11 giugno 2008

Lezioni di organizzazione (Obama e l'Italia)

Obama e l’Italia fin’ora è stato solo un matrimonio d’interesse. Per di più una delle due parti (quella americana) aveva molto poco da guadagnarci. E’ inutile tornare sul tormentone amaro del “Yes, We Can”, il “si può fare” veltroniano. Ma la storia di quello slogan dà un idea della distanza tra Stati uniti e Italia. Di là dall’oceano si recupera uno slogan radicato nella propria cultura e tradizione politica, di qua si ricerca uno refrain pubblicitario senza curarsi del fatto che a mancare è il prodotto.

Obama ha tradotto in inglese e fatto suo lo slogan "Si, se puede", lanciato da Dolores Huerta nel 1972 durante il digiuno di protesta di Cesar Chavez, allora a capo della lotta contadina degli ispanici della California. "Si, se puede" è anche il motto del sindacato fondato da Chavez e Huerta, lo United Farm Workers. Obama ha acquisito lo slogan un paio di anni fa: "Yes, We Can" era il nome di un programma di educazione politica per giovani neri. 20 persone da formare come organizzatori di campagne elettorali, con particolare riguardo a quelle nei ghetti neri. "Yes, We Can" si è trasformato, quindi, in un videoclip che ha musicato un discorso di Obama, infarcito di celebrità, che ha fatto il giro del mondo. E lo slogan, alla fine, è arrivato in Italia.

Qui tutti tirano Obama per la giacchetta. “Il Foglio”, per esempio, oscilla tra la tradizionale ostilità per i liberal all’apprezzamento verso l’approccio messianico del candidato democratico: per Ferrara va bene qualsiasi cosa ricordi un afflato di spiritualità religiosa. Al Partito democratico italiano bastava l’elemento della novità (“change”), allo scopo di galvanizzare le proprie truppe confuse da tanti cambi di identità e a rischio di affogamento nel partito liquido. L’ironia è che l’unico a fare propria la lezione di Obama con successo è stato Umberto Croppi, l’attuale assessore alla cultura di Roma e capo della comunicazione di Alemanno durante la campagna elettorale: mentre il senatore dell’Illinois si riferiva incessantemente alla “solita Washington che dobbiamo cacciare”, la destra sociale romana concentrava la sue invettive contro “il solito gruppo di potere” che comandava la città. A quanto pare è un mantra che funziona.

L’elemento che in Italia è stato analizzato poco o niente – allo scopo di farne tesoro - è quello del modello organizzativo della vittoria di Obama. Mentre i partiti italiani si cesarizzano o si polverizzano, in America si procede a un’europeizzazione del sistema dei partiti, sempre più distinti nelle opzioni culturali e ideologiche, sempre più organizzati su una base di stabilità e continuità di lavoro tra un’elezione e l’altra (fino a poco tempo fa i partiti erano mere agenzie di sostegno elettorale a imprenditori politici che utilizzavano il franchising repubblicano o democratico).

Obama ha cominciato la sua carriera politica come “community organizer” nei ghetti di Chicago, seguendo gli insegnamenti di un radicale non marxista come Saul Alinsky, un nome della sinistra americana mai sufficientemente celebrato. Laddove il rapporto con la politica si riduce al voto di scambio o non esiste, le reti sociali di un quartiere o di una città vanno ricostruite su basi nuove: non bastano (o non sono credibili, o non esistono..) i partiti, servono persone inserite o capaci di inserirsi nei tessuti sociali, tecniche per farlo, educazione politica, continuità di lavoro, strumenti culturali per leggere la società nella quale si vive.
Obama vuole nazionalizzare questa sua esperienza locale: pochi giorni fa ha spronato il suo staff affinché costruisse “la migliore organizzazione politica degli Stati uniti”.

A causa del colore della sua pelle la sua candidatura è una scommessa, è intende vincerla grazie all’organizzazione. Ancor prima del messaggio: al di là del chiacchiericcio mediatico, i simboli che non hanno gambe e sostanza (o che non parlano più alle persone) durano molto poco. La sostanza è tanto nell’organizzazione e nelle tecniche che la determinano, quanto in un profilo culturale che riscopre parole d’ordine ed elementi culturali che hanno sempre fatto parte della tradizione democratica e liberal. E’ come se si cercasse di risvegliare il progressista dormiente – e il suo orgoglio - in ogni elettore democratico americano. In questo modo Obama ha saputo dare uno sbocco al disagio sociale e all’insofferenza di questi ultimi anni: in America Robin Hood non è amico di Tremonti. Riflettere su questo è il migliore insegnamento possibile per la sconcertata sinistra italiana.

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