Martino Mazzonis
E’ difficile avere un quadro della situazione afghana. A volte scopriamo che c’è un nuovo leader talebano, che la violenza aumenta, che la produzione di oppio è aumentata o che il Pakistan sembra aver deciso di dare un colpo ai legami tra Jihad e servizi segreti militari. Per farsi un’idea del quadro si può solo raccogliere le informazioni e i dati disponibili e metterli in fila.
Sappiamo ad esempio che le azioni di chi combatte contro le forze armate dell’Alleanza atlantica non sono mai state così tante come in questo periodo. Un rapporto Nato dei primi di giugno ci informa che gli attacchi sono aumentati del 59% tra gennaio e maggio. Sappiamo anche che i militari stranieri in territorio afghano, a fine giugno 2009, erano 61.130 provenienti da 42 Paesi (quasi 30mila statunitensi e 8500 britannici)
Brookings institution, che raccoglie tutti i dati disponibili sul conflitto afghano in un Afghanistan index nota che al 15 luglio scorso i militari stranieri uccisi da talebani o in incidenti sono 207 contro 294 del 2008 - se le cose continueranno come sono andate fino a luglio, quest’anno registrerà un nuovo record di morti. Del resto, sosteneva nel novembre 2008 l’International council on security and developement relations i talebani erano molto attivi e presenti sul 72% del territorio e poco presenti solo nel 7%.
Va un poco meglio per i civili. Le Nazioni Unite hanno calcolato che nel 2008 i morti civili sono stati circa 2100; nel 2009 sono stati 893, ovvero le cose starebbero andando leggermente meglio - ma cosa è successo nelle zone di confine oltre la frontiera pakstana? Qui l’offensiva a colpi di droni deve aver fatto crescere il numero dei morti civili sono aumentati. Per non essere stupidamente retorici, bisogna comunque ricordare che la maggior parte dei civili uccisi li hanno ammazzati i talebani (nel 2008, il 47% contro il 28% di bombardamenti e altro). Certo, un afghano ucciso da un aereo statunitense è un formidabile strumento di propaganda per i talebani.
Tra le cose di cui si parla molto poco, relativamente alla situazione afghana, c’è la vicenda dei rifugiati. L’Unhcr, l’agenzia Onu per che si occupa delle persone che hanno lasciato il loro Paese, ci dice che nel mrzo 2008 erano circa 3 milioni tra Pakistan e Iran. Dalla cacciata dei talebani da Kabul in poi, circa quattro milioni e mezzo di persone hanno fatto ritorno in patria. Molti tra coloro che erano scappati dai talebani, sono rientrati nel 2002, molti altri sono fuggiti dalla guerra (o dagli americani, sulle montagne). Il numero di coloro che tornano è decrescente: molti nel 2002, pochissimi nel 2008.
E’ di lunedì la notizia che i militari statunitensi smetteranno di sradicare le piante di papavero nei campi di contadini e concentreanno la loro attività anti-droga sui trafficanti. Il papavero è tra le fonti principali di finanziamento della guerra talebana e, dall’invasione in poi, la sua produzione è costantemente cresciuta - un lieve calo lo scorso anno. Segno che la scelta di tagliare i papaveri non è servita a nulla. Se nel 2001 la produzione di oppio dell’Afghanistan era pari all’11% del totale mondiale, nel 2008 siamo al 93%. Le organizzazioni che lavorano sul campo in Afghanistan e i think-tanks che si occupano di quel conflitto in maniera costante convergono nel salutare la scelta annunciata dall’inviato speciale del presidente Obama, Richard Holbrooke. Lo stesso diplomatico, parlando al quartier generale di Bruxelles, ha detto che i talebani guadagnano una cifra tra i 60 e i 100 milioni di dollari l’anno dall’oppio. Holbrooke ha però sottolineato che dagli Stati del Golfo arrivano più dollari che non dalla vendita dei papaveri. Altri ne arrivano da altri Paesi. Osama bin Laden, insomma, non è il solo miliardario arabo a sognare un califfato islamico. «I pashtun finanziano le operazioni locali con l’oppio, ma lo sforzo globale è il frutto dei soldi provenienti dall’estero», ha sostenuto Holbrooke.
Qualche dato confortante c’è. Aumentano le iscrizioni nelle scuole, quasi triplicate dal 2002 al 2008. Quasi 250 edifici scolastici e 290 tra studenti e maestri sono stati però uccisi negli ultimi tre anni.
L’accesso all’acqua potabilenon è migliorato. Quando gli americani si preoccupano della qualità delle istituzioni afghane e del loro aiuto civile, parlano di questo. Non sarà un caso che i sondaggi periodici sulla popolazione indicano un costante calo della popolarità del presidente Karzai e della presenza Usa nel Paese. Mai come ora, americani, britannici (e afghani schiacciati tra i belligeranti) avrebbero bisogno di buone idee.
29 luglio 2009
Il generale Mini su politica, Afghanistan e regole d'ingaggio
di Anubi D’Avossa Lussurgiu
Generale Fabio Mini, lei esprime di solito, da esperto militare, pareri eclettici rispetto all’ufficialità; lo ha fatto anche sulla vicenda afghana, che ha sempre indicato come un teatro di guerra. Lo dice anche la più autorevole opinione pubblica occidentale, ormai. In Italia, invece, ci si ostina a negarlo. Ma non le pare che le stesse operazioni sul campo del contingente italiano, specie nel quadrante Ovest tra Herat e Farah, siano conformi ad un’attività bellica?
Guardi, io penso che di fatto il contingente, già da tempo, abbia capito che doveva cambiare atteggiamento e passare da una missione prettamente d’assistenza alle forze afghane, sostanzialmente passiva, ad una posizione attiva. Sostengo da sempre che quanto alla presenza in Afghanistan la situazione richiede una presa di coscienza. Ho sentito dire da qulcuno che questa non è guerra perché non è come la Seconda Guerra Mondiale. Ma allora non possono esistere guerre, perché è chiaro che oggi nessuna guerra può essere come quel tipo di guerra. Insomma, io non ho remore a dire che i nostri soldati stanno combattendo una guerra. Cosa c’è di diverso, nel caso della presenza italiana? Che mentre i principali alleati hanno avuto coscienza da subito di quel che facevano e si sono attrezzati, o hanno cercato di farlo, noi no.
Tantè, in Italia mentre si ribadisce la natura di “missione di pace” il ministro della Difesa e gli stati maggiori militari “adeguano” i mezzi e insistono per farlo anche sulle regole d’ingaggio...
Il dibattito fondamentale non è quello sui mezzi militari, su quali tenere al fronte, quali ritirare, con quali altri sostituirli. Il dibattito fondamentale, in tutta l’alleanza che detiene presenza militare in Afghanistan e a partire dai comandi statunitensi, è stato ed è se le tattiche di guerra contrinsurrezionale praticate in Iraq sono applicabili o meno in Afhanistan. Il precedente comandante McKiernan diceva che sì, lo erano, fino in fondo: e dunque non si peritava di prevedere il massimo numero di vittime, fra le quali come s’è visto se ne sono contate molte nella popolazione civile. Il generale McChrystal, l’attuale comandante, ha invece completamente cambiato approccio. E’ significativa una sua frase al momento dell’insediamento: «Il metro del mio successo - ha detto - non sarà quanti talebani avrò ucciso ma quanti afghani avrò protetto». Queste parole hanno dei risvolti pratici: lo stesso generale Usa ha invocato un cambiamento di regole d’ingaggio. E il cambiamento che ha invocato è in senso più restrittivo.
Esattamente al contrario di come se n’è discusso in Italia. Anche volendo lasciare da parte von Clausewitz, non è questa diversità di approccio alle direttive militari riflette un anacronismo della posizione politica italiana rispetto al travaglio vissuto dagli Usa e che attraversa la nuova amministrazione Obama?
E’ evidente. Non è che un comandante militare cambia approccio per sua iniziativa. E’ un nuovo comandante, nominato da una nuova amministrazione, con nuove direttive. Ed è apparso da subito chiaro che il presidente Obama, pur confermando e anzi rendendo centrale l’ingaggio in Afghanistan, avrebbe ricercato un cammino diverso. Mi pare che, scontato il passaggio delle elezioni di agosto, ci si stia arrivando, finalmente. Però occorre anche fare attenzione a che non sia troppo tardi.
Ecco: negli stessi Stati Uniti e in Gran Bretagna si discute non solo sul fatto che quella è una brutta guerra ma che non la si può vincere, come tale. Non vale tanto più per l’Italia, viste le condizioni della presenza laggiù?
Io penso da sempre che, essendo quella in Afghanistan una guerra ed essendo per l’appunto in Afghanistan, in quel luogo delicatissimo, non si sarebbe mai potuto pensare di trovare una soluzione per la sola via militare. D’altra parte, però, proprio per questo non concordo con chi dice che prima di tutto bisogna venir via. Anche questo, ossia l’andarsene, deve avere un fine. Il punto è: cosa avremo risolto? Oppure è meglio stare lì e fare in modo di far prevalere il nostro sistema di comprensione delle operazioni, in modo che la strategia complessiva cambi? Anche facendo presente magari che ci sono cose che non possono essere fatte. Ciò che mi perplime maggiormente resta la confusione: quando ad esempio parliamo di regole d’ingaggio noi parliamo delle regole seguite dal soldato combattente ma non, come invece fanno gli altri, del modo di condurre le operazioni. Insomma, quel che scontiamo è uno scollamento della politica dalla strategia e per conseguenza della strategia da quanto accade realmente sul terreno.
Ma, volendo stare a quanto accade sul teatro delle operazioni, non appare chiaro che molta dell’intensità degli scontri si stia spostando proprio sul quadrante Ovest e specialmente a Farah dov’è concentrato il contingente, nelle condizioni descritte?
Molto si concentra su Farah perché là ci sono operazioni in atto, da tempo. Cioè là stiamo conducendo determinate operazioni. Non so davvero se con un fine e quale, però. Il fatto fondamentale è questo: è che Farah non è come si era voluto far pensare un’oasi di serenità, ma come anche a Herat si sparava tutti i giorni anche prima. C’è una totale interdipendenza della situazione sul terreno con quella ad Helmand e nel resto del teatro di guerra.
Restando sempre al quadrante Ovest: il confine con l’Iran non dovrebbe rappresentare un fattore di stimolo all’Italia per un ruolo diverso, maggiormente politico, sulla vicenda afghana?
Intanto, ho perso veramente qualsiasi sensazione di grandi giochi geopolitici, quanto all’Afghanistan. Secondo me il livello ormai è quello della sopravvivenza: del Paese, del governo, del senso stesso della presenza occidentale. Il resto dei fattori potrà ricominciare a palesarsi quando si dovesse minimamente stabilizzare la situazione interna. Un fatto è certo, quanto agli italiani nell’Ovest afghano: siamo in un punto delicato e siamo anche in un osservatorio privilegiato. E’ che non l’abbiamo mai detto, quel che vediamo da lì. E quel che si vede non è un’interferenza ostile iraniana, ma esattamente il contrario, la preoccupazione di Teheran per quel che accade. Il nostro ruolo, che finora s’è mostrato anche molto equilibrato nel non andare a cavalcare oltre misura la tigre del “Satana” iraniano, avrebbe potuto funzionare anche di più se qualcuno questa visione sul campo l’avesse fatta pesare nei briefing Nato o nelle sedi politiche. Ecco sempre qui torniamo: allo scollamento della politica.
Generale Fabio Mini, lei esprime di solito, da esperto militare, pareri eclettici rispetto all’ufficialità; lo ha fatto anche sulla vicenda afghana, che ha sempre indicato come un teatro di guerra. Lo dice anche la più autorevole opinione pubblica occidentale, ormai. In Italia, invece, ci si ostina a negarlo. Ma non le pare che le stesse operazioni sul campo del contingente italiano, specie nel quadrante Ovest tra Herat e Farah, siano conformi ad un’attività bellica?
Guardi, io penso che di fatto il contingente, già da tempo, abbia capito che doveva cambiare atteggiamento e passare da una missione prettamente d’assistenza alle forze afghane, sostanzialmente passiva, ad una posizione attiva. Sostengo da sempre che quanto alla presenza in Afghanistan la situazione richiede una presa di coscienza. Ho sentito dire da qulcuno che questa non è guerra perché non è come la Seconda Guerra Mondiale. Ma allora non possono esistere guerre, perché è chiaro che oggi nessuna guerra può essere come quel tipo di guerra. Insomma, io non ho remore a dire che i nostri soldati stanno combattendo una guerra. Cosa c’è di diverso, nel caso della presenza italiana? Che mentre i principali alleati hanno avuto coscienza da subito di quel che facevano e si sono attrezzati, o hanno cercato di farlo, noi no.
Tantè, in Italia mentre si ribadisce la natura di “missione di pace” il ministro della Difesa e gli stati maggiori militari “adeguano” i mezzi e insistono per farlo anche sulle regole d’ingaggio...
Il dibattito fondamentale non è quello sui mezzi militari, su quali tenere al fronte, quali ritirare, con quali altri sostituirli. Il dibattito fondamentale, in tutta l’alleanza che detiene presenza militare in Afghanistan e a partire dai comandi statunitensi, è stato ed è se le tattiche di guerra contrinsurrezionale praticate in Iraq sono applicabili o meno in Afhanistan. Il precedente comandante McKiernan diceva che sì, lo erano, fino in fondo: e dunque non si peritava di prevedere il massimo numero di vittime, fra le quali come s’è visto se ne sono contate molte nella popolazione civile. Il generale McChrystal, l’attuale comandante, ha invece completamente cambiato approccio. E’ significativa una sua frase al momento dell’insediamento: «Il metro del mio successo - ha detto - non sarà quanti talebani avrò ucciso ma quanti afghani avrò protetto». Queste parole hanno dei risvolti pratici: lo stesso generale Usa ha invocato un cambiamento di regole d’ingaggio. E il cambiamento che ha invocato è in senso più restrittivo.
Esattamente al contrario di come se n’è discusso in Italia. Anche volendo lasciare da parte von Clausewitz, non è questa diversità di approccio alle direttive militari riflette un anacronismo della posizione politica italiana rispetto al travaglio vissuto dagli Usa e che attraversa la nuova amministrazione Obama?
E’ evidente. Non è che un comandante militare cambia approccio per sua iniziativa. E’ un nuovo comandante, nominato da una nuova amministrazione, con nuove direttive. Ed è apparso da subito chiaro che il presidente Obama, pur confermando e anzi rendendo centrale l’ingaggio in Afghanistan, avrebbe ricercato un cammino diverso. Mi pare che, scontato il passaggio delle elezioni di agosto, ci si stia arrivando, finalmente. Però occorre anche fare attenzione a che non sia troppo tardi.
Ecco: negli stessi Stati Uniti e in Gran Bretagna si discute non solo sul fatto che quella è una brutta guerra ma che non la si può vincere, come tale. Non vale tanto più per l’Italia, viste le condizioni della presenza laggiù?
Io penso da sempre che, essendo quella in Afghanistan una guerra ed essendo per l’appunto in Afghanistan, in quel luogo delicatissimo, non si sarebbe mai potuto pensare di trovare una soluzione per la sola via militare. D’altra parte, però, proprio per questo non concordo con chi dice che prima di tutto bisogna venir via. Anche questo, ossia l’andarsene, deve avere un fine. Il punto è: cosa avremo risolto? Oppure è meglio stare lì e fare in modo di far prevalere il nostro sistema di comprensione delle operazioni, in modo che la strategia complessiva cambi? Anche facendo presente magari che ci sono cose che non possono essere fatte. Ciò che mi perplime maggiormente resta la confusione: quando ad esempio parliamo di regole d’ingaggio noi parliamo delle regole seguite dal soldato combattente ma non, come invece fanno gli altri, del modo di condurre le operazioni. Insomma, quel che scontiamo è uno scollamento della politica dalla strategia e per conseguenza della strategia da quanto accade realmente sul terreno.
Ma, volendo stare a quanto accade sul teatro delle operazioni, non appare chiaro che molta dell’intensità degli scontri si stia spostando proprio sul quadrante Ovest e specialmente a Farah dov’è concentrato il contingente, nelle condizioni descritte?
Molto si concentra su Farah perché là ci sono operazioni in atto, da tempo. Cioè là stiamo conducendo determinate operazioni. Non so davvero se con un fine e quale, però. Il fatto fondamentale è questo: è che Farah non è come si era voluto far pensare un’oasi di serenità, ma come anche a Herat si sparava tutti i giorni anche prima. C’è una totale interdipendenza della situazione sul terreno con quella ad Helmand e nel resto del teatro di guerra.
Restando sempre al quadrante Ovest: il confine con l’Iran non dovrebbe rappresentare un fattore di stimolo all’Italia per un ruolo diverso, maggiormente politico, sulla vicenda afghana?
Intanto, ho perso veramente qualsiasi sensazione di grandi giochi geopolitici, quanto all’Afghanistan. Secondo me il livello ormai è quello della sopravvivenza: del Paese, del governo, del senso stesso della presenza occidentale. Il resto dei fattori potrà ricominciare a palesarsi quando si dovesse minimamente stabilizzare la situazione interna. Un fatto è certo, quanto agli italiani nell’Ovest afghano: siamo in un punto delicato e siamo anche in un osservatorio privilegiato. E’ che non l’abbiamo mai detto, quel che vediamo da lì. E quel che si vede non è un’interferenza ostile iraniana, ma esattamente il contrario, la preoccupazione di Teheran per quel che accade. Il nostro ruolo, che finora s’è mostrato anche molto equilibrato nel non andare a cavalcare oltre misura la tigre del “Satana” iraniano, avrebbe potuto funzionare anche di più se qualcuno questa visione sul campo l’avesse fatta pesare nei briefing Nato o nelle sedi politiche. Ecco sempre qui torniamo: allo scollamento della politica.
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17 luglio 2009
A che punto è la crisi Usa?
A marzo si parlava di germogli di ripresa. Adesso i segnali sarebbero nettamente positivi. La ripresa cinese è più forte del previsto, gli indicatori indiani sono positivi e le banche americane tornano a fare profitti - suscitando un giusto vespaio di polemiche per i bonus che si apprestano a distribuire. Ieri, per la seconda volta consecutiva, il dato sul numero di richieste di sussidi di disoccupazione negli States è più basso del previsto.
Cosa sta succedendo? Come d’incanto la crisi è passata e tutto torna a girare per il verso giusto? Non proprio, non esattamente. E’ vero, la Federal reserve ha appena diffuso un comunicato nel quale si dice che «Le informazioni raccolte indicano che la contrazione dell’economia sta rallentando. I mercati finanziari conoscono un miglioramento e la spesa delle famiglie mostra segni di stabilizzazione», ma, come recita lo stesso comunicato, «Le imprese continuano a tagliare sugli investimenti fissi e sulla manodopera». Secondo gli esperti della Fed, l’economia degli Stati Uniti è dunque in lenta ripresa. Peggio sembrerebbe andare all’Europa, anche se tutte le istituzioni sovranazionali che pubblicano rapporti trimestrali sull’andamento dell’economia - Ocse e Fmi - parlano di ripresa leggermente più rapida del previsto.
Gli analisti, anche quelli delle bibbie del mercato come il FInancial Times, non sono troppo convinti. O meglio, cercano di ricordare e sottolineare che la crisi è stata di quelle dure, frutto del combinato di un modo di organizzare i consumi e i mercati finanziari che non possono più tornare ad essere com’erano. O almeno non dovrebbero.
Martin Wolf, uno dei columnista utorevoli del quotidiano arancione di Londra, tra coloro che hanno segnalato con più insistenza la magnitudo della crisi, ricorda vel suo articolo di mercoledì scorso che, «Dopo la tempesta, la salita sarà lunga». Wolf segnala che molte economie ricche prevedono un eccesso di capacità produttiva per il 2010 mentre i consumatori sembrano non aver nessuna intenzione di riprendere a consumare. «Nel 2007 il settore privato Usa ha speso il 2,4% in più di quanto ha guadagnato. Nel 2009 spenderà il 7,9% in meno di quanto guadagnato - ricorda Wolfe, che aggiunge quanto sia buffo che - il passaggio alla prudenza dei consumatori sia stato tanto invocato in passato quanto poco apprezzato oggi». Ancora per il 2010, dunque, sarà il deficit spending a generare domanda. Con possibili guai a venire per il futuro.
A proposito di deficit, nella sua rubrica settimanale per il New York Times, il premio Nobel per l’economia Paul Krugman, calcola con un ragionamento complicato, che il deficit ha «salvato il mondo» da una nuova Grande depressione. E questa è una bella rivincita contro i fondamentalisti del bilancio in pareggio.
Su Bigmoney.com Daniel Gross, un altro analista tra i più acuti, spiega, citando una serie di istituti di ricerca e indicatori economici che si, la «recessione è finita». Gross sottolinea che i dati che cita vengono da istituti indipendenti che nn dipendono dalle banche e che, in passato, gli stessi istituti hanno saputo prevedere con puntualità recessioni e riprese con largo anticipo. Lo stesso Gross sottolinea che i numeri non fanno l’economia e che, chi pensasse che la ripresa economica significa il ritorno ai bei tempi che furono o a rimbalzi clamorosi, si sbaglia di grosso. «Senza soldi facili e un boom del mercato immobiliare è difficile capire cosa produrrà una crescita occupazionale su larga scala - scrive Gross, concludendo - La recessione è finita! Che la ripresa senza occupazione cominci!».
Da punti di vista diversi, sembrano tutti convergere su un punto: la ripresa sarà lenta e non avrà ricadute immediate sulla vita quotidiana delle persone.
Il più scettico di tutti sembra essere Robert Reich, ex Segretario al Lavoro di Clinton ed economista a Berkeley, uno degli esclusi illustri (con Krugman) dal team di economisti che gravita intorno alla Casa Bianca. Reich vede nel ritorno agli utili delle banche come Goldman Sachs - che nell’ultimo trimestre ha fatto profitti record - sia un rischio di un ritorno al passato. «Il fatto che Goldman sia tornata è un bene per la disastrata economia di New York (...) Ma il modello di business ad alto rischio della banca non è cambiato e il suo successo spingerà altre banche a fare lo stesso». Con l’aggravante che i rischi, Goldman li sta prendendo con i soldi dei contribuenti. Reich è pessimista sulla crescita. Se i modelli economici di ripresa sono a V e a U - rapida quanto il tonfo quella a V, lenta quella a U - Reich sostiene che questo non è nessuno dei due casi. «In una recessione così dura, la ripresa non dipende dagli investitori. Dipende dai consumatori che rappresentano il 70% dell’economia statunitense. Stavolta i consumatori sono davvero sfiniti e fino a quando non ricominceranno a spendere, non ci saranno riprese, né a U, né a V». Secondo Reich, per gli Usa serve un nuovo modello di economia di mercato. In fondo, ognuno con accenti e priorità diverse, anche gli altri sostengono la stessa tesi.
Cosa sta succedendo? Come d’incanto la crisi è passata e tutto torna a girare per il verso giusto? Non proprio, non esattamente. E’ vero, la Federal reserve ha appena diffuso un comunicato nel quale si dice che «Le informazioni raccolte indicano che la contrazione dell’economia sta rallentando. I mercati finanziari conoscono un miglioramento e la spesa delle famiglie mostra segni di stabilizzazione», ma, come recita lo stesso comunicato, «Le imprese continuano a tagliare sugli investimenti fissi e sulla manodopera». Secondo gli esperti della Fed, l’economia degli Stati Uniti è dunque in lenta ripresa. Peggio sembrerebbe andare all’Europa, anche se tutte le istituzioni sovranazionali che pubblicano rapporti trimestrali sull’andamento dell’economia - Ocse e Fmi - parlano di ripresa leggermente più rapida del previsto.
Gli analisti, anche quelli delle bibbie del mercato come il FInancial Times, non sono troppo convinti. O meglio, cercano di ricordare e sottolineare che la crisi è stata di quelle dure, frutto del combinato di un modo di organizzare i consumi e i mercati finanziari che non possono più tornare ad essere com’erano. O almeno non dovrebbero.
Martin Wolf, uno dei columnista utorevoli del quotidiano arancione di Londra, tra coloro che hanno segnalato con più insistenza la magnitudo della crisi, ricorda vel suo articolo di mercoledì scorso che, «Dopo la tempesta, la salita sarà lunga». Wolf segnala che molte economie ricche prevedono un eccesso di capacità produttiva per il 2010 mentre i consumatori sembrano non aver nessuna intenzione di riprendere a consumare. «Nel 2007 il settore privato Usa ha speso il 2,4% in più di quanto ha guadagnato. Nel 2009 spenderà il 7,9% in meno di quanto guadagnato - ricorda Wolfe, che aggiunge quanto sia buffo che - il passaggio alla prudenza dei consumatori sia stato tanto invocato in passato quanto poco apprezzato oggi». Ancora per il 2010, dunque, sarà il deficit spending a generare domanda. Con possibili guai a venire per il futuro.
A proposito di deficit, nella sua rubrica settimanale per il New York Times, il premio Nobel per l’economia Paul Krugman, calcola con un ragionamento complicato, che il deficit ha «salvato il mondo» da una nuova Grande depressione. E questa è una bella rivincita contro i fondamentalisti del bilancio in pareggio.
Su Bigmoney.com Daniel Gross, un altro analista tra i più acuti, spiega, citando una serie di istituti di ricerca e indicatori economici che si, la «recessione è finita». Gross sottolinea che i dati che cita vengono da istituti indipendenti che nn dipendono dalle banche e che, in passato, gli stessi istituti hanno saputo prevedere con puntualità recessioni e riprese con largo anticipo. Lo stesso Gross sottolinea che i numeri non fanno l’economia e che, chi pensasse che la ripresa economica significa il ritorno ai bei tempi che furono o a rimbalzi clamorosi, si sbaglia di grosso. «Senza soldi facili e un boom del mercato immobiliare è difficile capire cosa produrrà una crescita occupazionale su larga scala - scrive Gross, concludendo - La recessione è finita! Che la ripresa senza occupazione cominci!».
Da punti di vista diversi, sembrano tutti convergere su un punto: la ripresa sarà lenta e non avrà ricadute immediate sulla vita quotidiana delle persone.
Il più scettico di tutti sembra essere Robert Reich, ex Segretario al Lavoro di Clinton ed economista a Berkeley, uno degli esclusi illustri (con Krugman) dal team di economisti che gravita intorno alla Casa Bianca. Reich vede nel ritorno agli utili delle banche come Goldman Sachs - che nell’ultimo trimestre ha fatto profitti record - sia un rischio di un ritorno al passato. «Il fatto che Goldman sia tornata è un bene per la disastrata economia di New York (...) Ma il modello di business ad alto rischio della banca non è cambiato e il suo successo spingerà altre banche a fare lo stesso». Con l’aggravante che i rischi, Goldman li sta prendendo con i soldi dei contribuenti. Reich è pessimista sulla crescita. Se i modelli economici di ripresa sono a V e a U - rapida quanto il tonfo quella a V, lenta quella a U - Reich sostiene che questo non è nessuno dei due casi. «In una recessione così dura, la ripresa non dipende dagli investitori. Dipende dai consumatori che rappresentano il 70% dell’economia statunitense. Stavolta i consumatori sono davvero sfiniti e fino a quando non ricominceranno a spendere, non ci saranno riprese, né a U, né a V». Secondo Reich, per gli Usa serve un nuovo modello di economia di mercato. In fondo, ognuno con accenti e priorità diverse, anche gli altri sostengono la stessa tesi.
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