21 marzo 2008

Ha fallito Reagan, non Bush

La storia celebra Augusto, non certo Tiberio – soffocato dai suoi stessi pretoriani nella villa di Capri - né il suo successore, il famigerato Caligola; lo stesso accade oggi: si rimpiange Reagan, il capo popolo della rivoluzione mercatista degli anni ’80 e si biasimano i suoi successori, il primo e il secondo Bush. Ma oggi come allora le colpe dei padri ricadono necessariamente sui figli, quelli veri e quelli adottivi. Non parleremmo delle funeste stravaganze di Caligola se Augusto non avesse svuotato di ogni senso le istituzioni repubblicane; non si discuterebbe del cieco ideologismo di George W. Bush se non vi fosse stata la rivoluzione liberista di Ronald Reagan.
Con Bush figlio non solo non si è saputo regolare il sistema del credito, ma si è di fatto incentivata la creazione della bolla speculativa del settore immobiliare. E’ stata pilotata la posticipazione di una crisi già in nuce alla fine degli anni ’90. Lo si è fatto con gli strumenti culturali ed economici ereditati dagli anni ’80, come è ovvio che fosse.
Le crisi portano panico, e il panico genera pulsioni irrazionali; le stesse che colgono gli analisti italiani e mondiali. Ieri il solitamente sobrio Massimo Gaggi ha reagito malamente sulle pagine del “Corriere della Sera” alla crisi di questi giorni, che lui stesso aveva descritto in modo appropriato in altre occasioni. Scrive Gaggi: “Attenzione a non confondere la crisi americana, che ha le sue radici in un'applicazione caricaturale del liberismo da parte di un gruppo dirigente pasticcione e troppo ideologizzato, con un fallimento del modello economico liberale: quelli della presidenza Bush sono stati anni di deterioramento delle capacità amministrative del governo federale e di un'attuazione dogmatica della deregulation che ha fatto saltare norme e controlli necessari per un sano sviluppo dell'economia di mercato”.
L’obiettivo – più che altro di carattere culturale – è quello di salvare il bambino e buttare l’acqua sporca. Il bambino ha le sembianze delle politiche “originali” di Ronald Reagan e l’acqua sporca quelle dell’estremismo di Bush, che avrebbe brandito i testi di Milton Friedman come in Cina si sventolava il libretto rosso. E’ una risposta molto americana: il problema non è nelle coordinate culturali ma nella crisi della leadership. Attraverso nuove personalità - più pragmatiche, flessibili e capaci - si potrebbero rivitalizzare i fondamenti della dottrina allontanando lo spauracchio del dirigismo economico e del protezionismo, apparsi in questa campagna elettorale (in Italia e negli Usa).
Non si può però ridurre Bush a un epifenomeno ideologico e caricaturale del reaganismo. Reagan fu senz’altro assai più pragmatico – come sostiene Gaggi - di George W. Bush, molto più capace di blandire la base e al tempo stesso di stringere accordi con i poteri che contano, quelli che badano ai fatti e meno alla purezza ideologica; producendo – a volte - politiche più accorte.
Reagan aveva però commesso il peccato originale, lo stesso di Augusto che si fa divino. Aveva piantato il seme dell’ideologismo conservatore, che non poteva non crescere nel sistema politico americano. Un dato di fatto facilmente verificabile: nel giro di un trentennio la classe dirigente del partito repubblicano è radicalmente cambiata, passando dalla generazione dei repubblicani “liberal” alla Rockefeller agli estremisti alla Gingrich, perché ha legato le proprie fortune elettorali ai pasdaran del “governo minimo”, i gruppi di pressione anti-tasse (come l’Americans for Tax Reforms) o quelli per la difesa del diritto di proprietà. A questi, in primo luogo, i politici repubblicani devono rispondere per trovare legittimità e consenso.
Quella di Bush è l’élite politica che è nata e cresciuta nel solco rivoluzionario tracciato da Reagan, e grazie a quelle basi culturali ha alimentato la propria forza elettorale, esasperandone ancor di più il carattere quando il nemico da combattere era Bill Clinton: la polarizzazione ideologica del sistema politico è stata garanzia di riproduzione di una “classe dirigente”, come diciamo in Europa. Un’élite nata già sotto il segno di un liberismo onnipotente: quella precedente, che semplicemente non esiste più, sapeva dotarsi del pragmatismo di chi aveva convissuto con quattro decenni di politiche neo-keynesiane, con lo strapotere della coalizione democratica costruita da Roosevelt e i missili di Mosca. Quella di oggi non è in grado di fare questo, è perdente e si affida a un politico - McCain – che di economia nemmeno ci capisce molto. Un salvatore della patria non appare all’orizzonte.
Gaggi presenta, per esempio, il fenomeno dell’esternalizzazione dei servizi legati alla logistica militare - fino ai contractor che svolgono mansioni belliche, come è avvenuto in Iraq - come un tipico esempio di distorsione dei principi liberali; ma questo potrebbe essere inteso come la naturale prosecuzione delle politiche di deregolamentazione e dismissione di attività pubbliche avviate da Reagan negli anni ’80. Che in realtà non era affatto deregolamentazione, ma trasferimento di mansioni pubbliche a un attore privato, il cosiddetto “governo-per-contratto”.
Un Big Government sotto mentite spoglie, nel quale si offusca il confine tra privato e pubblico: un tratto comune a Bush e a Reagan. Fino a quando il pubblico non deve rifarsi carico dell’intera macchina perché il privato fallisce. Questa crisi potrebbe segnare un cambio di rotta: c’è un candidato democratico (americano) capace di utilizzare la salutare richiesta di più stato e più intervento pubblico che viene dall’elettorato? Si potrebbero finalmente attuare politiche di redistribuzione; addirittura le si potrebbe rilegittimare, se esistessero i politici e i think tank capaci di cogliere l’attimo. Se questo avverrà potrebbe aprirsi ovunque una fase nuova, e il tema non sarebbe il protezionismo alla Tremonti.
Ora, per il bene di tutti, bisognerebbe farsi carico del fallimento di un’epoca, con il pragmatismo che giustamente Gaggi rimpiange. Evitando le reazioni di “pancia”, epidermiche, a difesa dell’onore tradito del mercato.

(Mattia Diletti, 19 marzo)

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