27 febbraio 2008

La politica estera dei democratici? Prussiani contro negoziatori

La politica americana ha effetti immediati sulla nostra. Se nella vulgata statunitense finisse la fissazione per il taglio delle tasse, presto o tardi ne sentiremmo parlare anche da noi. Per noi europei il tema centrale, quello che forma l'opinione, è la politica estera. E allora, visto che con ogni probabilità uno tra Barack Obama e Hillary Clinton sarà presidente, occorre decifrare i documenti delle campagne e chiedersi chi li ha scritti. Chi contribuisce a costruire la posizione, chi consiglia. Che significa anche chi gestirà direttamente o indirettamente la politica estera della prima potenza mondiale. Chi saranno i prossimi Rumsfeld, Wolfowitz, Rice? Se vincesse Obama c'è l'incredibile possibilità che a fare il segretario di Stato sia una Rice. Non più Condoleezza ma la 43enne Susan. Super preparata, consigliera per gli Esteri di Kerry, fa la blogger sul sito di notizie democratico di sinistra Huffington post, già sottosegretaria per lo sviluppo sotto Bill Clinton. Barack ha pescato tra l'entourage clintoniano ma non troppo, mentre Hillary si è affidata quasi completamente agli esperti che hanno guidato gli Usa negli anni 90.
Stephen Zunes insegna Politica internazionale all'Università di San Francisco, dove dirige il dipartimento di Studi mediorientali e negli ultimi mesi ha pubblicato diversi articoli nei quali analizza le posizioni dei personaggi che contrinuiranno a formare le opinioni di Obama e Clinton nel caso riuscissero nell'impresa di entrare alla Casa Bianca.

Cominciamo dalla questione più generale: chi sono e cosa pensano gli esperti di politica estera di Hillary Clinton?

Cominciamo da una figura nota, Richard Holbrooke, ambasciatore Usa all'Onu fino al 2001 e probabile Segretario di stato in caso di vittoria dell'ex first lady. Holbrooke è l'uomo degli accordi di Dayton che hanno posto fine alla guerra di Bosnia ed è un forte sostenitore della proiezione esterna e militare per proteggere gli interessi statunitensi. A suo tempo convinse Carter che era utile proteggere Suharto in Indonesia e Marcos nelle Filippine. Nel primo caso gli Usa con il sostegno militare contribuirono indirettamente ai massacri a Timor Est. Non ci sono indicazioni che abbia, su questo, fatto autocritica. Dopo un periodo in cui Bush ha usato l'unilateralismo come se niente fosse sarebbe grave avere uno così alla guida della politica estera. E' stato a lungo grande sostenitore della guerra in Iraq ed ha apertamente criticato i governi europei che non hanno partecipato all'avventura. Una seconda figura importante che non dovrebbe avere incarichi formali è Madeleine Albright (già Segretario di Stato nella seconda amministrazione Clinton). Ha un ruolo cruciale nella campagna ed è amica di Hillary. E' anche lei una sostenitrice dell'unilateralismo. In generale tutti gli advisors, ad esempio l'ex consigliere per la Sicurezza nazionale Sandy Berger, sono tra i falchi del partito.

Il campo di Obama è diverso?

Tra le gente del senatore ci sono veterani delle amministrazioni democratiche e diversi innovatori. Susan Rice, Zbigniew Brezinski e Anthony Lake hanno lavorato con Carter e Clinton. Poi ci sono accademici liberal come Samantha Power, vincitrice del premio Pulitzer, che fa campagna per il Darfur. Tutti costoro tendono ad avere una predilezione per il "soft power". Sono preoccupati per i cosiddetti failed states, per la quaità dello sviluppo, per la povertà. Anche figure dell'establishment come Brezinski - e questo è interessante - hanno cambiato opinione a partire dalla vicenda dell'attacco all'Iraq. Brezinski l'ha condannata pubblicamente fin dall'inizio ed è anche stato critico del sostegno incondizionato alle scelte israeliane. Su Tel Aviv Brezinski dice: «sosteniamo il loro diritto a esistere, sono tra i nostri migliori amici ma, smettiamo di dare a Israele assegni in bianco».

Il ritorno della politica del soft power che tipo di impatto potrebbe avere sulla politica estera americana?

Intendiamoci, l'assunto fondamentale è che gli Usa vogliono il primato sul mondo. Nessuno può nemmeno pensare di diventare presidente senza sostenerlo in qualche modo. Non ci saranno grandi stravolgimenti, ma ci potrebbe essere una proiezione degli Usa nelle organizzazioni internazionali e nella diplomazia più articolata e ragionevole, che non mette subito la mano alla fondina. I democratici, in sintesi, sono divisi tra "negoziatori" e "prussiani". Penso che il campo di Obama potrebbe dare agli Usa un ruolo attivo a più facce. Meno enfasi sulle soluzioni militari - ma in Afghanistan pensa che bisogna proseguire e aumentare - e nuovi impegni su temi come l'Aids o il riscaldamento globale perché sono anche loro pericoli per la stabilità mondiale.

C'è un tema di grande attualità, il commercio, che si sovrappone in parte alla politica estera...

Alcuni degli advisors di Clinton sono tra i principali architetti del Wto, del Nafta e di altri pezzi del consenso neoliberista di Washington. Anche gli altri hanno sostenuto, in generale, l'idea di un'economia trainata dagli investimenti esteri, ma con qualche idea in più. Ad esempio la sottolineatura delle imprese locali da aiutare o la cancellazione del debito. La gente di Obama, nei suoi scritti, chiede più regole globali e mette al centro i temi ambientali. Se vogliamo, sono un po' più europei: allo stesso modo pro mercato ma non all'americana - «se va bene per il big business va bene per tutti». E' una globalizzazione dal volto umano. Non un fatto da sottovalutare.

(Martino Mazzonis)

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