21 febbraio 2008

L'eterno ritorno del populismo americano

Populismo è una delle parole chiave di questa campagna elettorale 2008, ed è anche una delle armi meglio utilizzate dal nuovo frontrunner del partito democratico, Barack Obama. Un termine che aveva già fatto breccia nelle elezioni di mid-term del 2006. La premessa è che il termine populismo, negli Stati uniti, non ha la stessa accezione negativa che lo caratterizza qui in Europa: autodefinirsi populista – come fanno alcuni rappresentanti del partito democratico - significa schierarsi col popolo, quello del “We the People” del preambolo della Costituzione del 1787.
La storia del sistema politico americano è contrassegnata da ondate cicliche di populismo moralizzatore nelle quali il popolo, o un campione che lo rappresenta, si oppone all’egoismo degli interessi particolari. Il contadino e il piccolo proprietario terriero contro il finanziere aguzzino; il lavoratore contro i monopoli e i robber barons; l’imprenditore e la sua famiglia contro i burocrati (nella sua declinazione conservatrice e anti-statalista). A seconda dell’epoca storica rappresentazioni diverse della “middle class”, che nella sua accezione più larga e più comune sembra comprendere chiunque lavori o paghi le tasse, una sorta di surrogato del termine popolo.
Il movimento populista americano ebbe un suo rispettabilissimo partito alla fine del diciannovesimo secolo, forte nelle aree agricole del sud e dell’ovest nelle quali la crisi economica, le trasformazioni del tessuto produttivo - e finanziario - del paese avevano prodotto povertà, rabbia e risentimento. Il People’s Party elesse persino un suo senatore proveniente dallo stato del Kansas. Da allora in poi la retorica e i temi del populismo riemergono ciclicamente: nel movimento socialista e sindacale di inizio ‘900, negli anni della Grande Depressione, nel nuovo conservatorismo di Ronald Reagan, solo per fare alcuni esempi.
Lo storico americano Michael Kazin parla della “Populist Persuasion” come di una storia americana, nella quale retorica e linguaggi dei diversi movimenti populisti conquistano la scena politica e pervadono il discorso pubblico e il funzionamento delle organizzazioni sociali e politiche. Il populismo in questo caso non sarebbe solo “discorso” (la lingua dei ribelli), ma avrebbe anche una sua declinazione organizzativa, popolare e di massa.
Il partito democratico ha sempre avuto una sua anima populista, anche in questo caso sia conservatrice che progressista. Nel primo uno dei suo esponenti fu George Wallace, il governatore democratico dell’Alabama che lasciò il suo partito alla fine degli anni ’60 perchè contrario alla leggi anti-segregazioniste. Il suo nemico era l’establishment del partito, che avrebbe scelto di assecondare gli hippies e i ben pensanti del nord-est, allo scopo di togliere denaro ai contribuenti per regalarlo alle minoranze. E queste ultime divennero effettivamente la base del nuovo partito democratico degli anni ’70.
L’anima populista e progressista del partito democratico è riaffiorata anche in chi meno te lo aspetti, come Bill Clinton e Al Gore, due teorici della “Terza Via”. Sia Clinton nel 1992 che Gore nel 2000 fecero largamente uso di una retorica populista (comune anche ad altri politici del sud). Ecco Clinton durante la campagna presidenziale del 1992: “l’amministrazione Bush rappresenta l’elite economica del paese (...); negli anni ’80 chi ha pagato meno tasse è riuscito ad avere di più facendo meno, e oggi pretende di dare lezioni a chi ha dovuto lavorare più duro per avere meno soldi e pagare più tasse”.
Dopo gli anni del “common touch” molto berlusconiano di George W. Bush la parola popolo è tornata ad appartenere al campo democratico: a tenerla in pugno ora è Obama. Egli invoca, a ogni comizio, l’unità delle gente comune contro la solita Washington delle lobby e dei poteri forti. A partire dal 2006 un approccio orgogliosamente populista era già tornato a fare breccia tra i democratici: erano stati eletti deputati e senatori libertari, alcuni imbevuti di retorica religiosa, spesso più isolazionisti che pacifisti, ancora più spesso nemici del Big Business e del libero commercio che ha fatto perdere posti di lavoro traslocando altrove gli impianti industriali.
Hillary Clinton sta utilizzando la stessa retorica del marito negli stati della Rust Belt (la cintura della vecchia economia manifatturiera) come l’Ohio, dove si avrà un voto decisivo per queste primarie il 4 marzo. La Clinton si trova nella scomoda posizione di dover proporre soluzioni contro le politiche di liberalizzazione – come quella del Nafta – sostenute dal marito; un prezzo che sta pagando per non perdere altro terreno nell’elettorato sindacalizzato dell’Ohio che ha votato per Sherrod Brown, uno dei senatori populisti del partito democratico. Il popolo di “We the People” che si è schierato con Obama appare come un accenno di blocco sociale, al tempo stesso mobilitato e organizzato dal senatore dell’Illinois ma schieratosi con lui anche in modo spontaneo, quasi impulsivo. Le paure e le insicurezze economiche prima di tutto hanno generato un nemico: l’establishment di cui la Clinton è accusata di far parte. In questa coalizione c’è una parte di elettorato giovane, poco politicizzato, con la laurea in tasca ma scarse certezze materiali, infilato in un’industria dei servizi che offre molte meno opportunità che negli anni ’90 del boom economico gestito proprio da Bill Clinton. Le loro paure li hanno avvicinati ad altri gruppi sociali.
Insieme si sono riconosciuti nel “We the People” offerto da Obama. Rappresentare “il popolo” è cosa ben diversa, e molto più potente, di quell’incarnazione di minoranze perdenti e distinte (i neri, gli ispanici, i sindacati, i gay...) che era il partito democratico degli ultimi 40 anni. Una coalizione multicolore che ha vinto solo grazie a imprenditori politici che hanno giocato in proprio, come Carter e Clinton. Obama, almeno dal punto di vista retorico, è riuscito a rappresentarsi come incarnazione di un “interesse generale” (come diremmo qui da noi), sintesi carismatica di un’unità del Popolo che prima era appannaggio retorico del conservatorismo americano. Che è sì in crisi, ma sufficientemente forte da poter sfidare il candidato dei democratici: non è solo una battaglia elettorale, ma uno scontro sul significato del motto “We the People”.

(Mattia Diletti)

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