4 novembre 2008

Due anni vissuti pericolosamente

Martino Mazzonis
Chicago - nostro inviato
è una frase che Barack Obama ripete in ogni comizio da un mese a questa parte. Ricorda la storia recente. Una storia che finisce e comincia questa notte tra l'una e le quattro, quando i seggi chiuderanno da una costa all'altra degli Stati Uniti. Sono quasi due anni che il profeta del cambiamento e il veterano del Vietnam battono ogni angolo degli Stati Uniti. Cercando consensi alle primarie e voti veri. Il democratico è diventato credibile portando ai seggi migliaia di persone nel freddo inverno dell'Iowa, promettendo un'America diversa, un cambiamento vero, ma credibile. Il repubblicano è risorto in New Hampshire, dopo che George W. Bush lo aveva fatto fuori dalle primarie del 2000 usando le tecniche più sporche possibili. A fine gennaio i due senatori incassano il successo della South Carolina. Per uno significa portare a casa il voto della comunità afroamericana, per l'altro vincere lo Stato dove Bush lo aveva fatto uscire di carreggiata otto anni prima. Le primarie per le presidenziali del 2008 verranno ricordate. C'è stato un tempo in cui i partiti Usa arrivavano alle convention con pacchetti di deleghe e, insultandosi, comprando voti, tirandosi sedie, sceglievano il loro candidato. Non è più così. Ma stavolta, in casa democratica ci siamo andati vicini.

La scalata delle primarie
La scelta repubblicana è fuori dal comune. Il drappello non è di quelli particolarmente entusiasmanti: c'è il vecchio Rudy Giuliani, che è ha concluso malamente la sua carriera politica, il mormone Romney, miliardario scaltro che piace all'apparato e a nessun altro, c'è l'evangelico sociale Huckabee, il più duro sui temi etici, il più a sinistra in materia sociale. Vince McCain, il candidato che non piace al partito, il moderato, l'outsider. Tra i democratici la lotta è tra titani: la nomination dovrebbe andare per acclamazione a Hillary Clinton, poi c'è la star nascente della politica Obama, che mette in piedi una rete di sostegno dal basso formidabile e batte subito tutti i record di finanziamento ricevendo centinaia di migliaia di piccole donazioni. E infine c'è John Edwards, terzo incomodo che finisce subito al tappeto. A febbraio, in Florida, McCain porta a casa la nomination, mentre il duello tra Hillary e Obama divide il partito, la sua base, i media. Durerà fino alla convention di Denver, costerà fatica, montagne di soldi e metterà alla prova Obama, ne testerà la capacità di tenere duro ed avere una strategia. Durante le primarie il senatore dell'Illinois dovrà rispondere agli attacchi sul reverendo Jeremiah Wright e sul suo sermone , dovrà parlare del suo patriottismo, della sua religione, del suo nome, dell'amicizia con lo speculatore di Chicago Tony Rezko, della sua inesperienza. Dovrà essere fiero del colore della sua pelle e contemporaneamente farlo dimenticare. Lo staff di Hillary ha fatto il lavoro sporco, trovato gli argomenti anti Obama per i repubblicani. Ma avendo tenuto botta a quello, per il Grand Old Party e per McCain è stato più difficile trovare qualche coniglio (meglio, qualche topo) da tirare fuori dal cilindro per mettere in difficoltà il senatore afroamericano.

Due città, due messaggi
I democratici hanno scelto Denver per la convention perché sperano di rompere il monopolio repubblicano nel selvaggio West. Colorado, New Mexico, Nevada, magari il Montana. Sul palco sono passati i giovani governatori e le giovani governatrici. Tante donne. A sorpresa arriva a dare una zampata Ted Kennedy, che ha mantenuto la promessa di restare vivo per vedere vincere l'uomo che ha appoggiato voltando le spalle alla sua amica Hillary. Obama ha avuto all'inizio il sostegno della nuova leva, poi ha saputo conquistare l'establishement. Adesso il partito è roba sua (con qualche azione pesante dell'ex coppia presidenziale). Un partito cambiato da otto anni di sconfitte brucianti e dai tempi. Un partito in cerca in una nuova coalizione sociale vincente, capace di riconquistare il voto dei lavoratori rapiti da Ronald Reagan negli anni '80, di far aumentare la partecipazione di giovani e afroamericani al voto e di prendere il voto latino, che Bush aveva conquistato promettendo riforme dell'immigrazione che non sono arrivate. Un partito diviso. Tante donne e tanti lavoratori bianchi erano furiosi con Obama. Come aveva potuto questo ragazzino elegante e ben vestito rubare la presidenza a Hillary?
La senatrice era furiosa anche lei. Ma le pressioni del partito e la paura di regalare un'altra volta la vittoria ai repubblicani hanno avuto la meglio. Con un colpo di teatro fantastico, l'ex first lady ha incoronato Obama durante la conta dei delegati a Denver: è comparsa in platea, seguita dai delegati di New York e ha detto: . Un mese dopo avrebbe cominciato, a Scranton, il suo tour per riportare all'ovile i lavoratori bianchi. Il giorno dopo la nomination, la folla che riempiva lo stadio dei Denver Broncos ascoltava il discorso di accettazione di Obama. Addio alla retorica sulla storia personale, meno "Change" e più idee: miliardi da investire in infrastrutture e energie rinnovabili, sanità meno cara, scuola migliore, servizio civile in cambio di college gratuito, una diplomazia più efficace e meno muscolosa. Sul palco generali, lavoratori bianchi, piccoli imprenditori rovinati, maestri di scuola.
John McCain aveva un altro problema a Saint Paul. Farsi accettare da una base che non lo amava. Un indipendente che dopo la batosta ricevuta da Bush stava per mollare il partito. Un divorziato, un moderato che non andava bene allo zoccolo duro, ai conservatori religiosi, ai libertari che chiuderebbero Washington. E allora McCain sceglie Sarah Palin, la governatrice dell'Alaska che più a destra non si può. Pro caccia, anti aborto, rozza come piace alla gente degli Stati sperduti e rozzi, cattiva come deve essere il vice nella campagna elettorale - gli attacchi sono compito del numero due. La scelta è degli strateghi che hanno preso in mano la sua campagna. Della gente di Bush. Fatto sta che mentre il "maverick" nel so discorso raccontava se stesso e la sua dedizione per la Patria, sul palco della convention si alternavano vecchi figuri che sparavano bordate contro Obama e la svolta a sinistra dei democratici. Dopo la tre giorni in Minnesota - dove Bush e Cheney hanno evitato di farsi vedere con la scusa degli uragani - quello è diventato il tono della campagna McCain: vincere in Iraq, difendere i cittadini dai ladri di Washington, dagli abortisti, dai socialisti. Per un paio di settimane ha funzionato. I sondaggi raccontavano di una corsa più tesa. Poi è crollata Wall street.

La crisi e il ritorno di Obama
Il giorno in cui il Segretario al tesoro ha proposto di salvare le banche con i soldi pubblici, McCain doveva partecipare a uno show comico. Non ci è andato spiegando di dover correre a discutere della crisi, ha proposto di cancellare l'ultimo dibattito presidenziale, sospendere la campagna elettorale. A Washington era necessaria la sua presenza. Alla riunione con Paulson, tutti hanno raccontato di un senatore senza idee chiare. Obama ha risposto meglio, non si è fatto prendere dal panico e ha chiesto agli americani di stare tranquilli. Poi, lui e il suo partito hanno ottenuto qualche non grande miglioramento al pacchetto Paulson e lo hanno approvato. La straordinaria macchina elettorale di Obama ha continuato a girare a pieno ritmo, la proposta di un piano di infrastrutture - e quella di intervenire subito in soccorso delle famiglie in crisi - sono suonate come appropriate. L'idea di un nuovo New deal e della fine di un'era cominciata con Nixon e Reagan ha ricominciato a circolare anche fuori dai circoli liberal. Obama torna in vantaggio nei sondaggi. Il cambiamento è sotto gli occhi di tutti ed è in peggio. I repubblicani hanno portato il Paese alla catastrofe, vendono una ricetta usata ed hanno le spalle rivolte al passato. Chi li voterà spera di tornare agli anni in cui tutto andava bene, l'Urss crollava, l'economia tirava, la benzina non costava. Ma Wall street e il prezzo del barile hanno forse aperto gli occhi agli americani. Il mondo sta cambiando rapidamente, il modello americano è in crisi profonda e il ruolo internazionale del Paese non potrà più essere quello di un tempo. Il prossimo presidente ha un compito enorme e pauroso. Oggi andando al voto i cittadini della prima potenza mondiale potranno far finta di non vedere, provare a dimenticare la realtà illudendosi della vittoria in Iraq e accontentarsi di un taglio alle tasse che non aiuterà gli Usa a uscire dalla fossa che si sono scavati. Oppure scegliere un cammino più tortuoso e difficile. In parte ignoto, come lo è sempre il futuro, in parte rassicurante come il tono della voce del candidato democratico.

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