21 maggio 2008

Il nuovo secolo degli Stati Uniti, intervista con Arnaldo Testi

Martino Mazzonis

La politica e la storia americane sono più ricche e articolate di quanto non tendiamo a raccontarci. Il secolo degli Stati Uniti (Il Mulino, 20€) di Armando Testi, che insegna storia degli Stati Uniti a Pisa, è un affresco completo, rapido e ricco di suggestioni. Una lettura del secolo americano dove si intrecciano i grandi accadimenti ufficiali e le mutazioni di lungo periodo, le guerre e la produzione culturale. Con Testi abbiamo provato a parlare della campagna presidenziale Usa con uno sguardo rivolto al secolo scorso.

L’ultimo capitolo del libro (che riguarda la presidenza Bush) è narrato al passato, un’esigenza editoriale o il secolo americano sta davvero finendo?
Sono vere entrambe le cose. Pensavo all’effetto che avrebbe fatto tra due anni a uno studente, certo, ma probabilmente possiamo già parlare al passato dell’era Bush. C’è l’ipotesi di uno dei grandi cambiamenti di regime che caratterizzano la storia nazionale americana. Sia dal punto della politica estera che da quello della politica interna mi sembra di percepire una grande incertezza. Cosa sono i due grandi partiti e chi sono i loro elettori? I democratici si interrogano su quale sia la coalizione sociale che può restituire loro una forza stabile, mentre i repubblicani ragionano sul crollo finale della coalizione che sostenne il New deal. Molti studiosi si chiedono se le prossime saranno elezioni storiche, ma è difficile dare una risposta netta. E’ già così per le candidature democratiche, anche se Obama potrebbe finire come McGovern, che perse nel 1972 come outsider con una piattaforma populista e anti guerra del Vietnam. Ma la sensazione resta, c’è un senso di eccitazione e partecipazione e i dati quantitativi parlano chiaro.

Tra le cose che cambiano sembra esserci un nuovo atteggiamento nei confronti del rapporto tra religione e politica.
A guardare alcuni dati sembra che anche su quel fronte stia avvenendo una rottura: gli evangelici non sono più così legati ai repubblicani. McCain non ha il profilo del candidato valoriale che piace alla destra, ma la stessa destra religiosa sembra non essere più la punta egemonica del movimento religioso protestante. Così la coalizione repubblicana perderebbe una delle componenti di amalgama tra valori e interessi che l’ha sorretta. Qualche indagine approfondita mostra che la difesa del creato (il tema ambientale) stia diventando più importante dell’aborto. Non è chiaro se si tratti solo di una speranza di alcuni analisti. Certo è che negli anni 70 ci abbiamo messo tempo a capire che la destra evangelica non era un gruppetto strambo ma un movimento politico poderoso.

Passiamo ai partiti. Quelli americani sono solo macchine elettorali del leader? Le ultime primarie, con due outsider che vincono (nel caso di Obama non è sicuro al cento per cento) sembrano raccontare un’altra storia.
Negli ultimi anni si è vista una ripresa di funzioni, di ruolo, di autorità del partito struttura permanente. E’ ovvio che le primarie vere, di diritto pubblico che non servono a fare votare uno già scelto dall’alto, spingono a far crescere la personalità e il carisma del candidato. Ma c’è una riorganizzazione generale dei partiti e, in particolar modo dei democratici. Per la prima volta il segretario, Howard Dean, è una figura nota, la sua elezione ha avuto un significato politico e sta funzionando. Lo stesso Dean ha detto delle presidenziali: «Bisogna far finta che sia un’elezione diretta». Vuol dire che ogni voto conta, che bisogna essere presenti ovunque anche dove non c’è speranza di prendere lo Stato e i relativi grandi elettori. E poi, cosa importante per uno che ha fatto le primarie del 2004 usando benissimo il Web e le nuove tecnologie, Dean ha detto «Basta Tv, facciamo il porta a porta». Non esattamente il modello di politica americana che noi immaginiamo, dove il lavoro organizzativo di base è stare nei quartieri, esserci, parlare. C’è un’estensione dell’autorità del partito, anche se è ovvio che di fronte a delle primarie vere con candidati forti, non è il partito che interviene a sciogliere i conflitti, a decidere se Clinton debba o no lasciare. Io sostengo che dagli anni 70 c’è stata una ripresa organizzativa della forza dei partiti. Lo stesso vale per la riorganizzazione delle primarie negli anni 80 - una reazione alla sconfitta di McGovern - con l’invenzione dei supermartedì. Mettendo tutte le primarie assieme solo i candidati che hanno il sostegno del partito riescono a sopravvivere. Lo stesso Dean venne macinato in fretta.

Si vincono solo al centro le elezioni americane? O è anche questa una nostra proiezione?
Se guardiamo le cose sul lungo periodo osserviamo che i modi di vincere le elezioni sono diversi. In alcuni casi c’è stata la corsa al centro, in altri, e queste sono state le elezioni significative, si sono mobilitate le ali o i non elettori. E’ il caso del New deal e quello di Ronald Reagan. Quando i candidati hanno egemonizzato il centro e attratto le ali. Non saprei cosa potrebbe essere il centro nel 2008. Entrambi punteranno agli elettori indipendenti, ma questi non sono necessariamente il centro. In questo senso credo che possano essere due candidature diverse. Il problema di Obama è che di certo porta dentro, ma probabilmente lascia anche scappare - non sappiamo come reagirà l’elettorato bianco. Gli elettori bianchi si sono mossi molto tra il ’64 e il ’68, poi nell’80 e di nuovo con Clinton. Non c’è più quella lealtà incrollabile rappresentata da quanto sentii dire da un’anziana signora: «Neanche se Gesù fosse repubblicano voterei per loro...e d’altra parte Gesù non può essere repubblicano». Una cosa simile a Pci e Dc. Non è più così ed è difficile sapere chi premieranno o puniranno gli spostamenti. Obama è capace di fare una intelligente narrazione della storia nazionale. Il suo discorso sulla razza in risposta alla polemica sul reverendo Wright è uno dei discorsi intelligenti politici fatti negli Usa in epoca moderna, difficile da fare in maniera razionale sulla piazza pubblica. Lui può usare la sua vicenda personale, che è una storia conflittuale. Sua moglie Michelle manda un messaggio diverso. La prima volta che ho visto i due Obama ho ricevuto dei messaggi nettamente distinti. Lui lancia un messaggio di non aggressività e non risentimento nei confronti dell’elettorato bianco. Michelle un po’ meno e i bianchi americani lo percepiscono.

Un tema molto presente nelle primarie è quello populista del commercio internazionale, del protezionismo. C’è spazio per un ritorno vero di quelle scelte?
Secondo me sono discorsi elettorali. Chiunque vincerà dovrà deludere quelle promesse. L’economia americana è così globalizzata che sembra davvero difficile poter scegliere quella strada. Ci sono stati episodi di lingua biforcuta da parte di entrambi i candidati sui temi del commercio estero: mentre criticavano il Nafta davano garanzie informali sul fatto non ci saranno rivoluzioni. Diverso sarebbe se scoppiassero guerre commerciali e il meccanismo di redistribuzione dell’autorità a livello globale (verso Cina e India) non prendesse forme così aspre da precipitare in una crisi. Svolte protezionistiche ci saranno in caso di crisi internazionali, non per stare mantenere promesse fatte agli operai dell’Ohio. Nel suo ultimo libro Fareed Zakaria (auorevole giornalista/esperto di politica internazionale del Newsweek) sostiene che non c’è una crisi Usa, ma la crescita di altri poteri e che ci si deve preparare a un’età policentrica. Una bella cosa in teoria, ma non prevede il momento di passaggio: cosa succede quando ci si sente minacciati nelle proprie posizioni, quando si perdono pezzi di mercato e le forme di competizione che ci penalizzano? Una crisi difficile da gestire. Mi pare di capire che nello staff di Obama il problema venga contemplato e che si spinga per usare i tavoli multilaterali. Potrebbe essere un segno della raggiunta consapevolezza della propria debolezza.

Obama ha (quasi) vinto raccogliendo consensi tra i giovani e criticando le forme della politica e della gestione del potere. E’ in atto un salto generazionale?
Non è successo dalla sera alla mattina. Ci sono simil-Obama in giro: come governatori, sindaci, un senatore del Sud. C’è una generazione di quarantenni neri, a volte figli dei dirigenti dei diritti civili, ma radicalmente diversi dai loro genitori. Il sindaco di Newark, Booker, ad esempio. Anche di lui si è detto che non era abbastanza nero. C’è chi si porta dietro il peso di quello che ha significato fare politica negli anni 60, esponenti di un ceto sociale uscito dal ghetto. Sia Obama che il sindaco di Newark sono persone che sono tornate a lavorare nel ghetto per scoprirlo, impararlo. E’ difficile mischiare Obama e compagnia con la cultura del rap, sono abissi culturali. E quindi c’è un cambiamento nella comunità afroamericana, ma anche nelle comunità ispaniche e bianche. Francamente prevedere se il cambiamento generazionale è anche un cambiamento reale del panorama politico è difficile. Non si riesce a intravedere ancora qual’è la nuova cultura politica. Probabilmente però vedremo l’emergere di un ceto politico nuovo che finalmente manderà in pensione i baby boomers.

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