8 settembre 2009

Un'analisi delle difficoltà di Obama sulla sanità

Il tema dell’assistenza sanitaria è spinoso. Ci hanno provato tutti tranne Franklin Delano Roosevelt, che mentre costruiva il New Deal evitò di affrontarlo. Da allora in poi, il fantasma dei milioni di uninsured - le persone senza assistenza sanitaria privata o pubblica - aleggia sulla politica americana senza che nessuno riesca a farlo riposare.
Elezion di mid-term a parte, Obama si trova a dover affrontare il tema più difficile nel momento più difficile: in Afghanistan le cose non vanno bene, il discorso al mondo arabo sembra un ricordo sbiadito, in Iran ha vinto Ahmadinejad e nonostante i segnali positivi per l’economia, tutti alla Casa Bianca sanno bene che ci vorrà del tempo prima che ci siano effetti tangibili nella vita delle persone. Un colpo sulla sanità intaccherebbe in maniera molto seria l’immagine del presidente destinato a fare grandi cose e renderebbe la già riottosa maggioranza democratica in Congresso più immobilista di quanto non sia già.
La grande sfida per l’uomo politico che ha usato l’arma dei grandi discorsi ogni volta che si è trovato con le spalle al muro è quella di riuscire a convincere parti molto diverse della società e del quadro politico. Fino ad oggi Obama ha evitato di schierarsi in maniera pesante sulla public option, il principale tema di battaglia che riguarda la riforma sanitaria. Su alcuni temi le divisioni ci sono, ma la maggioranza può trovare un accordo al suo interno: l’idea che le assicurazioni non possano più rifiutare le cure ai malati cronici, quella per cui a persone con un passato sanitario difficile sia impossibile rifiutare la polizza, l’abbassamento dei costi grazie a bonus fiscali e contributi troverebbero i voti necessari in Congresso. Ma l’opzione pubblica, la nascita di un’assicurazione statale che competa con i privati e li costringa ad abbassare i costi, è un vicolo cieco dal quale è difficile uscire per diverse ragioni.
La prima sono gli anziani, che negli Stati Uniti hanno un livello di copertura sanitaria pubblica decente grazie a Medicare. Qual’è il problema? Che Obama in campagna elettorale e anche dopo ha promesso di non alzare le tasse ai ceti medi. E che la riforma con l’opzione pubblica costa. Per riuscire ad avere la botte piena e la moglie ubriaca, l’unica opzione possibile sembra essere quella di un taglio al programma di assistenza sanitaria agli anziani. Niente di drastico, Obama ripete che si tratterà di evitare gli sprechi e razionalizzare alcune cose. Gli anziani temono più file d’attesa per le analisi, le visite specialistiche e così via. Un assist alla destra repubblicana che sugli anziani sta facendo un pressing enorme. In un articolo pubblicato quest’anno dal giornale medico britannico The Lancet, Ezekiel Emanuel, medico consulente dell’amministrazione e fratello del capo dello staff di Obama, Rahm, spiegava più o meno che quando occorre scegliere chi mettere in testa alla graduatoria per un trapianto o per una cura scarsa, tra altri fattori, occorre tenere conto dell’età. Non ci è voluto a Sarah Palin a spiegare agli anziani americani che verranno sottoposti a dei «consulti della morte» nei quali i burocrati statali decideranno in base alle risorse se curarli o lasciarli morire. E’ bassa propaganda, ma sta funzionando.
Se poi si tiene conto che l’elettorato over 65 ha già votato in maggioranza a favore di John McCain nel 2008 e che tradizionalmente nelle elezioni di mezzo termine sono gli anziani, che vanno molto di più a votare dei giovani, a fare la differenza, i congressmen democratici hanno di che preoccuparsi. E prima di loro Obama.
Il presidente, mercoledì dovrà quindi decidere se mettere il suo peso sull’opzione pubblica oppure no. E’ una scelta molto difficile. Lo stratega di Obama, David Axelrod, nelle ultime due settimane ha parlato mlto più del solito con i media, segno che il clan del presidente sta facendo muro e, forse elaborando una straegia. Axelrod ha detto che il presidente favorisce l’idea della opzione pubblica. Ma non ha detto se la chiederà esplicitamente al Congresso. Abbandonare quell’idea rischierebbe di far perdere ad Obama la sua base più entusiasta e liberal. Non abbandonarla rischia di mettergli contro i moderati del Congresso e rendere improbabile che una riforma sanitaria migliorativa venga approvata. Evitare di scegliere, parlare del grande tema della sanità e dei diritti e farlo in maniera ottimale come fa sempre Obama, non basterà. Domani, il presidente avrà davanti persone che ricevono milioni di contributi da parte della lobby sanitaria e altre che rischiano la propria carriera politica tra un anno. Non serviranno solo concetti, ma l’indicazione di un percorso condiviso dalla maggioranza di deputati e senatori capace di convincere anche gli americani della sua efficacia. Se ci fosse la public option, tanto meglio. Se ci riuscirà, il presidente avrà raggiunto un risultato enorme e potrà a guardare al 2010 con una certa serenità. Alla fine dell’anno prossimo l’economia andrà meglio di oggi, l’Iraq sarà quasi un ricordo e con una riforma sanitaria, anche moderata, Obama avrebbe un enorme capitale da spendere. Altrimenti sarebbero guai seri.

6 settembre 2009

Crisi, ripresa o cosa?

Non ci sono solo i governi a discutere di economia mondiale. Ieri a Cernobbio, all’incontro annuale promosso dallo Studio Ambrosetti c’erano diversi economisti di quelli che hanno parlato della crisi prima che questa sorprendesse tutti. C’era ad esempio Nouriel Roubini, diventato famoso per essere tra i pochi ad aver predetto la crisi con largo anticipo. Noto per il suo pessimismo, Roubini ha spiegato a Cernobbio, come fa ormai da mesi, che la ripresa, se è davvero partita, sarà ad “U” e non a “V”. Ovvero, sarà lenta e non una risalita veloce. Un’opinione condivisa dal fancese Jean-Paul Fitoussi, critico con l’Europa che non ha fatto abbastanza («E’ la più grande economia del mondo e aspetta di vedere cosa faranno gli altri»). Secondo Fitoussi i vari governi europei dovrebbero prendere a modello la Francia, che «ha il sistema di protezione sociale più forte ed è il Paese che oggi soffre molto meno degli altri gli effetti della crisi».
Il tema, per tutti, è quello di come e quando far smettere smettere di spendere le Banche centrali e le economie pubbliche. Come ha sostenuto il commentatore di Financial Times, Martin Wolf, i segnali di ripresa ci sono ma non c’è da nessuna parte una domanda che cresca: «Abbiamo un problema serio su come generiamo domanda per una produzione che cresce». Fermare l’intervento troppo presto, dunque, significa rischiare una recessione a “W”, con una ripresa spinta dalla spesa pubblica che cede il passo a una nuova recessione, quando questa smette. Il Nobel Joseph Stiglitz, parlando a Nouvel Observateur sostiene che anche il piano anti-crisi di Obama, che pure è spalmato su due anni, non basterà a rimettere in moto la domanda e che la crisi sarà davvero alle spalle almeno tra un paio d’anni.
Trovare l’equilibrio tra spesa e controllo del deficit è il prossim esercizio a cui dovranno dedicarsi gli economisti. Con un problema non secondario: con un lungo articolo sul magazine del New York Times in uscita domenica prossima l’altro Nobel Paul Krugman ricorda al mondo che la scienza economica non ha saputo in nessun modo prevedere quanto stava accadendo - in un numero recente anche The Economist poneva lo stesso problema. Il testo di Krugman è scritto in maniera magistrale come sempre ed è una critica alla teoria economica che ha dominato gli ultimi trent’anni. L’economista liberal insiste sulla necessità di tornare a guardare il mondo con le lenti di Keynes e prendere atto che il funzionamento dei mercati è tutt’altro che perfetto. E che la macroeconomia deve necessariamente cominciare ad analizzare la finanza per capire davvero come va il mondo e come affrontare le crisi ricorrenti.