disegno di "vedere distrutta questa falsa religione e l’11 settembre è una chiamata alle armi che non possiamo ignorare". Un vero moderato. Come quando sostiene che occorre mettere in galera gli adulteri. Uno tutto d’un pezzo? No, se è vero che si è beccato una denuncia per aver infranto le regole al sostegno dei partiti che consentono alla sua chiesa di non pagare le tasse - non paga se non si schiera e lui ha trovato il modo per schierarsi e non pagare, ma lo hanno beccato.
Nelle scorse settimane le frasi sull’11 settembre del reverendo Wright, padre spirituale di Barack Obama, hanno generato attacchi a raffica da parte di McCain. Se il senatore afroamericano dovesse diventare il candidato democratico come è probabile, avrà qualche freccia al suo arco. Agli elettori indipendenti e ai moderati negli Stati a maggioranza repubblicana potrebbero dispiacere più Hagee e Parsley che non Wright.

22 aprile 2008

L'ultima spiaggia di Clinton (l'ennesima)

Pittsburgh e Philadelphia, le industrie chiuse di acciaio e carbone e le terre coltivate che hanno un'anima conservatrice, le ascendenze nord europee ed una città, “Philly" come la chiamano, più cosmopolita e mista del resto dello Stato. Sondaggisti e strateghi da settimane si affannano per leggere in controluce la società e la politica della Pennsylvania, nuovo giro di boa delle primarie democratiche. Si è detto già altre volte: questo è un appuntamento decisivo, per Hillary Clinton è un'altra ultima spiaggia. E' probabile che superi anche questa, la composizione del voto democratico nello Stato (e i sondaggi) le danno un certo vantaggio. Il distacco di Barack Obama nelle intenzioni di voto rilevate dai sondaggisti però si è assottigliato: gli ultimi pubblicati regalano alla senatrice un vantaggio di tre cinque punti. Molti analisti concordano che un distacco ridotto sarebbe doloroso per Hillary perché non le consentirebbe di ridurre il ritardo accumulato nella conta dei delegati alla convention democratica di Denver ad agosto. La chiave di tutto saranno i maschi bianchi, come altre volte le donne bianche favoriscono Clinton in maniera abbastanza chiara e tutti gli afroamericani stanno a stragrande maggioranza con la loro speranza - così almeno ci racconta un sondaggio della Temple University di Philadelphia.
Ad oggi i numeri dicono +141 per il senatore nero dell'Illinois, +164 se si prendono in considerazione i superdelegati, eletti e dirigenti che partecipano di diritto. Negli ultimi mesi un numero crescente di questi pezzi grossi del partito hanno scelto di schierarsi con Obama, contribuendo così ad assottigliare la pattuglia di indecisi e riducendo al minimo il vantaggio di Clinton su questo terreno. Un vantaggio che a gennaio era ritenuto incolmabile da qualsiasi osservatore della politica statunitense.
Per questo la Pennsylvania è importante, dopo questo grande Stato che elegge molti delegati le cose potrebbero essere finite. Oppure no, è già successo nei mesi passati. E per questo le ultime settimane di campagne sono state tanto aspre, i toni cattivi, le polemiche accese. Negli ultimi due giorni gli spot Tv di entrambi sono cattivissimi, uno accusa l'altra di prendere soldi dalle lobby mentre la senatrice risponde con l'accusa di essere uno che parla contro il sistema che ci si trova bene dentro. La novità sta nell'aggressività di Obama, non viceversa. ha dichiarato David Axelrod, stratega del senatore. E poi dalle primarie in Mississippi sono passati quaranta giorni, la pausa più lunga era stata di due settimane. Gli elettori hanno avuto tempo per riflettere, i media hanno potuto sezionare i candidati, le polemiche esplodere ed essere digerite. Dopo questo voto, insomma, si capirà che tenuta ha Obama contro quegli attacchi duri che saranno il suo pane contro McCain nel caso diventi lui il candidato come ieri è arrivato ad auspicare il Financial Times (). L'editore di destra e crociato degli scandali anti Bill, Richard Mellon Scaife, ha invece scelto Hillary.
La Pennsylvania ha anche un valore nazionale, ci dirà se stiamo assistendo ad un cambiamento epocale. Da queste parti, infatti, abita il tipico elettore che negli anni 80 ha lasciato il partito democratico per diventare parte del tifone reaganiano, consolidandone la base. Classe lavoratrice bianca in crisi di identità, conservatrice sul terreno morale, che ha abbracciato la formula patriottica, moralista, della liberalizzazione e del meno tasse. La crisi del partito democratico, una certa mancanza di idee rinnovate, capaci di parlare a quel momento storico, l'assenza di leader carismatici ha spostato fasce prodigiose di elettorato. Era appena successo in Gran Bretagna e in forme diverse sarebbe successo ovunque. Bill Clinton ha saputo spezzare il ciclo, ma non dare una prospettiva nuova ai democratici. Dopo un mandato si è trovato un Congresso a maggioranza repubblicana e si è spostato progressivamente a destra. Poi Bush figlio ha portato in dote la mobilitazione degli evangelici, una loro partecipazione al voto massiccia e determinante in diversi Stati.
Erano i “Reagan democrats" e a novembre la scommessa democratica è di farli tornare all'ovile. Un ritorno alla partecipazione, all'iscrizione al voto e al volontariato si è già visto altrove, anche in diversi Stati tradizionalmente rossi (è il colore del Grand Old Party, i repubblicani) e anche in Pennsylvania la tendenza è questa. Nel 2002 i democratici registrati al voto furono 3 milioni e 200 mila, seicentomila in meno dei repubblicani, oggi sono 4 milioni e 200mila, un milione in più. Anche in contee rosse crescono i blu. Nel 2004 qui vinse Kerry, e i numeri sembrano dire che i Reagan democrats non ci sono più. La presenza di quella tipologia di elettore favorisce Hillary Clinton che fino ad oggi ha vinto in New Jersey e Ohio, Stati a maggioranza bianca con caratteristiche simili. Obama dovrà cercare di rosicchiare punti tra quell'elettorato e fare il pieno a Philadelphia e dintorni dove vivono più giovani (lo Stato è “vecchio", altro vantaggio per Hillary), più laureati, e una popolazione afroamericana che fa più del 40% della città. L'afflusso di nuovi elettori, immigrati nello Stato o giovani, è una buona notizia per lui. E', come sempre, una questione di coalizioni, di gruppi sociali, comunitari e più spesso una sovrapposizione delle due cose.
Classe e razza. Il reverendo Wright, controverso pastore di Obama e i commenti dello stesso senatore sulla popolazione sui lavoratori delle piccole città industriali in declino che per ritrovare speranza si aggrappano a croce e fucili. A parte il fatto che con altri fattori in gioco il ritorno alla tradizione di queste settimane ricorda qualcosa agli italiani - e perché no, al Pc francese che si ritrovò incalzato nei suoi bastioni del Nord non dai socialisti ma da Le Pen - l'analisi (fatta in privato) di Obama e la retorica a tratti eccessiva del suo padre spirituale sono diventati l'arma in più di Clinton. Di Sanità, Iraq, tasse e crisi economica la gente ha già sentito parlare per mesi e sono le notizie fresche quelle che possono condizionare un voto. E di questo si è parlato nel dibattito Tv di venerdì scorso, seguito da polemiche furiose contro i conduttori della Abc da parte dei giornali progressisti che fanno il tifo per Obama. Per giorni si è discusso sui media se il ragionamento del senatore afroamericano fosse offensivo, se fosse giusto. ha attaccato spesso Clinton nei suoi comizi. L'ex first lady qui, come già in New Jersey e Ohio, conta sui tempi d'oro della presidenza del marito, su una popolazione rurale e lavoratrice che non va pazza per l'idea di votare un nero e vede meglio la continuità democratica che non il cambiamento radicale - e a tratti vago - disegnato da Barack Obama. Contro il senatore si è scagliato anche McCain, che vuole continuare a sfruttare la sua immagine di semi indipendente nel partito per attrarre a sé il voto di alcune aree sociali bianche nel caso il nominato democratico fosse il senatore dell'Illinois. La vicenda del reverendo Wright è più vecchia ma segnerà anch'essa questo voto: a Philadelphia Obama ha tenuto il suo discorso sulla razza proprio per schivare gli attacchi e rilanciare in avanti. La sintesi politica stretta di un lungo testo di tono alto è: in America il problema della razza esiste, le asprezze e la rabbia del reverendo sono il bagaglio di una generazione presa a bastonate nella stagione dei diritti civili. La mia storia racconta che possiamo superarlo, anche per questo sono candidato.
Anche Hillary ha avuto i suoi piccoli guai in questa lunga pausa senza voti. Mark Penn, consigliere del marito e mente della sua campagna ha lasciato dopo mesi di polemiche interne. I superdelegati hanno continuato ad accumularsi nella bisaccia di Barack. Una sua battuta su MoveOn - organizzazione a rete che raccoglie fondi e lancia campagne, schierata con Obama dopo un referendum on line tra gli iscritti - e sui liberal ad una cena per raccogliere fondi susciterà la rabbia dei milioni di progressisti che stanno donando a Obama e potrebbero non darsi da fare per lei. E poi è e resta indietro e il suo argomento sulla non eleggibilità del suo avversario non regge alla prova dei sondaggi - e a quella degli Stati bianchi dove Obama ha vinto.
La chiave del voto in Pennsylvania sta tutta nella capacità di Obama di rispondere ai temi che lo hanno investito. Quanti lavoratori amareggiati sarà riuscito a convincere che il suo era un commento analitico e non una forma di disprezzo. Che i fucili e la croce non sono qualcosa di sbagliato in sé ma rischiano di diventare una trappola, un rifugio senza prospettive? Nessun candidato per qualsiasi piccolo incarico, se non forse in qualche quartiere di New York e San Francisco potrebbe sostenere il contrario e sembra che i gun owners, i possessori di fucili stiano uno contro due con la senatrice (sulla stampa sono apparsi articoli che ricordano l'attività per il gun control, la limitazione alla circolazione di armi da parte di Obama). Se il venditore di speranza avrà fatto bene i suoi compiti la corsa sarà finita e un outsider diventerà candidato alla Casa Bianca. Un fatto tanto storico quanto il fatto che il 45enne senatore non abbia il faccino rosato dei nord europei. Se il messaggio di Obama avrà funzionato in parte, perderà di poco e farà un altro passo verso la nomination e su Clinton le pressioni per lasciare aumenteranno ancora. Se Hillary dovesse vincere con dieci punti di vantaggio, aspettatevi i fuochi d'artificio. Che spesso bruciano le mani alla parte che ci gioca e avvantaggiano il vecchio McCain che aspetta sulla riva del fiume.