8 febbraio 2008

Non è solo un duello di personalità…

Hillary e Obama rappresentano due segmenti diversi dell'elettorato democratico, uno più "professionale-progressista-alto reddito" (che vota Obama) e uno più "femminile-moderato-conservatore" che vota Hillary. Per la prima volta, queste due subcoalizioni si cristallizzano durante le primarie attorno a candidati alternativi, all'incirca della stessa forza, e questo comporta seri rischi di rottura nel partito e nell'elettorato. Una candidatura Hillary farebbe ricadere gran parte dell’entusiasmo giovanile mobilitato per Obama in queste primarie, ma una candidatura Obama darebbe all’elettorato operaio e alle donne a basso reddito la sensazione, ancora una volta, di non trovare una rappresentanza politica adeguata nel partito democratico. Nell’ultimo sondaggio del Pew research Center si vede chiaramente che una larga maggioranza dei democratici a basso reddito (sotto i 40.000 dollari annui lordi, cioè circa 1.500 euro al mese netti) sostiene Hillary: è il 55%, contro il 35% di Obama e questa percentuale tende ad aumentare leggermente, non a diminuire. Nella corsa per la presidenza, il vero asso nella manica di Hillary non è il marito Bill, o il sostegno dell’apparato ma la fedeltà che le dimostrano gli americani meno fortunati.
Inoltre, Hillary e Obama rappresentano anche due strategie elettorali differenti: gli strateghi clintoniani partono dalla constatazione che l’America è geograficamente divisa in due, con le coste e le città che votano democratico, il Sud, l’Ovest e le campagne che votano repubblicano. Occorre quindi concentrare gli sforzi sui pochi stati incerti (meno di una decina) perché il meccanismo del collegio elettorale permette di vincere anche avendo gli stessi voti, o meno voti, dell’avversario. Per esempio, nel 2004, un pessimo candidato come John Kerry, rischiò di vincere per l’incertezza del risultato in Ohio: se avesse avuto appena 120.000 voti in più lì (su oltre 5,5 milioni) sarebbe diventato presidente.
Il ragionamento di Hillary e dei suoi collaboratori è quindi che non ha nessuna importanza se i tradizionali elettori repubblicani della “cintura della Bibbia” vanno a votare in massa contro di lei: l’importante è rassicurare l’elettorato democratico tradizionale e conquistare alcuni gruppi importanti per gli swing States, come gli ispanici. Per esempio, se il candidato del partito riuscisse quest’anno a tenere tutti gli Stati conquistati da Kerry quattro anni fa e ad aggiungervi New Mexico, Colorado e Nevada potrebbe fare a meno anche dell’Ohio ed entrare alla Casa Bianca, sia pure con una maggioranza risicatissima.
I collaboratori di Obama partono da un’idea diversa, ispirata da Howard Dean, che nel 2004 rappresentò il candidato dei giovani e della sinistra del partito. L’idea è che non si deve rinunciare a nessuno Stato, a nessuna contea, perché i democratici possono vincere ovunque, se hanno dei candidati capaci di parlare anche agli elettori indipendenti, o addirittura ai repubblicani. Dean, ora energico presidente del Comitato Nazionale Democratico, ha quindi sostenuto una strategia “50 States”, cioè un tentativo di entrare anche nelle roccaforti repubblicane del Sud e dell’Ovest.
Obama chiaramente parla un linguaggio diverso, più soft (e anche più vago) di Hillary, si presenta come “uomo nuovo” e non esita a riconoscere (piuttosto opportunisticamente) i meriti di Ronald Reagan. In effetti, agli elettori indipendenti piace più della Clinton ma non è detto che piaccia “negli Stati giusti”, che sono poi quelli con un forte elettorato ispanico perché negli Stati del Sud con un forte elettorato afroamericano i democratici hanno comunque poche possibilità. Fra l’altro, i sondaggi contano poco: nelle urne si sa che i candidati di colore persono sempre alcuni punti rispetto alle previsioni, quindi Obama dovrebbe essere accreditato almeno del 53% per avere, nella realtà, il 50,1. Può darsi che Obama porti al voto molti giovani che altrimenti non voterebbero ma, di nuovo, è un problema di geografia elettorale: i voti degli universitari del Connecticut e del Massachusetts non servono, occorrono i voti dei ventenni del West Virginia, dell’Ohio, del Wisconsin, dell’Iowa, del New Mexico.
Con due candidati praticamente pari nel numero dei delegati, è possibile che la scelta finale della convenzione di Denver dipenda da valutazioni degli esperti sulle due strategie, cioè su chi sarà meglio in grado di competere con John McCain negli Stati-chiave.

Fabrizio Tonello

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