11 giugno 2008

L'americanizzazione incompresa

Americanizzazione. E' così che molti interpretano la catastrofe del 14 aprile per dipingere la direzione verso la quale corre il treno della politica italiana. Ma cos'è l'americanizzazione? Ci serve una narrazione della vicenda nella quale siamo immersi che utilizzi questa interpretazione? O non c'è un rischio di attribuire un'etichetta, decidendo che questa funziona perché è la formula che si usa dalla caduta del Muro di Berlino? Negli anni della febbre da maggioritario, metteva d'accordo molti: quelli a favore e gli aspri critici. Non è una coazione a ripetere? E, più di tutto, che cosa vuol dire americanizzazione?

La prima risposta che viene in mente è quella legata al bipartitismo: negli Stati uniti è in vigore un sistema elettorale mal funzionante e criticato, con un forte deficit di rappresentanza democratica. Il risultato sarebbe un sistema dove tutti corrono al centro, promovendo politiche più o meno simili e inseguendo più o meno lo stesso elettorato. Questo non è vero da molto tempo: i repubblicani hanno dimostrato che si vince costruendo un’identità politica forte e con l’organizzazione delle proprie “truppe”. Quello che un tempo facevano i partiti europei. La corsa al centro ha caratterizzato i democratici della Terza via alla Bill Clinton: peccato che quella generazione politica, e quell’ideologia debole, sia già defunta.

Da noi non esiste un sistema bipartitico. A destra c’è una coalizione composita (nel quale la Lega certo non corre al centro), tenuta assieme dalla figura del Capo. Finché c’è lui. Dall’altra parte un capetto che ha cercato di uccidere la sinistra, e che invece si è suicidato nella sua corsa a destra. Senza un risultato così disastroso (che chiama in causa le scelte della sinistra prima delle strategie di Veltroni) ci sarebbe anche la sinistra. Forse il nostro quadro politico istituzionale somiglia più alla Spagna o alla Germania con i loro partiti localistici ben radicati e spesso determinanti, piuttosto che agli Stati uniti. La misura del nostro ragionamento, però, è quella di due fallimenti: l’americanizzazione c’entra poco.

E allora cos'è l'americanizzazione? Una campagna elettorale di plastica? L’applicazione delle regole del marketing alla lotta politica? Lo scarso dibattito sulle grandi questioni che appassionano o preoccupano gli elettori? Lo scarso protagonismo dei lavoratori e dei cittadini? Se è così, allora non ci siamo proprio. Anzi, l'America del 2008 sembra andare in direzione opposta rispetto all'idea di americanizzazione che abbiamo e che tendiamo troppo facilmente a usare.

Durante questa campagna per le primarie si stanno battendo tutti i record di partecipazione, specie sul versante democratico. Ovunque. E più in generale le organizzazioni comunitarie, i sindacati, i comitati che organizzano la registrazione al voto, stanno facendo uno sforzo epocale per far aumentare la quantità di persone che eleggerà il prossimo Congresso e il prossimo presidente. A differenza delle primarie del Pd italiano, poi, le primarie americane si stanno dimostrando un grande esercizio democratico su entrambi i fronti.

I repubblicani hanno nominato McCain contro la volontà della testa del partito e dell'amministrazione in carica. E sei mesi fa chiunque avesse detto che forse Hillary Clinton non sarebbe stata nominata in un batter di ciglia sarebbe stato preso per idiota. Barack Obama ha saputo mobilitare milioni di persone, come i piccoli finanziatori della campagna, le centinaia di migliaia di volontari. Sul successo di questa campagna, sul suo mix di modernità e lavoro territoriale di base occorrerebbe davvero riflettere, forse studiare (prima che lo facciano tutti gli altri).

Per vincere Obama attinge alla tradizione politica del suo paese. E funziona. Da noi si scimmiottano le mode altrui: la sconfitta veltroniana – e la lezione di Obama – mostrano che per guardare al futuro bisogna saper fare i conti con quello che si è stati e trasformarlo in risorsa, senza però cristallizzare i simboli come fossero pietre. Obama, tra l'altro, raccoglie enormi consensi tra quei giovani stanchi di Washington e del suo modo immobile di funzionare: detto in italiano, prende l'antipolitica, le fa una proposta politica e la fa partecipare al processo politico.

Quanto alla società americana in generale, negli ultimi anni a centinaia di migliaia hanno sfilato contro la guerra - e la guerra è già costata le elezioni di mezzo termine ai repubblicani; i sindacati, specie quelli nei settori dove il lavoro è più precario e sfruttato, sono in crescita e sperimentano grande innovazione come nella SEIU; gli immigrati hanno saputo organizzare un movimento che ha portato nelle piazze più gente di quanta non se ne fosse mai vista nella storia degli Stati uniti d'America. Non esattamente una palude della politica, quella americana.
Se si parla di contenuti è la stessa cosa. Sanità, commercio internazionale, guerra, posti di lavoro volati all'estero, crisi strutturale del ruolo e della percezione che l'America ha di se stessa, immigrazione, riforma della politica e persino rapporti tra le razze. I temi della campagna elettorale sono questi. E' di questo che bisogna rispondere all'elettorato, è questo che chiedono i giornalisti aspettandosi risposte puntuali e incalzando di fronte alla vaghezza. In America una conferenza stampa può essere un incubo, anche per il presidente. La sala stampa della Casa Bianca non è Palazzo Chigi e nemmeno il Cremlino.

Così dipinto il panorama politico degli Stati Uniti d'America sembra un paradiso. Non è così. Negli Stati Uniti le lobby sono un pezzo fondante del sistema, la partecipazione politica è ancora troppo bassa, i partiti spesso carrozzoni personalistici. E poi non c'è la sinistra. Ma quella è anche la storia di quel paese, una storia diversa da quella italiana. Ma per quanto sia un sistema non entusiasmante, quello americano non somiglia, ci pare, a quello italiano.
In Italia nessuno ha messo a tema la questione della crisi epocale che vive il paese, né stavolta, né in passato. E l'unico che mette a fuoco il tema della crisi della globalizzazione dei mercati è il futuro ministro dell'economia Giulio Tremonti, manifestando il paradosso che, in Europa, a guidare il ritorno del dirigismo e dell’interventismo pubblico in campo economico sarà la destra.

Esistono aspetti di “mercatizzazione” della politica molto americani, comuni a tutto l’occidente. E’ un fatto: ma da noi c’è una crosta d’America sotto un magma antico. Il ritorno del trasformismo politico, la venerazione per il capo, la richiesta di ordine della borghesia impaurita del nord, il sud dei notabili e delle clientele.
Americanizzazione è una formula troppo facile, che legge troppo poco di quanto accade nella società italiana: siccome le formule tendono a incrostarsi, si ripetono, si fossilizzano, dobbiamo invece raccontare, interpretare e criticare la società italiana per quello che è, senza usare la scorciatoia della “deriva americana”. Non serve a capire, serve solo a dare certezze.

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