25 giugno 2008

La destra religiosa alla prova del 2008

Martino Mazzonis
Lo sguardo fiero, la prosa profetica, l’abitudine alle foto assieme al presidente. Dalla fine degli anni ’70 i paladini dell’evangelismo frequentano la Casa Bianca, le forniscono voti, dettano l’agenda morale al Paese e fanno pressioni sulla Corte Suprema. Per anni ci siamo abituati ad immaginare gli evangelici americani come a una falange romana pronta a tutto per il bene del partito repubblicano. Sermoni infuocati, odio nei confronti dei nemici politici, fiamme dell’inferno evocate ogni quattro parole. Per anni quest’immagine ha avuto un senso. Da Reagan in poi il blocco degli elettori che votavano repubblicano a partire da valutazioni morali è stato uno dei pilastri della lunga stagione conservatrice cominciata con Nixon.
Il 2008 potrebbe rappresentare un momento di passaggio anche per l’elettorato religioso. I grandi costruttori del consenso religioso ai repubblicani stanno morendo uno ad uno o andando in pensione e le vittorie di George W. Bush, architettate dal suo cervello Karl Rove, frutto della grande mobilitazione evangelica, potrebbero essere le ultime costruite così. Rove teorizzava che le elezioni si vincono mobilitando al massimo la propria base e portando a casa gli Stati decisivi per ottenere la presidenza. Il sistema elettorale americano è tale che non serve prendere più voti ma eleggere più grandi elettori - eletti nei singoli Stati, più o meno in proporzione alla popolazione. Nel 2004, l’Ohio fu vinto proprio grazie alla grande mobilitazione dei religiosi: Rod Parsley, predicatore di destra che oggi sostiene McCain aveva proposto un referendum sull’aborto, garantendo così una grande affluenza alle urne dei value voters, gli elettori che votano in base ai valori morali.
Nell’America del 2008 sembra che alcune di queste cose stiano cambiando. Sia McCain che Obama potrebbero avere la possibilità di vincere le elezioni strappando all’avversario Stati e voti che negli ultimi decenni sono stati saldamente in mano al partito avversario. Una delle tante ragioni della possibilità di Obama di farcela sta nelle crepe enormi che si sono prodotte nel blocco evangelico. In primo luogo la colpa è di Bush. La crisi, la guerra e la mancanza di successi in materia di pubblica morale non sono compensati dalla generosità con cui le casse federali hanno dato soldi alle congregazioni religiose. Di quei soldi hanno beneficiato solo i pastori e le loro organizzazioni. Poi c’è la mancanza di fascino esercitata dal candidato McCain sui leader e cristianissimi elettori. Seppure lo staff del senatore repubblicano stia facendo di tutto per corteggiare la lobby del Vangelo, ricordando i voti contro l’aborto e criticando la recente decisione della Corte suprema sul matrimonio gay, le cose non funzionano. Il veterano non ha le carte di George W., non è rinato in Cristo e criticò alcuni dei leader religiosi schierati con Bush nelle primarie del 2000, definendoli «agenti dell’intolleranza». James Dobson, fondatore dell’impero Focus on the Family, la figura pubblica più visibile sul fronte della destra evangelica negli ultimi anni, non ha appoggiato ufficialmente McCain e i suoi collaboratori sostengono che non lo farà.
La difficoltà di McCain è anche tattica: per vincere gli servono voti indipendenti, la mobilitazione del proprio elettorato non basterà a vincere, e per averli non si può essere un candidato con il marchio dell’intolleranza religiosa. Per questo, dopo aver corteggiato Rod Parsley e John Hagee ha dovuto rifiutare il loro appoggio. I due le hanno sparate grosse su Hitler, i musulmani e altro ancora, con loro gli indipendenti non si convincono. Ma senza la mobilitazione dei religiosi ci sono Stati dove i repubblicani non hanno possibilità di vincere.
Obama questa verità la conosce e si è messo a caccia di una parte di quell’elettorato. Non può pensare di corteggiare quelli che interruppero l’insediamento della Camera dei rappresentanti nel 2000 perché invece di un cristiano c’era Venkatachalapathi Samuldrala, religioso indù, a pronunciare la benedizione. E neppure quelli che stazionano agli angoli delle strade con foto di feti squarciati o quelli che mandano i figli ai Jesus camps, dove i bambini imparano di essere peccatori destinati alle fiamme dell’inferno. La strategia è duplice: convincere e ridurre il danno, non diventando oggetto di una campagna feroce. Per questo secondo aspetto, all’inizio del mese Obama ha incontrato diversi leader religiosi a Chicago per discutere di aborto, povertà, sistema sanitario, spiegare il suo punto di vista. «Non cercavamo voti» ha spiegato un suo portavoce. La caccia ai religiosi però c’è: ci sono alcuni evangelici progressisti che lavorano nello staff del senatore democratico e ragionano su cosa dire e come parlare a quei segmenti di elettorato bianco che si lasca guidare dai valori morali anche nella scelta del presidente. Nelle primarie Obama ha perso quei voti a scapito di Clinton negli Stati democratici, e nel 2004 Kerry perse perché evitò la questione religiosa mentre Bush la cavalcava.
Ma le possibilità democratiche di riconquistare un pezzo dell’elettorato religioso, e segnatamente di quello evangelico, passa per un mutamento profondo avvenuto proprio dentro al mondo dei pastori di anime e delle loro organizzazioni. La vecchia guardia repubblicana doc sta passando a miglior vita e il suo impianto ideologico viene pesantemente messo in discussione. Troppo funzionale ai repubblicani, troppo ideologico, troppo politicizzato nel senso deteriore. I giovani evangelici invece sono molto preoccupati per l’ambiente e mettono la protezione del creato e la povertà davanti alle crociate contro l’omosessualità.
Non si tratta di uno spostamento “a sinistra”, ma di una acquisizione di indipendenza e di una maggiore frammentazione. A marzo di quest’anno, la Southern Baptist Convention, gruppo teologicamente conservatore, ha emanato un documento in cui chiede ai suoi affiliati di predicare e lavorare per la protezione dell’ambiente. L’aborto non si dimentica, ma non è più l’unica priorità. I repubblicani, così vicini alla lobby petrolifera, faranno bene a metterselo in testa.
Che le crepe nel rapporto tra evangelici e politica di destra stiano diventando crateri, sembra confermarlo l’Evangelical manifesto, un documento firmato da 90 eminenti pastori e teologi, liberali e conservatori, reso pubblico a maggio. Leggendolo si ha l’impressione non ci sia scritto nulla. Un tratto caratteristico dei documenti politico-religiosi a scopo interno. Eppure il manifesto ha suscitato un vespaio. Il documento non esprime una visione politica, ma chiede più indipendenza, cerca di portare fuori dall’abbraccio con la destra di Washington le chiese evangeliche del Paese. Troppa partigianeria, troppo odio, eccesso di attenzione su due o tre No (aborti, divorzio, matrimonio gay) e assenza di interesse al resto.
L’anno scorso il presidente designato della Christian coalition decise di non accettare l’incarico perché la sua attenzione a lotta alla povertà e all’ambiente non era accettata dai dirigenti anziani della coalizione. Joel Hunter, così si chiama, è un moderato conservatore ed è solo l’ultimo segnale che c’è una vecchia America dell’evangelismo poulista e minaccioso che sta perdendo forza, nonostante la sua forza organizzativa e materiale non è più in sintonia con le sue anime (o con una parte cospicua di queste). Non sarà un caso se in questi giorni esce in libreria “La fede di Barack Obama”, di Thomas Nelson, autore di best seller religiosi, in cui si spiega che il senatore è certo un liberale, ma è uomo di profonda fede. Come un pezzo consistente della nuova generazione di evangelici. Nelson è stato biografo della conversione religiosa di un altra figura importante, il suo libro più venduto parla della rinascita in Cristo del presidente Bush.


SCHEDA: qualche numero sugli evangelici
Gli evangelici sono poco più del 25 per cento dei cittadini americani, i cattolici sono il 23, i protestanti tradizionali (luterani, anglicani, presbiteriani) il 18, gli affiliati alle chiese di tradizione afroamericana il 7 per cento. Ebrei e mormoni contano entrambi intorno all’1,7, mentre i non religiosi sono il 16 per cento. Affiliati alle chiese a prevalenza nera ed evangelici sono i gruppi religiosi con il reddito medio più basso.
Le chiese evangeliche possono essere singole mega edifici in mano a un singolo predicatore famoso, reti di pastori collegati tra loro e uniti da un tipo di predicazione e credo, hanno le loro televisioni, organizzano incontri e settimane di preghiera in stadi e palazzetti, hanno le loro università. Non c’è una gerarchia, ma la capacità predicatoria e imprenditoriale di ciascun predicatore rende il suo gospel il più ascoltato e venduto a seconda dei periodi.
In Oklahoma, Arkansas, Tennessee gli evangelici contano più di metà del totale della popolazione. Sono più o intorno al 40 in Ohio, Texas, North e South Carolina, Alabama, Mississippi, Kentucky, Missouri. All’80 per cento sono bianchi, il 56 per cento ha un’educazione che va dalle scuole superiori in giù, il 13 per cento ha l’equivalente di una nostra laurea.
Gli evangelici sono all’80 per cento contro il matrimonio gay (la media nazionale è 55 per il No) mentre sostengono la pena di morte al 74 per cento (la media Usa è 62).


Religione e politica, una cronologia

1973
La sentenza della Corte costituzionale Roe Vs. Wade, che consente l’aborto, apre un enorme dibattito sui temi morali. La battaglia contro questa sentenza e altre della Corte è, da ora in poi, uno dei principali temi della mobilitazione evangelica.

1976 Il primo a raccogliere e portare in politica la rinascita in Cristo è Jimmy Carter. Viene dalla Georgia, non dagli Stati in mano al suo partito. Ne ’76 porta a casa il 56% dei voti battisti e viene eletto. Tutto il Sud vota democratico (nel 2000 e 2004 sarà l’esatto contrario).

1978, nasce Christian voice, una campagna che fa le pagelle ai poltici sulla base dei valori morali e del loro modo di votare in Congresso sui temi cari agli evangelici.

1979, è l’anno chiave. Jerry Falwell porta la croce nell’urna costruendo la Moral majority. Basta avere paura delle istituzioni, Falwell parla di politica e ne parla tanto, non gira attorno alle questioni e organizza il voto. Nel primo anno la sua organizzazione raccoglie 400mila iscritti e gioca un ruolo determinante nel successo di Ronald Reagan nel 1980

1985 George W. Bush passeggia su una spiaggia del Maine assieme a Billy Graham, consigliere spirituale di diversi presidenti e influente predicatore. Comincia la rinascita in Cristo, se ne sentirà parlare una ventina d’anni dopo. (Dell’aneddoto esistono diverse versioni).

1988 In 3 milioni firmano la petizione che chiede al telepredicatore Pat Robertson di cercare la nomination repubblicana.

1990 Robertson fonda la Christian Coalition utilizzando i fondi della campagna presidenziale fallita. La coalizione religiosa organizza la registrazione e partecipazione al voto in favore di candidati vicini alle idee del gruppo.

1993 L’introduzione della regola “non chiedo/non dire”, che consente agli omosessuali di fare il militare - senza potersi dichiarare, senza che gli venga chiesto - scatena una campagna contro Bill Clinton

2000-2004 Bush junior vince due volte. Il voto evangelico è determinante. La geografia del voto, che regala gli Stati dove le organizzazioni e le mega chiese sono più presenti ai repubblicani, sembra diventata una costante della politica americana.

2006-2008 New Jersey, Vermont, Massachussets e California decretano che le coppie dello stesso sesso devono avere gli stessi diritti di quelle eterosessuali. Nel 2008 la Corte suprema autorizza la California a procedere con i matrimoni gay. In una campagna elettorale centrata su economia, Iraq, energia e ambiente, i valori rischiano di tornare. Aiuteranno McCain?

2007 Joel Hunter, presidente designato della Christian coalition, non accetta l’incarico. La sua visione dell’intervento in politica - oltre i no ad aborto e matrimonio gay, per la difesa dell’ambiente e la ricostruzione dell’organizzazione dal basso, dice, non è condivisa dal resto della direzione della Cc.

11 giugno 2008

L'americanizzazione incompresa

Americanizzazione. E' così che molti interpretano la catastrofe del 14 aprile per dipingere la direzione verso la quale corre il treno della politica italiana. Ma cos'è l'americanizzazione? Ci serve una narrazione della vicenda nella quale siamo immersi che utilizzi questa interpretazione? O non c'è un rischio di attribuire un'etichetta, decidendo che questa funziona perché è la formula che si usa dalla caduta del Muro di Berlino? Negli anni della febbre da maggioritario, metteva d'accordo molti: quelli a favore e gli aspri critici. Non è una coazione a ripetere? E, più di tutto, che cosa vuol dire americanizzazione?

La prima risposta che viene in mente è quella legata al bipartitismo: negli Stati uniti è in vigore un sistema elettorale mal funzionante e criticato, con un forte deficit di rappresentanza democratica. Il risultato sarebbe un sistema dove tutti corrono al centro, promovendo politiche più o meno simili e inseguendo più o meno lo stesso elettorato. Questo non è vero da molto tempo: i repubblicani hanno dimostrato che si vince costruendo un’identità politica forte e con l’organizzazione delle proprie “truppe”. Quello che un tempo facevano i partiti europei. La corsa al centro ha caratterizzato i democratici della Terza via alla Bill Clinton: peccato che quella generazione politica, e quell’ideologia debole, sia già defunta.

Da noi non esiste un sistema bipartitico. A destra c’è una coalizione composita (nel quale la Lega certo non corre al centro), tenuta assieme dalla figura del Capo. Finché c’è lui. Dall’altra parte un capetto che ha cercato di uccidere la sinistra, e che invece si è suicidato nella sua corsa a destra. Senza un risultato così disastroso (che chiama in causa le scelte della sinistra prima delle strategie di Veltroni) ci sarebbe anche la sinistra. Forse il nostro quadro politico istituzionale somiglia più alla Spagna o alla Germania con i loro partiti localistici ben radicati e spesso determinanti, piuttosto che agli Stati uniti. La misura del nostro ragionamento, però, è quella di due fallimenti: l’americanizzazione c’entra poco.

E allora cos'è l'americanizzazione? Una campagna elettorale di plastica? L’applicazione delle regole del marketing alla lotta politica? Lo scarso dibattito sulle grandi questioni che appassionano o preoccupano gli elettori? Lo scarso protagonismo dei lavoratori e dei cittadini? Se è così, allora non ci siamo proprio. Anzi, l'America del 2008 sembra andare in direzione opposta rispetto all'idea di americanizzazione che abbiamo e che tendiamo troppo facilmente a usare.

Durante questa campagna per le primarie si stanno battendo tutti i record di partecipazione, specie sul versante democratico. Ovunque. E più in generale le organizzazioni comunitarie, i sindacati, i comitati che organizzano la registrazione al voto, stanno facendo uno sforzo epocale per far aumentare la quantità di persone che eleggerà il prossimo Congresso e il prossimo presidente. A differenza delle primarie del Pd italiano, poi, le primarie americane si stanno dimostrando un grande esercizio democratico su entrambi i fronti.

I repubblicani hanno nominato McCain contro la volontà della testa del partito e dell'amministrazione in carica. E sei mesi fa chiunque avesse detto che forse Hillary Clinton non sarebbe stata nominata in un batter di ciglia sarebbe stato preso per idiota. Barack Obama ha saputo mobilitare milioni di persone, come i piccoli finanziatori della campagna, le centinaia di migliaia di volontari. Sul successo di questa campagna, sul suo mix di modernità e lavoro territoriale di base occorrerebbe davvero riflettere, forse studiare (prima che lo facciano tutti gli altri).

Per vincere Obama attinge alla tradizione politica del suo paese. E funziona. Da noi si scimmiottano le mode altrui: la sconfitta veltroniana – e la lezione di Obama – mostrano che per guardare al futuro bisogna saper fare i conti con quello che si è stati e trasformarlo in risorsa, senza però cristallizzare i simboli come fossero pietre. Obama, tra l'altro, raccoglie enormi consensi tra quei giovani stanchi di Washington e del suo modo immobile di funzionare: detto in italiano, prende l'antipolitica, le fa una proposta politica e la fa partecipare al processo politico.

Quanto alla società americana in generale, negli ultimi anni a centinaia di migliaia hanno sfilato contro la guerra - e la guerra è già costata le elezioni di mezzo termine ai repubblicani; i sindacati, specie quelli nei settori dove il lavoro è più precario e sfruttato, sono in crescita e sperimentano grande innovazione come nella SEIU; gli immigrati hanno saputo organizzare un movimento che ha portato nelle piazze più gente di quanta non se ne fosse mai vista nella storia degli Stati uniti d'America. Non esattamente una palude della politica, quella americana.
Se si parla di contenuti è la stessa cosa. Sanità, commercio internazionale, guerra, posti di lavoro volati all'estero, crisi strutturale del ruolo e della percezione che l'America ha di se stessa, immigrazione, riforma della politica e persino rapporti tra le razze. I temi della campagna elettorale sono questi. E' di questo che bisogna rispondere all'elettorato, è questo che chiedono i giornalisti aspettandosi risposte puntuali e incalzando di fronte alla vaghezza. In America una conferenza stampa può essere un incubo, anche per il presidente. La sala stampa della Casa Bianca non è Palazzo Chigi e nemmeno il Cremlino.

Così dipinto il panorama politico degli Stati Uniti d'America sembra un paradiso. Non è così. Negli Stati Uniti le lobby sono un pezzo fondante del sistema, la partecipazione politica è ancora troppo bassa, i partiti spesso carrozzoni personalistici. E poi non c'è la sinistra. Ma quella è anche la storia di quel paese, una storia diversa da quella italiana. Ma per quanto sia un sistema non entusiasmante, quello americano non somiglia, ci pare, a quello italiano.
In Italia nessuno ha messo a tema la questione della crisi epocale che vive il paese, né stavolta, né in passato. E l'unico che mette a fuoco il tema della crisi della globalizzazione dei mercati è il futuro ministro dell'economia Giulio Tremonti, manifestando il paradosso che, in Europa, a guidare il ritorno del dirigismo e dell’interventismo pubblico in campo economico sarà la destra.

Esistono aspetti di “mercatizzazione” della politica molto americani, comuni a tutto l’occidente. E’ un fatto: ma da noi c’è una crosta d’America sotto un magma antico. Il ritorno del trasformismo politico, la venerazione per il capo, la richiesta di ordine della borghesia impaurita del nord, il sud dei notabili e delle clientele.
Americanizzazione è una formula troppo facile, che legge troppo poco di quanto accade nella società italiana: siccome le formule tendono a incrostarsi, si ripetono, si fossilizzano, dobbiamo invece raccontare, interpretare e criticare la società italiana per quello che è, senza usare la scorciatoia della “deriva americana”. Non serve a capire, serve solo a dare certezze.

Lezioni di organizzazione (Obama e l'Italia)

Obama e l’Italia fin’ora è stato solo un matrimonio d’interesse. Per di più una delle due parti (quella americana) aveva molto poco da guadagnarci. E’ inutile tornare sul tormentone amaro del “Yes, We Can”, il “si può fare” veltroniano. Ma la storia di quello slogan dà un idea della distanza tra Stati uniti e Italia. Di là dall’oceano si recupera uno slogan radicato nella propria cultura e tradizione politica, di qua si ricerca uno refrain pubblicitario senza curarsi del fatto che a mancare è il prodotto.

Obama ha tradotto in inglese e fatto suo lo slogan "Si, se puede", lanciato da Dolores Huerta nel 1972 durante il digiuno di protesta di Cesar Chavez, allora a capo della lotta contadina degli ispanici della California. "Si, se puede" è anche il motto del sindacato fondato da Chavez e Huerta, lo United Farm Workers. Obama ha acquisito lo slogan un paio di anni fa: "Yes, We Can" era il nome di un programma di educazione politica per giovani neri. 20 persone da formare come organizzatori di campagne elettorali, con particolare riguardo a quelle nei ghetti neri. "Yes, We Can" si è trasformato, quindi, in un videoclip che ha musicato un discorso di Obama, infarcito di celebrità, che ha fatto il giro del mondo. E lo slogan, alla fine, è arrivato in Italia.

Qui tutti tirano Obama per la giacchetta. “Il Foglio”, per esempio, oscilla tra la tradizionale ostilità per i liberal all’apprezzamento verso l’approccio messianico del candidato democratico: per Ferrara va bene qualsiasi cosa ricordi un afflato di spiritualità religiosa. Al Partito democratico italiano bastava l’elemento della novità (“change”), allo scopo di galvanizzare le proprie truppe confuse da tanti cambi di identità e a rischio di affogamento nel partito liquido. L’ironia è che l’unico a fare propria la lezione di Obama con successo è stato Umberto Croppi, l’attuale assessore alla cultura di Roma e capo della comunicazione di Alemanno durante la campagna elettorale: mentre il senatore dell’Illinois si riferiva incessantemente alla “solita Washington che dobbiamo cacciare”, la destra sociale romana concentrava la sue invettive contro “il solito gruppo di potere” che comandava la città. A quanto pare è un mantra che funziona.

L’elemento che in Italia è stato analizzato poco o niente – allo scopo di farne tesoro - è quello del modello organizzativo della vittoria di Obama. Mentre i partiti italiani si cesarizzano o si polverizzano, in America si procede a un’europeizzazione del sistema dei partiti, sempre più distinti nelle opzioni culturali e ideologiche, sempre più organizzati su una base di stabilità e continuità di lavoro tra un’elezione e l’altra (fino a poco tempo fa i partiti erano mere agenzie di sostegno elettorale a imprenditori politici che utilizzavano il franchising repubblicano o democratico).

Obama ha cominciato la sua carriera politica come “community organizer” nei ghetti di Chicago, seguendo gli insegnamenti di un radicale non marxista come Saul Alinsky, un nome della sinistra americana mai sufficientemente celebrato. Laddove il rapporto con la politica si riduce al voto di scambio o non esiste, le reti sociali di un quartiere o di una città vanno ricostruite su basi nuove: non bastano (o non sono credibili, o non esistono..) i partiti, servono persone inserite o capaci di inserirsi nei tessuti sociali, tecniche per farlo, educazione politica, continuità di lavoro, strumenti culturali per leggere la società nella quale si vive.
Obama vuole nazionalizzare questa sua esperienza locale: pochi giorni fa ha spronato il suo staff affinché costruisse “la migliore organizzazione politica degli Stati uniti”.

A causa del colore della sua pelle la sua candidatura è una scommessa, è intende vincerla grazie all’organizzazione. Ancor prima del messaggio: al di là del chiacchiericcio mediatico, i simboli che non hanno gambe e sostanza (o che non parlano più alle persone) durano molto poco. La sostanza è tanto nell’organizzazione e nelle tecniche che la determinano, quanto in un profilo culturale che riscopre parole d’ordine ed elementi culturali che hanno sempre fatto parte della tradizione democratica e liberal. E’ come se si cercasse di risvegliare il progressista dormiente – e il suo orgoglio - in ogni elettore democratico americano. In questo modo Obama ha saputo dare uno sbocco al disagio sociale e all’insofferenza di questi ultimi anni: in America Robin Hood non è amico di Tremonti. Riflettere su questo è il migliore insegnamento possibile per la sconcertata sinistra italiana.