7 marzo 2008

Storie democratiche

Provate a digitare www.leftinalabama.com e scoprirete che il partito democratico dell’Alabama possiede un’agguerrita ala sinistra. Il sito, infatti, è un vero manifesto dell’orgoglio progressista in Alabama, che non è un posto qualsiasi in cui essere di sinistra, ma lo stato più segregazionista degli Stati uniti, quello di Rosa Parker (la madre del movimento per i diritti civili) e di George Wallace, ricordato, tra le altre cose, per lo “Stand in the Schoolhouse Door” del 1963, quando si oppose fisicamente all’ingresso di due studenti neri nell’Università dell’Alabama.

Da leftinalabama.com parte una disamina feroce della strategia del Democratic Leadership Council (il DLC), la quinta colonna di Hillary Clinton nel partito democratico, firmata dal blogger locale mooncat. Nell’atto d’accusa di mooncat (che, a dispetto del nome, in questa storia ha un ruolo assai più importante di quanto si possa pensare) troverete la sintesi della battaglia politico/culturale oggi combattuta all’interno del partito democratico americano.

FARE I REPUBBLICANI: DLC VS NETROOTS

La coalizione conservatrice è al limite del tracollo, e le attuali gravissime difficoltà dell’amministrazione Bush potrebbero essere il segnale di una crisi dell’intero movimento conservatore, diviso per la prima volta da parecchio tempo a questa parte, alle prese con una pletora di candidati alle primarie che stentano a emergere e privo di un leader, un “king maker” capace di tenere insieme le diverse componenti del movimento e il suo establishment. “Is America turning left?”, si è domandato The Economist all’inizio di agosto. E’ la crisi di un presidente o una crisi di egemonia?

Per i democratici il problema è chiaro: per tornare non solo a vincere un’elezione presidenziale, ma soprattutto a influenzare le coordinate politico/culturali del paese, bisogna comportarsi come i repubblicani in questo passato prossimo. Ironia della sorte, quarant’anni fa e a parti invertite, questi ultimi pensavano si dovesse guardare all’avversario e alla sinistra, persino quella europea, per capire come riuscire a vincere di nuovo. “Fare come i repubblicani”, però, vuol dire cose diverse a seconda di come ci si colloca all’interno del partito democratico: per il DLC significa essere anche un po’ conservatore (o, come è uso sostenere, restare nell’ “American mainstream”), e cioè avere posizioni più moderate allo scopo di sottrarre all’avversario gli elettori di centro (la chimera di ogni sistema bipartitico). Per altri significa combattere una guerra culturale permanente per ricostruire la base del partito democratico e riconquistare il controllo dell’agenda politica, come fecero i repubblicani attraverso i loro formidabili apparati culturali, ossia i think tank, le riviste, gli “esperti” d’assalto che hanno invaso radio e tv.

Le infrastrutture culturali furono inventate di sana pianta negli anni ’70 a sostegno della spettacolare mobilitazione dei militanti della destra cristiana, dei gruppi contro le tasse, dei difensori del diritto al possesso delle armi, dei quali Reagan divenne terminale istituzionale. Ma imporre un paradigma culturale è una cosa complicata, che non si improvvisa: intanto bisogna averne uno, fare in modo che sia vincente prima di tutto nel proprio campo, avere il tempo di affermarlo e farlo emergere nel dibattito generale, organizzare gruppi che lo sostengano con denaro, costanza e dedizione, e infine avere la fortuna di trovarsi di fronte a quei casi della storia che permettono l’eclissarsi dell’universo valoriale del proprio contendente (come accadde durante la crisi economica e sociale degli ’70 che decretò la fine del neo-keynesismo).

Il corrispettivo democratico del “movimento dei movimenti” conservatore è oggi rappresentato dalle centinaia di migliaia di mooncat attivi in rete. Il web gioca un ruolo importantissimo, in una misura forse non immediatamente comprensibile al pubblico italiano. E nella rete il punto di snodo dell’organizzazione democratica sono i blog: piazze virtuali di un paese nelle cui città la piazza non è mai stata prevista da alcun piano regolatore. Nelle primarie democratiche del 2004, Howard Dean è stato il primo a puntare su questo “sommerso” della partecipazione, promuovendo una campagna dai toni populisti direttamente rivolta all’uomo qualunque (anzi, al “liberal” qualunque) che ormai trovava solo nella rete un mezzo di espressione contro le élites di partito. Tra Dean e “il popolo dei blog”, che i media definiscono i “netroots”, è nata così una naturale alleanza.
Il Democratic National Committee (DNC) che Dean oggi presiede attua una strategia definita “50-states”, in quanto basata sul sostegno economico e politico a tutti i candidati e le strutture del partito democratico presenti nei 50 stati, compresi quelli irrimediabilmente repubblicani. L’idea di Dean è semplice: riorganizzare il partito dalle fondamenta e con obiettivi di radicamento di lungo periodo, allo scopo di rafforzare la struttura organizzativa dei democratici in ogni stato e armonizzarne il messaggio, anche là dove sono considerati perdenti. Data la profondità della crisi dell’amministrazione Bush, questa strategia ha prodotto risultati immediati in diversi stati già a partire dalle elezioni di mid-term del 2006.

I blogger liberal si sentono “la base” del partito democratico: la loro mobilitazione nelle elezioni del 2006 è stata considerata decisiva in alcuni collegi. E da uno di loro è partito l’assalto all’establishment democratico di Washington: si tratta di Markos Moulitsas, che è riuscito a costruire in cinque anni il blog liberal più frequentato del paese, ovvero Dailykos.com (Kos è il diminutivo di Markos), forte di 600 mila contatti giornalieri e 500 mila dollari raccolti per i democratici nelle elezioni del 2004. Moulitsas (36 anni, un’infanzia nel Salvador materno, ex repubblicano, ex militare, alle spalle qualche insuccesso nella new economy: oggi può intervenire su Washington Post e New York Times) è una sorta di portavoce del movimento dei bloggers e ha organizzato nel 2006 il loro primo incontro annuale, la YearlyKos Convention. Quest’anno, al secondo appuntamento (il prossimo si chiamerà “Netroots Nation”) sono arrivati tutti i candidati delle primarie democratiche, inclusa Hillary Clinton che nelle primarie virtuali della convention ha preso un misero 9%.

LA RIVINCITA DEI NERDS

Qual’è la novità culturale di questo movimento? Qual’è il suo limite?
Si tratta senz’altro di un movimento “dal basso”, con molto seguito, che ha trovato i giusti canali politici per emergere e che appare più radicale della media riguardo a molte questioni del “democratic mainstream”, suo principale spunto polemico insieme all’amministrazione Bush. Esso denuncia, infatti, il potere della “consultantocracy” (“la consulentocrazia”, l’espressione è di Joe Klein), ovvero l’esercito di specialisti e consulenti politici che, a detta dei bloggers, contano ormai più degli elettori. E proprio per questo suo odio verso i professionisti che vivono “attorno” alla politica, il movimento non ha scelto la strada del think tank, laboratorio di idee istituzionalizzato, rifiutando di disciplinare il messaggio o di promuovere in modo univoco e chiaro proposte per l’azione di governo. A suo modo Moulitsas è però anche un impolitico, per di più assai moderato e contraddittorio su alcune questioni, che rappresenta a meraviglia un’ampia fetta della generazione nata tra i ’70 e gli ’80: scarsa alfabetizzazione politica e tanta frustrazione per una vita da classe media ai margini, lontana dagli odiati circoli “che contano” di Washington. Questo genuino populismo è una delle ragioni del successo di Moulitsas, che ha dato voce alla rivolta di uomini e donne con buona preparazione lavorativa e scolastica, mezzi economici incerti, futuro ancora più incerto, i quali, per la prima volta dopo anni, guardano al partito democratico e chiedono più stato, più intervento pubblico, meno privilegi per i ricchi. E Moulitsas ammette ironicamente di essere un emarginato un pò nevrotico, un“nerd” (termine che appartiene all’immaginario di questa generazione), che ce la sta facendo, senza rinnegare se stesso e grazie ai suoi fratelli.

Quello che DailyKos e un’altra miriade di siti e blog domandano a gran voce è di venire rappresentati da politici che affermino orgogliosamente di essere democratici, che stiano in mezzo alla “gente comune” e che lo facciano mobilitando la base del partito e non i tecnici del consenso. Quest’ultimo dev‘essere trovato sui grandi temi e sulla costruzione dei punti principali dell’agenda politica (“subito fuori dall’Iraq”, “sanità gratuita”, “più tasse ai ricchi per ricostruire le infrastrutture del paese”), e non su come si costruisce una “exit strategy”, questa sì lasciata ai politici e ai loro think tank.

Il punto debole è proprio qui. In questa sorta di “outing” democratico, di orgogliosa riscoperta di un’identità politica, le idee a volte stentano ad emergere. Lo strumento - internet e la sua “orizzontalità”, la libertà di espressione e accesso che esso consente – si trasforma nel contenuto, per il semplice fatto di essere “open”, democratico. E di questo caos si fa vanto: la democrazia è confusione. A vincere è però il candidato più disciplinato e organizzato, il nemico Hillary Clinton, che continua a salire nei sondaggi per le primarie democratiche grazie alla costruzione di un’immagine “presidenziabile”. La macchina elettorale della Clinton, com’è ormai abitudine del sistema politico americano, è un’organizzazione a sé, che nulla ha a che vedere con il partito democratico: del DNC di Dean, Hillary Clinton non avrà bisogno di utilizzare neanche un dollaro, una lista di potenziali elettori, un volontario, una conferenza stampa, un focus group, un memo, un sondaggio. Per ognuna di queste cose la Clinton ha un suo specifico staff. Il sogno di Dean (un rampollo dell’alta borghesia di New York, come Bush imparentato alla lontana con la corona inglese) è, forse, diventare un giorno il candidato del “partito”, con un milione di Moulitsas come base militante.

I NUOVI INTELLETTUALI ORGANICI

Oggi abbiamo quindi due visioni opposte del partito democratico: da una parte l’idea di tenere saldamente il centro, perché i liberal sono minoranza e bisogna accettare il fatto che l’America è un paese fondamentalmente conservatore; dall’altra l’idea che la mobilitazione politico/culturale e l’affermazione di un’identità forte siano volano del rafforzamento elettorale, e che le tendenze socio/demografiche degli Stati Uniti dovrebbero favorire sul medio periodo il partito democratico, come quelle dell’ultimo trentennio hanno favorito i repubblicani.

Per anni i democratici hanno osservato, con invidia e rancore, la perfetta macchina da guerra repubblicana, che ha dimostrato di dare il meglio di sé quando era all’opposizione, lontana dall’esecutivo (tenuto comunque in pugno per 28 degli ultimi 40 anni), ma in grado di riconquistare entrambe le camere del Congresso nel 1994, per la prima volta dopo un quarantennio. Ancora: già nel dopo Watergate i repubblicani erano stati in grado di costruire una strategia di rafforzamento globale del partito fin dalla sua base, stringendo alleanze con gruppi emergenti in tutto il paese, quali appunto la destra cristiana e il movimento contro le tasse. E a questo modello dice di essersi ispirato Howard Dean: un processo di “nazionalizzazione” e in certo senso di europeizzazione dei partiti americani, che smentisce il vecchio detto di Tip O’Neill “All politics is local”.

Al partito repubblicano erano stati forniti dei muscoli, il movimento conservatore, e al tempo stesso un cervello, i think tank. Se negli anni ’70 la sola idea dell’esistenza di “intellettuali conservatori” era considerata come una sorta di ossimoro, negli anni ’80 e ’90 essa diviene realtà. E’ proprio negli anni ’70, tuttavia, che un piccolo e coeso gruppo di finanziatori, in accordo con una esigua schiera di ricercatori sociali, professionisti e membri del partito repubblicano, fonda la terza generazione dei think tank americani. In quell’epoca i conservatori inventano la versione americana dell’intellettuale organico, un esperto che sa fare ma è anche ideologicamente schierato (e questa è la novità della nuova generazione di think tank). Uno strumento di rilegittimazione culturale delle politiche del laissez faire, dove il nemico è sempre lo stesso: lo stato, la regolamentazione pubblica. Una complessa macchina di marketing dell’ideologia conservatrice che, dai volumi accademici agli slogan elettorali, acquista finalmente una sua dignità nazionale. E questo sistema appariva ancora invincibile appena due anni e mezzo fa.

LA LUNGA CAVALCATA DEI CERVELLI DI HILLARY E BILL

Il primo tentativo di rovesciamento dell’egemonia conservatrice nasce negli anni ’80 e ha una matrice moderata: si tratta del suddetto Democratic Leadership Council, creato da Al From e Will Marshall - entrambi con anni di lavoro alle spalle in diverse strutture del partito democratico - a partire da un gruppo di eletti democratici centristi, i cosiddetti New Democrats. Il loro immediato obiettivo è quello di presentare alle presidenziali del 1988 una candidatura che rompa col recente passato (lo spunto nasce dalla pesantissima sconfitta elettorale di Walter Mondale, che nel 1984 sfida Reagan con una piattaforma considerata molto tradizionale e “old democrat”). La vittoria di Bush a danno di Dukakis nel 1988 conferma la bontà delle loro tesi, e, guardando al modello vincente dei repubblicani, il DLC fonda un suo think tank, il Progressive Policy Institute (PPI). I News Democrats cercano il loro principe e finalmente lo trovano in un outsider del sud, Bill Clinton, mentre il deus ex machina del DLC diviene un altro uomo del sud, questa volta di sangue politicamente nobile: Al Gore. Il DLC e soprattutto il PPI sono un laboratorio di idee per la Terza Via: ancora oggi il manifesto del think tank dei New Democrats si intitola Third Way, definita “La filosofia politica dell’età dell’informazione”, quasi a voler congelare l’effimero status quo degli anni ’90.

La Clinton ha quindi il suo laboratorio di idee, anzi ne ha più di uno: c’è anche il Center for American Progress (CAP), che il giornalista di The Nation Robert Dreyfuss ha definito “la Casa Bianca di Clinton in esilio – o lo staff in pectore della Casa Bianca del presidente Hillary Clinton”. Il CAP nasce nel 2003, dopo la pesante sconfitta dei democratici alle elezioni di mid-term del 2002: come ha pubblicamente ammesso il presidente John Podesta, ex capo dello staff del presidente Bill Clinton, il modello di riferimento è la Heritage Foundation, il più importante think tank conservatore, di cui Podesta ammira la capacità di produrre idee e, soprattutto, saperle vendere. Per sostenere questo “marketing della idee” è nata nel 2005 la Democracy Alliance, un gruppo di ricchi finanziatori - tra i quali George Soros e Mark Buell, uno dei principali sostenitori di Hillary Clinton che ha deciso di sostenere i think tank, le organizzazioni e i gruppi liberal. Con tre scopi: razionalizzare gli investimenti dopo la fallimentare esperienza del 2004, quando in molti elargirono notevoli contributi a Kerry, convinti di vincere; condizionare questi gruppi al fine di avere un messaggio più omogeneo ed efficace che emerga sul lungo periodo; ripetere il successo della Philanthropy Roundtable, un’organizzazione conservatrice che da trent’anni finanzia la sua galassia culturale di riferimento con gli scopi appena citati. Il motore della creazione di Democracy Alliance è stato Rob Stein, un altro ex dell’amministrazione Clinton, mentre la nuova direttrice è Kelly Craighead, già nello staff di Hillary Clinton quando svolgeva il ruolo di first lady.

CONGELARE GLI ANNI ‘90

La Clinton sta costruendo attorno a sé un sistema di relazioni molto coeso, e da tempo. Come per Bush nel 2000, la fedeltà al candidato è stata richiesta molto prima che cominciassero le primarie. In un sistema politico centrato sul candidato come quello americano, le “macchine politiche” devono edificare un complesso sistema di cooptazione che non lascia spazio alle improvvisazioni. Il nuovo presidente dev’ essere certo, prima di entrare in carica, della fedeltà di alcune centinaia di persone che occuperanno i posti di maggior rilievo nell’amministrazione, il suo “core executive”: tra queste le “ideas people” dei think tank. L’imprenditore politico si appoggia a un consulente che, per quanto la cosa possa apparire paradossale, è insieme imprenditore di se stesso e “militante”, un esperto di politiche pubbliche che mette sul mercato le sue capacità e si affilia al suo mecenate. Si scommette a vicenda l’uno sull’altro. Il sostegno evidente di almeno un paio di grandi think tank di Washington serve a confermare il possesso di conoscenze e capacità di governo da parte di Hillary Clinton, in un intreccio complesso tra business (vedi la Democracy Alliance), consiglieri del principe ed élites politiche. Il risultato? La semplice e insopportabilmente noiosa riproposizione, nel momento di maggior crisi della storia del movimento conservatore, di un usato sicuro, il brand Clinton, una macchina di potere già oliata. Gradito all’establishment economico/finanziario - che ha bisogno a intervalli regolari di un democratico capace di mettere i conti in ordine dopo i disastri compiuti dai repubblicani - e accettabile per il popolo, sia pure senza eccessivo entusiasmo ( ma l’importante è far fuori Bush).
Tutto ciò vi ricorda qualcosa?

(Mattia Diletti - settembre 2007)

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