29 maggio 2008

La Casa Bianca di Bush? Un porto delle nebbie (il libro di McClennan)

Martino Mazzonis
Un porto delle nebbie. Così verrà ricordata dagi storici la Casa Bianca dell’era Bush II. Non c’è ex generale, collaboratore, portavoce, aiutante che, lasciando l’amministrazione in carica, non abbia sparato a zero su Cheney e la sua marionetta presidenziale. Gli unici a stare zitti o a svicolare sono Rumsfeld e Wolfovitz le figure portanti finite male. L’ultimo della serie è Scott McClellan, ex capo ufficio stampa della Casa Bianca per sei anni che ha pensato bene di dare alle stampe un libro che colpisce una presidenza barcollante e ai minimi storici per approvazione.
Il libro di McClennan si chiama “Cosa è successo: dentro la Casa Bianca di Bush e la sua cultura washingtoniana dell’inganno”, un titolo fatto apposta per vendere tante copie, che è esattamente il motivo per cui negli Stati Uniti in tanti si tolgono sassolini dalle scarpe nel momento in cui lasciano un posto importante. Ci aveva provato anche Ari Fleischer, ex portavoce di Bush ma si dice che il suo libro sia così noioso e privo di notizie sensazionali che dopo qualche tempo sugli scaffali delle librerie sia pronto per il macero.
McClellan non risparmia nessuno: accusa Rove, l’ex stratega di Bush, di avergli mentito sulla vicenda della fuga di notizie dalla Cia, Condoleezza Rice di essere sorda alle critiche e Cheney di essere “il mago" che manovra la politica da dietro le quinte stando bene attento a non lasciare traccia del suo passaggio.
L’ex portavoce della Casa Bianca non arriva fino ad accusare Bush di aver volutamente mentito sulle vere ragioni per invadere l’Iraq, ma afferma che lui e il suo staff oscurarono la verità e fecero in modo che "la crisi fosse gestita così da far apparire la guerra come l’unica opzione praticabile". Quella messa in piedi dalla Casa Bianca nell’estate del 2000, aggiunge McClellan, fu una "campagna di propaganda politica" mirata a "manipolare le fonti alle quali attinge l’opinione pubblica" e a "minimizzare le reali ragioni della guerra»". Tra gli altri episodi citati nel libro anche un dialogo a porte chiuse tra Rove e Lewis Scooter Libby, aiutante di Cheney che rivelò le notizie su Valerie Plame agente segreto della Cia. Su tutta la faccenda Libby paga col carcere e in molti chiedono l’impeachment per il vicepresidente (mentre Rove è indagato). McClellan lasciò la Casa Bianca il 19 aprile del 2006 dopo che il nuovo capo di gabinetto Joshua Bolten, avviò un radicale rimpasto di cui fece le spese anche Karl Rove.
"Ammiro ancora Bush" scrive McClellan, che ha appena compiuto 40 anni e lavora con il presidente dai tempi in cui govrnava placidamente sul Texas, nelle 341 pagine del libro anticipato dal Washington Post, "ma lui e i suoi consiglieri hanno confuso la propaganda con l’onestà e il candore necessari a costruire e mantenere il supporto dell’opinione pubblica in tempo di guerra. Da questo punto di vista Bush è stato terribilmente malconsigliato, specie per quanto riguarda la sicurezza nazionale". L’ex capo ufficio stampa ha anche accusato lo staff della Casa Bianca di aver gestito in maniera disastrosa la comunicazione durante la devastazione portata dall’uragano Katrina nel 2005. "Per tutta la prima settimana non hanno fatto altro che negare" scrive McClellan, "così uno dei più gravi disastri della storia del nostro Paese è diventato il più grave disastro della presidenza Bush". McClennan racconta anche della famosa foto (qui sopra) con il presidente che guarda New Orleans seduto sull’Air force one, invece che in mezzo alla gente. Su quella foto c’è stata un discussione e, come sempre, racconta McClennan, l’ha avuta vinta Rove. Mancano sei mesi all’addio di George W., un altro libro ci racconta dall’interno che disastro è stato questa presidenza. Persino per chi ci ha lavorato.

21 maggio 2008

Il nuovo secolo degli Stati Uniti, intervista con Arnaldo Testi

Martino Mazzonis

La politica e la storia americane sono più ricche e articolate di quanto non tendiamo a raccontarci. Il secolo degli Stati Uniti (Il Mulino, 20€) di Armando Testi, che insegna storia degli Stati Uniti a Pisa, è un affresco completo, rapido e ricco di suggestioni. Una lettura del secolo americano dove si intrecciano i grandi accadimenti ufficiali e le mutazioni di lungo periodo, le guerre e la produzione culturale. Con Testi abbiamo provato a parlare della campagna presidenziale Usa con uno sguardo rivolto al secolo scorso.

L’ultimo capitolo del libro (che riguarda la presidenza Bush) è narrato al passato, un’esigenza editoriale o il secolo americano sta davvero finendo?
Sono vere entrambe le cose. Pensavo all’effetto che avrebbe fatto tra due anni a uno studente, certo, ma probabilmente possiamo già parlare al passato dell’era Bush. C’è l’ipotesi di uno dei grandi cambiamenti di regime che caratterizzano la storia nazionale americana. Sia dal punto della politica estera che da quello della politica interna mi sembra di percepire una grande incertezza. Cosa sono i due grandi partiti e chi sono i loro elettori? I democratici si interrogano su quale sia la coalizione sociale che può restituire loro una forza stabile, mentre i repubblicani ragionano sul crollo finale della coalizione che sostenne il New deal. Molti studiosi si chiedono se le prossime saranno elezioni storiche, ma è difficile dare una risposta netta. E’ già così per le candidature democratiche, anche se Obama potrebbe finire come McGovern, che perse nel 1972 come outsider con una piattaforma populista e anti guerra del Vietnam. Ma la sensazione resta, c’è un senso di eccitazione e partecipazione e i dati quantitativi parlano chiaro.

Tra le cose che cambiano sembra esserci un nuovo atteggiamento nei confronti del rapporto tra religione e politica.
A guardare alcuni dati sembra che anche su quel fronte stia avvenendo una rottura: gli evangelici non sono più così legati ai repubblicani. McCain non ha il profilo del candidato valoriale che piace alla destra, ma la stessa destra religiosa sembra non essere più la punta egemonica del movimento religioso protestante. Così la coalizione repubblicana perderebbe una delle componenti di amalgama tra valori e interessi che l’ha sorretta. Qualche indagine approfondita mostra che la difesa del creato (il tema ambientale) stia diventando più importante dell’aborto. Non è chiaro se si tratti solo di una speranza di alcuni analisti. Certo è che negli anni 70 ci abbiamo messo tempo a capire che la destra evangelica non era un gruppetto strambo ma un movimento politico poderoso.

Passiamo ai partiti. Quelli americani sono solo macchine elettorali del leader? Le ultime primarie, con due outsider che vincono (nel caso di Obama non è sicuro al cento per cento) sembrano raccontare un’altra storia.
Negli ultimi anni si è vista una ripresa di funzioni, di ruolo, di autorità del partito struttura permanente. E’ ovvio che le primarie vere, di diritto pubblico che non servono a fare votare uno già scelto dall’alto, spingono a far crescere la personalità e il carisma del candidato. Ma c’è una riorganizzazione generale dei partiti e, in particolar modo dei democratici. Per la prima volta il segretario, Howard Dean, è una figura nota, la sua elezione ha avuto un significato politico e sta funzionando. Lo stesso Dean ha detto delle presidenziali: «Bisogna far finta che sia un’elezione diretta». Vuol dire che ogni voto conta, che bisogna essere presenti ovunque anche dove non c’è speranza di prendere lo Stato e i relativi grandi elettori. E poi, cosa importante per uno che ha fatto le primarie del 2004 usando benissimo il Web e le nuove tecnologie, Dean ha detto «Basta Tv, facciamo il porta a porta». Non esattamente il modello di politica americana che noi immaginiamo, dove il lavoro organizzativo di base è stare nei quartieri, esserci, parlare. C’è un’estensione dell’autorità del partito, anche se è ovvio che di fronte a delle primarie vere con candidati forti, non è il partito che interviene a sciogliere i conflitti, a decidere se Clinton debba o no lasciare. Io sostengo che dagli anni 70 c’è stata una ripresa organizzativa della forza dei partiti. Lo stesso vale per la riorganizzazione delle primarie negli anni 80 - una reazione alla sconfitta di McGovern - con l’invenzione dei supermartedì. Mettendo tutte le primarie assieme solo i candidati che hanno il sostegno del partito riescono a sopravvivere. Lo stesso Dean venne macinato in fretta.

Si vincono solo al centro le elezioni americane? O è anche questa una nostra proiezione?
Se guardiamo le cose sul lungo periodo osserviamo che i modi di vincere le elezioni sono diversi. In alcuni casi c’è stata la corsa al centro, in altri, e queste sono state le elezioni significative, si sono mobilitate le ali o i non elettori. E’ il caso del New deal e quello di Ronald Reagan. Quando i candidati hanno egemonizzato il centro e attratto le ali. Non saprei cosa potrebbe essere il centro nel 2008. Entrambi punteranno agli elettori indipendenti, ma questi non sono necessariamente il centro. In questo senso credo che possano essere due candidature diverse. Il problema di Obama è che di certo porta dentro, ma probabilmente lascia anche scappare - non sappiamo come reagirà l’elettorato bianco. Gli elettori bianchi si sono mossi molto tra il ’64 e il ’68, poi nell’80 e di nuovo con Clinton. Non c’è più quella lealtà incrollabile rappresentata da quanto sentii dire da un’anziana signora: «Neanche se Gesù fosse repubblicano voterei per loro...e d’altra parte Gesù non può essere repubblicano». Una cosa simile a Pci e Dc. Non è più così ed è difficile sapere chi premieranno o puniranno gli spostamenti. Obama è capace di fare una intelligente narrazione della storia nazionale. Il suo discorso sulla razza in risposta alla polemica sul reverendo Wright è uno dei discorsi intelligenti politici fatti negli Usa in epoca moderna, difficile da fare in maniera razionale sulla piazza pubblica. Lui può usare la sua vicenda personale, che è una storia conflittuale. Sua moglie Michelle manda un messaggio diverso. La prima volta che ho visto i due Obama ho ricevuto dei messaggi nettamente distinti. Lui lancia un messaggio di non aggressività e non risentimento nei confronti dell’elettorato bianco. Michelle un po’ meno e i bianchi americani lo percepiscono.

Un tema molto presente nelle primarie è quello populista del commercio internazionale, del protezionismo. C’è spazio per un ritorno vero di quelle scelte?
Secondo me sono discorsi elettorali. Chiunque vincerà dovrà deludere quelle promesse. L’economia americana è così globalizzata che sembra davvero difficile poter scegliere quella strada. Ci sono stati episodi di lingua biforcuta da parte di entrambi i candidati sui temi del commercio estero: mentre criticavano il Nafta davano garanzie informali sul fatto non ci saranno rivoluzioni. Diverso sarebbe se scoppiassero guerre commerciali e il meccanismo di redistribuzione dell’autorità a livello globale (verso Cina e India) non prendesse forme così aspre da precipitare in una crisi. Svolte protezionistiche ci saranno in caso di crisi internazionali, non per stare mantenere promesse fatte agli operai dell’Ohio. Nel suo ultimo libro Fareed Zakaria (auorevole giornalista/esperto di politica internazionale del Newsweek) sostiene che non c’è una crisi Usa, ma la crescita di altri poteri e che ci si deve preparare a un’età policentrica. Una bella cosa in teoria, ma non prevede il momento di passaggio: cosa succede quando ci si sente minacciati nelle proprie posizioni, quando si perdono pezzi di mercato e le forme di competizione che ci penalizzano? Una crisi difficile da gestire. Mi pare di capire che nello staff di Obama il problema venga contemplato e che si spinga per usare i tavoli multilaterali. Potrebbe essere un segno della raggiunta consapevolezza della propria debolezza.

Obama ha (quasi) vinto raccogliendo consensi tra i giovani e criticando le forme della politica e della gestione del potere. E’ in atto un salto generazionale?
Non è successo dalla sera alla mattina. Ci sono simil-Obama in giro: come governatori, sindaci, un senatore del Sud. C’è una generazione di quarantenni neri, a volte figli dei dirigenti dei diritti civili, ma radicalmente diversi dai loro genitori. Il sindaco di Newark, Booker, ad esempio. Anche di lui si è detto che non era abbastanza nero. C’è chi si porta dietro il peso di quello che ha significato fare politica negli anni 60, esponenti di un ceto sociale uscito dal ghetto. Sia Obama che il sindaco di Newark sono persone che sono tornate a lavorare nel ghetto per scoprirlo, impararlo. E’ difficile mischiare Obama e compagnia con la cultura del rap, sono abissi culturali. E quindi c’è un cambiamento nella comunità afroamericana, ma anche nelle comunità ispaniche e bianche. Francamente prevedere se il cambiamento generazionale è anche un cambiamento reale del panorama politico è difficile. Non si riesce a intravedere ancora qual’è la nuova cultura politica. Probabilmente però vedremo l’emergere di un ceto politico nuovo che finalmente manderà in pensione i baby boomers.

5 maggio 2008

North Carolina, profondo Sud (che cambia)

Come l'Indiana, la North Carolina non è un Paese per democratici. Il georgiano e bianco possidente del Sud Jimmy Carter è l'ultimo presidente ad aver portato a casa lo Stato per il suo partito. Nemmeno Clinton, l'altro presidente del Sud, è riuscito a strapparla al Grand Old Party.
Come per l'Indiana, lo Stato è stato colpito negli ultimi anni dalle conseguenze dall'abbattimento delle barriere commerciali. Al pari della sua parente del Sud, la Carolina ha visto le sue aree rurali e i piccoli centri industriali spazzati via dalla concorrenza asiatica: un quinto del lavoro manufatturiero è andato perduto e il cotone e il tabacco non servono più a produrre ricchezza. Ma la crisi della vecchia industria non è tutto. Se in South Carolina è il turismo ad essere la nuova frontiera, a Raleigh e Charlotte il tentativo è quello di generare crescita con un enorme investimento in ricerca e sviluppo. Lo Stato sta investendo 5 miliardi di dollari per costruire un Research campus a Kannapolis con l'idea di produrre 37mila nuovi posti di lavoro. Un esperimento simile ha funzionato con il Research triangle park, fondato el 1959, all'inizio del declino di tessile e tabacco. Il problema, qui come altrove, è che il nuovo lavoro di qualità non pesca nei bacini della disoccupazione post-industriale. Come altrove, insomma, lo sviluppo è destinato ad attrarre giovani brillanti e laureati, ma lascia fuori quel ceto medio in balia della grande trasformazione che sta attraversando tutti gli Stati Uniti.
Su gli scontenti e insicuri punta Hillary Clinton, che spera così di colmare il divario che da mesi la vede dietro nei sondaggi. La proposta sul taglio delle tasse sulla benzina - populista e di corto respiro - sembra fatta apposta per corteggiare le famiglie che non ce la fanno a pagare i conti. Gli attacchi a Obama sul gun control sono la stessa cosa. Il tentativo è quello di replicare Ohio e Pennsylvania. Sulla grande comunità afroamericana può contare Obama: il 21% della popolazione e possibile 40% degli elettori delle primarie sono neri e voteranno a grande maggioranza per lui. Anche i cambiamenti dell'economia locale, con i centri di eccellenza sono un bastione del senatore dell'Illinois. La vicenda del reverendo Wright lo ha colpito pesantemente e il suo vantaggio, un tempo sopra i dieci punti, oggi oscilla nei sondaggi tra un massimo di dieci e 3 punti. Una sconfitta di misura sarebbe per Hillary il segnale da agitare che è lei ad avere il vento nelle vele. Per Obama un vantaggio sotto i cinque punti sarebbe un disastro. Una vittoria larga è importante anche sul fronte dei delegati: qui sono 115, il numero più alto rimasto prima di Denver e portarne a casa parecchi, per Obama, sarebbe un passo in più verso la nomination. Le cronache dal campo raccontano di una campagna del senatore meno caratterizzata da grandi raduni, che punta sul porta a porta e gli incontri tematici. Qui come in Indiana, piccoli centri in crisi e fabbriche sono stati molto corteggiati.
Nessuno tra i contendenti può contare sull'appoggio di John Edwards, che è nato qui e qui veniva eletto senatore. Un suo sostegno servirebbe proprio a corteggiare quei lavoratori bianchi che sono diventati oggetto del contendere dal Supermartedì in poi. Ma l'ex avvocato dei poveri non ha intenzione di scoprirsi: vuole un posto nella prossima amministrazione e gli serve di sostenere il vincitore finale.

Indiana elettorale

L'indiana è uno stato con poco più di 6 milioni di abitanti, terra di fabbriche (senza grandi città industriali, però), di campi di grano e di sport: la gara automobilistica di Indianapolis e il basket, grandissima passione dello stato. E' uno stato conservatore che fa da cerniera tra il mid-west e il sud: a ovest l'Illinois, a est l'Ohio e a sud il Kentucky. Un democratico qui non vince le presidenziali dal 1964 (nell'immagine la distribuzione del voto nel 2004 nei distretti elettorali dello stato: in rosso i repubblicani. I democratici vincono nelle città, come al solito).
Gli abitanti dell'Indiana sono chiamati Hoosiers, non si sa bene perché (in realtà un po' di storie al riguardo esistono, e una è divertente: si tratterebbe di una cattiva ricezione del termine "ussaro" a inizio '800. Scherzi delle migrazioni dalla vecchia Europa). Fine delle notizie alla wikipedia.
Dal punto di vista elettorale, in queste primarie, dovrebbe essere favorita la Clinton, anche se i sondaggi hanno visto un testa a testa tra i due candidati proprio nell'ultimo mese. L'elettorato democratico è composto in buona parte dal tipico bacino elettorale della Clinton: lavoratori bianchi, sindacalizzati e poco scolarizzati (l'industria manufatturiera e quella dell'automobile in questo stato sono - erano - una cosa seria). Come in Pennsylvania (vedi qui e qui le nostra schede). Vicino all'Illinois le buone notizie per Obama: una discreta percentuale di popolazione nera che subisce l'influenza dello stato di provenienza del senatore. Inoltre, al contrario della Pennsylvania, in queste primarie possono votare anche gli indipendenti, più propensi a sostenere Barack. Vedremo se il suo sforzo di portare nuovi elettori al seggio funzionerà.
Il solito mix di necessità mediatiche e opportunità politiche ha caricato questo appuntamento di enormi significati, ed entrambi i candidati hanno speso grosse cifre per la campagna elettorale. Se Obama vincesse la Clinton sarebbe quasi costretta al ritiro, al contrario avrebbe un ulteriore spinta, ora che è già in recupero. I suoi strateghi continuano a sostenere che chi vince in Indiana vincerà le presidenziali. Forse esagerano..
Il senatore democratico dello stato Evan Bayh, molto popolare, appartiene a una vecchia dinastia politica locale (suo padre è stato senatore e ha partecipato alle primarie democratiche per le presidenziali del 1976) ed è un grande sostenitore della Clinton. E' un possibile candidato alla vicepresidenza nel caso la Clinton ce la facesse.
I temi locali della campagna elettorale sono stati tre: lavoro, lavoro, lavoro. La crisi è la stessa dell'Ohio, della Pennsylvania.. Si è promesso lavoro e molto protezionismo, un tema ricorrente di questa campagna elettorale (guardate qui lo spot elettorale di Hillary che ricorda, con toni populistici, le sue umili origini, e qui il video di Obama di fronte a una fabbrica dismessa). Ormai le parole, le strategie, i contenuti e gli stili di comunicazione di questa campagma elettorale non cambieranno. Aspettiamo, da domani, il prossimo diluvio di numeri e commenti.