29 luglio 2009

Il generale Mini su politica, Afghanistan e regole d'ingaggio

di Anubi D’Avossa Lussurgiu
Generale Fabio Mini, lei esprime di solito, da esperto militare, pareri eclettici rispetto all’ufficialità; lo ha fatto anche sulla vicenda afghana, che ha sempre indicato come un teatro di guerra. Lo dice anche la più autorevole opinione pubblica occidentale, ormai. In Italia, invece, ci si ostina a negarlo. Ma non le pare che le stesse operazioni sul campo del contingente italiano, specie nel quadrante Ovest tra Herat e Farah, siano conformi ad un’attività bellica?
Guardi, io penso che di fatto il contingente, già da tempo, abbia capito che doveva cambiare atteggiamento e passare da una missione prettamente d’assistenza alle forze afghane, sostanzialmente passiva, ad una posizione attiva. Sostengo da sempre che quanto alla presenza in Afghanistan la situazione richiede una presa di coscienza. Ho sentito dire da qulcuno che questa non è guerra perché non è come la Seconda Guerra Mondiale. Ma allora non possono esistere guerre, perché è chiaro che oggi nessuna guerra può essere come quel tipo di guerra. Insomma, io non ho remore a dire che i nostri soldati stanno combattendo una guerra. Cosa c’è di diverso, nel caso della presenza italiana? Che mentre i principali alleati hanno avuto coscienza da subito di quel che facevano e si sono attrezzati, o hanno cercato di farlo, noi no.

Tantè, in Italia mentre si ribadisce la natura di “missione di pace” il ministro della Difesa e gli stati maggiori militari “adeguano” i mezzi e insistono per farlo anche sulle regole d’ingaggio...
Il dibattito fondamentale non è quello sui mezzi militari, su quali tenere al fronte, quali ritirare, con quali altri sostituirli. Il dibattito fondamentale, in tutta l’alleanza che detiene presenza militare in Afghanistan e a partire dai comandi statunitensi, è stato ed è se le tattiche di guerra contrinsurrezionale praticate in Iraq sono applicabili o meno in Afhanistan. Il precedente comandante McKiernan diceva che sì, lo erano, fino in fondo: e dunque non si peritava di prevedere il massimo numero di vittime, fra le quali come s’è visto se ne sono contate molte nella popolazione civile. Il generale McChrystal, l’attuale comandante, ha invece completamente cambiato approccio. E’ significativa una sua frase al momento dell’insediamento: «Il metro del mio successo - ha detto - non sarà quanti talebani avrò ucciso ma quanti afghani avrò protetto». Queste parole hanno dei risvolti pratici: lo stesso generale Usa ha invocato un cambiamento di regole d’ingaggio. E il cambiamento che ha invocato è in senso più restrittivo.


Esattamente al contrario di come se n’è discusso in Italia. Anche volendo lasciare da parte von Clausewitz, non è questa diversità di approccio alle direttive militari riflette un anacronismo della posizione politica italiana rispetto al travaglio vissuto dagli Usa e che attraversa la nuova amministrazione Obama?
E’ evidente. Non è che un comandante militare cambia approccio per sua iniziativa. E’ un nuovo comandante, nominato da una nuova amministrazione, con nuove direttive. Ed è apparso da subito chiaro che il presidente Obama, pur confermando e anzi rendendo centrale l’ingaggio in Afghanistan, avrebbe ricercato un cammino diverso. Mi pare che, scontato il passaggio delle elezioni di agosto, ci si stia arrivando, finalmente. Però occorre anche fare attenzione a che non sia troppo tardi.


Ecco: negli stessi Stati Uniti e in Gran Bretagna si discute non solo sul fatto che quella è una brutta guerra ma che non la si può vincere, come tale. Non vale tanto più per l’Italia, viste le condizioni della presenza laggiù?
Io penso da sempre che, essendo quella in Afghanistan una guerra ed essendo per l’appunto in Afghanistan, in quel luogo delicatissimo, non si sarebbe mai potuto pensare di trovare una soluzione per la sola via militare. D’altra parte, però, proprio per questo non concordo con chi dice che prima di tutto bisogna venir via. Anche questo, ossia l’andarsene, deve avere un fine. Il punto è: cosa avremo risolto? Oppure è meglio stare lì e fare in modo di far prevalere il nostro sistema di comprensione delle operazioni, in modo che la strategia complessiva cambi? Anche facendo presente magari che ci sono cose che non possono essere fatte. Ciò che mi perplime maggiormente resta la confusione: quando ad esempio parliamo di regole d’ingaggio noi parliamo delle regole seguite dal soldato combattente ma non, come invece fanno gli altri, del modo di condurre le operazioni. Insomma, quel che scontiamo è uno scollamento della politica dalla strategia e per conseguenza della strategia da quanto accade realmente sul terreno.

Ma, volendo stare a quanto accade sul teatro delle operazioni, non appare chiaro che molta dell’intensità degli scontri si stia spostando proprio sul quadrante Ovest e specialmente a Farah dov’è concentrato il contingente, nelle condizioni descritte?
Molto si concentra su Farah perché là ci sono operazioni in atto, da tempo. Cioè là stiamo conducendo determinate operazioni. Non so davvero se con un fine e quale, però. Il fatto fondamentale è questo: è che Farah non è come si era voluto far pensare un’oasi di serenità, ma come anche a Herat si sparava tutti i giorni anche prima. C’è una totale interdipendenza della situazione sul terreno con quella ad Helmand e nel resto del teatro di guerra.

Restando sempre al quadrante Ovest: il confine con l’Iran non dovrebbe rappresentare un fattore di stimolo all’Italia per un ruolo diverso, maggiormente politico, sulla vicenda afghana?
Intanto, ho perso veramente qualsiasi sensazione di grandi giochi geopolitici, quanto all’Afghanistan. Secondo me il livello ormai è quello della sopravvivenza: del Paese, del governo, del senso stesso della presenza occidentale. Il resto dei fattori potrà ricominciare a palesarsi quando si dovesse minimamente stabilizzare la situazione interna. Un fatto è certo, quanto agli italiani nell’Ovest afghano: siamo in un punto delicato e siamo anche in un osservatorio privilegiato. E’ che non l’abbiamo mai detto, quel che vediamo da lì. E quel che si vede non è un’interferenza ostile iraniana, ma esattamente il contrario, la preoccupazione di Teheran per quel che accade. Il nostro ruolo, che finora s’è mostrato anche molto equilibrato nel non andare a cavalcare oltre misura la tigre del “Satana” iraniano, avrebbe potuto funzionare anche di più se qualcuno questa visione sul campo l’avesse fatta pesare nei briefing Nato o nelle sedi politiche. Ecco sempre qui torniamo: allo scollamento della politica.

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