21 marzo 2008

Ha fallito Reagan, non Bush

La storia celebra Augusto, non certo Tiberio – soffocato dai suoi stessi pretoriani nella villa di Capri - né il suo successore, il famigerato Caligola; lo stesso accade oggi: si rimpiange Reagan, il capo popolo della rivoluzione mercatista degli anni ’80 e si biasimano i suoi successori, il primo e il secondo Bush. Ma oggi come allora le colpe dei padri ricadono necessariamente sui figli, quelli veri e quelli adottivi. Non parleremmo delle funeste stravaganze di Caligola se Augusto non avesse svuotato di ogni senso le istituzioni repubblicane; non si discuterebbe del cieco ideologismo di George W. Bush se non vi fosse stata la rivoluzione liberista di Ronald Reagan.
Con Bush figlio non solo non si è saputo regolare il sistema del credito, ma si è di fatto incentivata la creazione della bolla speculativa del settore immobiliare. E’ stata pilotata la posticipazione di una crisi già in nuce alla fine degli anni ’90. Lo si è fatto con gli strumenti culturali ed economici ereditati dagli anni ’80, come è ovvio che fosse.
Le crisi portano panico, e il panico genera pulsioni irrazionali; le stesse che colgono gli analisti italiani e mondiali. Ieri il solitamente sobrio Massimo Gaggi ha reagito malamente sulle pagine del “Corriere della Sera” alla crisi di questi giorni, che lui stesso aveva descritto in modo appropriato in altre occasioni. Scrive Gaggi: “Attenzione a non confondere la crisi americana, che ha le sue radici in un'applicazione caricaturale del liberismo da parte di un gruppo dirigente pasticcione e troppo ideologizzato, con un fallimento del modello economico liberale: quelli della presidenza Bush sono stati anni di deterioramento delle capacità amministrative del governo federale e di un'attuazione dogmatica della deregulation che ha fatto saltare norme e controlli necessari per un sano sviluppo dell'economia di mercato”.
L’obiettivo – più che altro di carattere culturale – è quello di salvare il bambino e buttare l’acqua sporca. Il bambino ha le sembianze delle politiche “originali” di Ronald Reagan e l’acqua sporca quelle dell’estremismo di Bush, che avrebbe brandito i testi di Milton Friedman come in Cina si sventolava il libretto rosso. E’ una risposta molto americana: il problema non è nelle coordinate culturali ma nella crisi della leadership. Attraverso nuove personalità - più pragmatiche, flessibili e capaci - si potrebbero rivitalizzare i fondamenti della dottrina allontanando lo spauracchio del dirigismo economico e del protezionismo, apparsi in questa campagna elettorale (in Italia e negli Usa).
Non si può però ridurre Bush a un epifenomeno ideologico e caricaturale del reaganismo. Reagan fu senz’altro assai più pragmatico – come sostiene Gaggi - di George W. Bush, molto più capace di blandire la base e al tempo stesso di stringere accordi con i poteri che contano, quelli che badano ai fatti e meno alla purezza ideologica; producendo – a volte - politiche più accorte.
Reagan aveva però commesso il peccato originale, lo stesso di Augusto che si fa divino. Aveva piantato il seme dell’ideologismo conservatore, che non poteva non crescere nel sistema politico americano. Un dato di fatto facilmente verificabile: nel giro di un trentennio la classe dirigente del partito repubblicano è radicalmente cambiata, passando dalla generazione dei repubblicani “liberal” alla Rockefeller agli estremisti alla Gingrich, perché ha legato le proprie fortune elettorali ai pasdaran del “governo minimo”, i gruppi di pressione anti-tasse (come l’Americans for Tax Reforms) o quelli per la difesa del diritto di proprietà. A questi, in primo luogo, i politici repubblicani devono rispondere per trovare legittimità e consenso.
Quella di Bush è l’élite politica che è nata e cresciuta nel solco rivoluzionario tracciato da Reagan, e grazie a quelle basi culturali ha alimentato la propria forza elettorale, esasperandone ancor di più il carattere quando il nemico da combattere era Bill Clinton: la polarizzazione ideologica del sistema politico è stata garanzia di riproduzione di una “classe dirigente”, come diciamo in Europa. Un’élite nata già sotto il segno di un liberismo onnipotente: quella precedente, che semplicemente non esiste più, sapeva dotarsi del pragmatismo di chi aveva convissuto con quattro decenni di politiche neo-keynesiane, con lo strapotere della coalizione democratica costruita da Roosevelt e i missili di Mosca. Quella di oggi non è in grado di fare questo, è perdente e si affida a un politico - McCain – che di economia nemmeno ci capisce molto. Un salvatore della patria non appare all’orizzonte.
Gaggi presenta, per esempio, il fenomeno dell’esternalizzazione dei servizi legati alla logistica militare - fino ai contractor che svolgono mansioni belliche, come è avvenuto in Iraq - come un tipico esempio di distorsione dei principi liberali; ma questo potrebbe essere inteso come la naturale prosecuzione delle politiche di deregolamentazione e dismissione di attività pubbliche avviate da Reagan negli anni ’80. Che in realtà non era affatto deregolamentazione, ma trasferimento di mansioni pubbliche a un attore privato, il cosiddetto “governo-per-contratto”.
Un Big Government sotto mentite spoglie, nel quale si offusca il confine tra privato e pubblico: un tratto comune a Bush e a Reagan. Fino a quando il pubblico non deve rifarsi carico dell’intera macchina perché il privato fallisce. Questa crisi potrebbe segnare un cambio di rotta: c’è un candidato democratico (americano) capace di utilizzare la salutare richiesta di più stato e più intervento pubblico che viene dall’elettorato? Si potrebbero finalmente attuare politiche di redistribuzione; addirittura le si potrebbe rilegittimare, se esistessero i politici e i think tank capaci di cogliere l’attimo. Se questo avverrà potrebbe aprirsi ovunque una fase nuova, e il tema non sarebbe il protezionismo alla Tremonti.
Ora, per il bene di tutti, bisognerebbe farsi carico del fallimento di un’epoca, con il pragmatismo che giustamente Gaggi rimpiange. Evitando le reazioni di “pancia”, epidermiche, a difesa dell’onore tradito del mercato.

(Mattia Diletti, 19 marzo)

19 marzo 2008

I multi-kulti di Bush: i nuovi consiglieri del principe

L’ebreo di corte in Germania e i cristiani rinnegati dell’impero ottomano svolsero per i loro sovrani servigi impagabili. I centri di potere tradizionali – gilde, corporazioni e signorie – ostacolavano l’avvio del processo di modernizzazione dello stato, la creazione di una burocrazia nazionale e l’affermazione del mercantilismo; mentre Francia e Inghilterra avevano già istituito un sistema nazionale di imposizione fiscale la Germania combatteva contro i residui del feudalesimo. Solo chi era senza titoli, senza legami con la terra e con il passato poteva garantire la fedeltà di cui i principi avevano bisogno nella loro battaglia per la concentrazione del potere. L’ebreo di corte diveniva così elemento attivo a fianco del suo signore nel processo di trasformazione dell’economia e delle istituzioni. Nel 1972 Lewis Coser pubblica su "The American Sociological Review" un breve saggio dal titolo "The Alien As a Servant of Power: Court Jews and Christian Renegades", che appare in realtà un pretesto polemico per parlarci del suo presente. Scrive Coser:

con questi due esempi storici, gli ebrei di corte della Germania del ‘600 e i cristiani rinnegati dell’Impero ottomano all’apice del suo splendore, ho cercato di dimostrare che, ogni qual volta i sovrani intendano rafforzare la loro autonomia e si trovino di fronte a ostacoli posti dal sistema feudale o dalla burocrazia, tendono ad avvalersi dei servizi di gruppi che non hanno radici (alien groups rootless) nel paese che essi governano. Questi gruppi si piegano facilmente agli scopi del sovrano e divengono servitori ideali del potere. Lascio all’immaginazione sociologica del lettore l’evocazione di altri casi, del presente e del passato, in cui questo modello possa tornare utile.

Mentre scriveva Coser pensava a Henry Kissinger. Noi pensiamo a Condoleezza Rice, Alberto Gonzales e ai neoconservatori. All’interventismo di Bush sul piano internazionale si è affiancato quello sul piano interno: in entrambi i casi il modello di governo basato sull’onnipotenza dell’esecutivo e sull’accentramento dei poteri ha prodotto fratture e stravolgimenti, grazie anche a interpreti nuovi e inaspettati. Chi sono i neoconservatori? Chi rappresentano Condoleezza Rice e il nuovo segretario torturatore del Dipartimento di Giustizia Alberto Gonzales? A chi dobbiamo paragonarli? Va compreso se ci troviamo di fronte ai campioni della “Nuova America” di cui parla Huntington nel suo volume Who are we? e alla nascita di una nuova élite repubblicana e conservatrice, oppure se siamo di fronte semplicemente a un nuovo zio Tom, che questa volta si esprime anche in spagnolo.

I neoconservatori hanno appoggiato Bush nell’opera di riorganizzazione dell’universo simbolico e materiale che era stato scosso dagli attentati dell’11 settembre (come fece il brain trust di Roosevelt dopo la crisi del ’29). E allo stesso tempo lo hanno sostenuto affinché sfruttasse le condizioni eccezionali verificatesi allo scopo di mutare rapporti di forza ed equilibri istituzionali: a questo sono servite idee immediatamente spendibili e convincenti, in grado di superare le resistenze di burocrazie, istituzioni o gruppi che godevano di vecchie rendite di potere (tanto nell’arena internazionale che sul piano interno). In questi casi gli intellettuali si rendono utili nel legittimare la ricerca di nuovi equilibri e divengono il migliore degli alleati: regalano idee innovative ma sono sacrificabili se il loro progetto di cambiamento si dimostra destinato al fallimento. Il potere degli alien groups descritti da Coser dipende inoltre dalla volontà del principe di dargli ascolto: egli può fare a meno di loro e non il contrario. Gli intellettuali neoconservatori assomigliano all’ebreo di corte e al cristiano rinnegato: se incolpati dei fallimenti della politica estera e delle riforme dell’amministrazione Bush torneranno nei loro think tank o verranno relegati in posizioni di secondo piano, e in questo caso il paragone storico più adeguato sarà quello con i marxisti revisionisti polacchi che nel 1955 appoggiarono entusiasticamente Gomulka e dopo soli sei mesi si ritrovarono emarginati e isolati.

Alberto Gonzales rappresenta invece un luminoso esempio di consigliere del principe la cui vita è dedicata al proprio sovrano. Gonzales è nato povero, è figlio di immigrati messicani, è considerato un esempio per tutta la comunità latina da cui ogni anno riceve premi e onoreficenze. Gonzales si è sempre occupato per conto di Bush di giustizia e repressione, elementi fondamentali nell’opera di costruzione e rafforzamento di un potere esecutivo onnipotente e incontrollabile. Ai tempi del governatorato texano a Gonzales toccava stabilire quali richieste di grazia provenienti dal braccio della morte dovessero essere accettate, e si può immaginare quali siano stati i risultati. Così come i Bush Gonzales si è arricchito grazie alla Enron. Bush ha incaricato Gonzales di occuparsi delle questioni relative ai prigionieri afgani e iracheni e alla Convenzione di Ginevra. E’ divenuto ministro di Giustizia grazie a un’idea di Karl Rove (il boy genius che guida la macchina politica di Bush). Gonzales è Bush (e viceversa). E lo stesso si potrebbe dire oggi di Condoleezza Rice, che pure ha vissuto e vive anche di luce propria. Probabilmente sono tutti e due un po’ zio Tom e un po’ “nuovi americani”. Incarnano il counter-establishment conservatore che il partito repubblicano ha costruito con fatica in questi trent’anni in opposizione all’egemonia liberal degli anni ’60. Rappresentano una risposta americana ai rischi derivati dall’affermazione del relativismo culturale denunciati da Samuel Huntington:

"L’America era una nazione di persone con gli stessi diritti, che condividevano una cultura sostanzialmente anglo-protestante e rispettavano con convinzione i principi liberal-democratici del credo americano (…). Negli anni ’60 dei movimenti agguerriti cominciarono a mettere in discussione la rilevanza, la sostanza e la desiderabilità di questo concetto dell’America (…). Invitarono gli immigrati a mantenere la cultura del paese d’origine, garantirono loro dei privilegi legali negati agli stessi americani, e denunciarono l’idea dell’americanizzazione in quanto non-americana. Propugnarono la riscrittura dei libri di storia, in modo da fare riferimento ai “popoli” degli Stati Uniti, anziché al popolo unitario di cui parla la Costituzione (…). Rivendicarono il primato giuridico dei diritti e delle preferenze razziali dei diversi gruppi, sui diritti individuali posti al centro del credo americano".

Le preoccupazioni di Huntington e di altri riguardano non solo il rafforzamento di identità sub-nazionali all’interno degli Stati Uniti, a danno dell’integrità dell’identità americana, ma anche il predominio di nuove élite bianche che incarnano questa trasformazione della cultura politica e giuridica. Sembrava allora formarsi un unico fronte tra alcune élite politiche, intellettuali e istituzionali e i leader dei gruppi sub-nazionali di cui venivano promossi gli interessi. Inoltre i burocrati, i giudici e gli educatori svolgevano un ruolo fondamentale in questo disegno di “decostruzione” dell’identità nazionale. Gonzales+Rice+Bush rappresenta invece la riproposizione del vecchio modello di assimilazione al “credo americano”.

Sono stati per primi i neoconservatori a concentrare la loro analisi sugli attori sociali e politici fautori della rivoluzione culturale degli anni ’60, indagando sul ruolo dell’intellighenzia americana, definita "The New Class" (riprendendo, ironicamente, il titolo dell’opera più celebre di Milovan Gilas) o anche "The Knowledge Class" (Bell, 1981). La loro egemonia viene correlata all’espansione delle politiche di welfare e di intervento pubblico (che ne moltiplicava la presenza all’interno degli apparati burocratici e statali); il loro successo presso un’audience sempre più ampia alle trasformazioni socioculturali del paese; le loro capacità di influenzare le decisioni politiche alla loro abilità sul terreno della manipolazione simbolica. Si stabilisce chiaramente una correlazione tra interventismo statale e preminenza della cultura liberal (Lipset, 1981).

Data questa impostazione analitica, la battaglia politico-culturale dei neoconservatori e dei repubblicani si sposta su due fronti: la delegittimazione delle politiche di intervento pubblico e di welfare, e la costituzione di un counter-establishment conservatore in grado di competere con gli amministratori e gli specialisti di politiche pubbliche di orientamento liberal. Per i neoconservatori non si tratta semplicemente di costituire un nucleo di esperti e intellettuali attraverso i quali controbilanciare l’influenza della cultura progressista, ma è in gioco la salvezza stessa delle istituzioni e del sistema politico. Scrive Rita di Leo:


Nella versione dell’intellettuale conservatore la difesa del primato anglo-puritano è un grido di dolore. Nella versione della Casa Bianca è un programma ben preciso con obiettivi di medio e lungo termine. Il focus del programma è far tornare l’individuo solo e unico responsabile di se stesso all’interno delle varie comunità del suo spazio esistenziale: la fede religiosa, l’istruzione, il lavoro, la famiglia, la casa, le malattie, i consumi, il tempo libero, la vecchiaia. Questa è la proposta del vice presidente Dick Cheney: “Uno dei più grandi obiettivi della nostra amministrazione è aiutare più americani a trovare le opportunità di possedere una casa, di avere un piccolo business, un proprio piano sanitario e pensionistico. In tutte queste aeree la proprietà è la via per maggiori opportunità, maggiori libertà e più controllo sulla propria vita, e questo è un traguardo degno di una grande nazione. Tutti hanno il diritto di avere la chance di vivere il sogno americano, di farsi propri risparmi, aspirare alla ricchezza, avere un proprio gruzzolo per la pensione che nessuno ti possa portare via” (…) In agenda c’è un programma politico che usa la proprietà individuale come la scelta vincente per l’integrazione “dell’altra America” nella vecchia ("Gli Stati Uniti e la Casa Bianca di Bush")

Chi meglio di Condoleezza Rice e Alberto Gonzales potevano impersonare il ritorno ai vecchi valori americani? Le loro biografie servono a mostrare che in fondo le battaglie per i diritti civili hanno lasciato il segno anche nella cultura politica repubblicana, ma anche che si è scongiurata l’opera di decostruzione dell’identità nazionale avviata negli anni ’60. Nella loro ascesa l’opportunismo politico di Karl Rove e George Bush si fonde con l’ostinazione degli americani che hanno saputo vincere le avversità della vita. Chi può sapere meglio di un repubblicano del Texas come si tratta con gli ispanici?

Le menti più avvedute del partito repubblicano, a partire da William Simon (ministro dell’economia durante la presidenza Nixon), gli intellettuali genuinamente conservatori come Daniel Bell e Samuel Huntington e i neoconservatori come Jeanne Kirkpatrick e Irving Kristol si sono preoccupati del problema delle élite, della formazione del personale politico e della creazione di cultura politica. Gli ex-trotzkysti che hanno dato vita al movimento neoconservatore sono culturalmente ancora troppo legati e influenzati dalle loro radici europee, i loro figli sono finalmente espressione di una nuova cultura conservatrice veramente americana. Norman Podhoretz conosceva e frequentava Hannah Arendt, convertendosi al neoconservatorismo strada facendo; suo figlio John scrive sul New York Post ed è un americano impregnato al 100% di neo-populismo repubblicano fin dall’adolescenza.

Una nuova élite culturale conservatrice americana che doveva e deve rispondere alla crisi di una società malata di cosmopolitismo: dopo la defezione dei liberal dal fronte anglo-protestante è stata in grado di incontrare sulla sua strada parte di quelle élite espressione delle minoranze assimilate alla moralità dei coloni, secondo il modello che aveva funzionato per 300 anni.

In "Democrazia senza libertà" il rimpianto per il nobile paternalismo dei wasp giunge da Fareed Zakaria, un americano di origine indiana: l’ennesima prova del successo di Karl Rove, George Bush e dei neoconservatori nel opera di repackaging (secondo una felice espressione di Fabrizio Tonello) e di marketing dei valori tradizionali americani, ancora una volta (come all’epoca del Grande Risveglio) veicolati attraverso la religione. La crociata per la riamericanizzazione continua.

(Mattia Diletti - da "Posse", novembre 2005)

18 marzo 2008

Obama su divisioni razziali e unità del Paese

"A More Perfect Union"
Remarks of Senator Barack Obama
Constitution Center
Tuesday, March 18th, 2008
Philadelphia, Pennsylvania

As Prepared for Delivery

“We the people, in order to form a more perfect union.”

Two hundred and twenty one years ago, in a hall that still stands across the street, a group of men gathered and, with these simple words, launched America’s improbable experiment in democracy. Farmers and scholars; statesmen and patriots who had traveled across an ocean to escape tyranny and persecution finally made real their declaration of independence at a Philadelphia convention that lasted through the spring of 1787.

The document they produced was eventually signed but ultimately unfinished. It was stained by this nation’s original sin of slavery, a question that divided the colonies and brought the convention to a stalemate until the founders chose to allow the slave trade to continue for at least twenty more years, and to leave any final resolution to future generations.

Of course, the answer to the slavery question was already embedded within our Constitution – a Constitution that had at is very core the ideal of equal citizenship under the law; a Constitution that promised its people liberty, and justice, and a union that could be and should be perfected over time.

And yet words on a parchment would not be enough to deliver slaves from bondage, or provide men and women of every color and creed their full rights and obligations as citizens of the United States. What would be needed were Americans in successive generations who were willing to do their part – through protests and struggle, on the streets and in the courts, through a civil war and civil disobedience and always at great risk - to narrow that gap between the promise of our ideals and the reality of their time.

This was one of the tasks we set forth at the beginning of this campaign – to continue the long march of those who came before us, a march for a more just, more equal, more free, more caring and more prosperous America. I chose to run for the presidency at this moment in history because I believe deeply that we cannot solve the challenges of our time unless we solve them together – unless we perfect our union by understanding that we may have different stories, but we hold common hopes; that we may not look the same and we may not have come from the same place, but we all want to move in the same direction – towards a better future for of children and our grandchildren.

This belief comes from my unyielding faith in the decency and generosity of the American people. But it also comes from my own American story.

I am the son of a black man from Kenya and a white woman from Kansas. I was raised with the help of a white grandfather who survived a Depression to serve in Patton’s Army during World War II and a white grandmother who worked on a bomber assembly line at Fort Leavenworth while he was overseas. I’ve gone to some of the best schools in America and lived in one of the world’s poorest nations. I am married to a black American who carries within her the blood of slaves and slaveowners – an inheritance we pass on to our two precious daughters. I have brothers, sisters, nieces, nephews, uncles and cousins, of every race and every hue, scattered across three continents, and for as long as I live, I will never forget that in no other country on Earth is my story even possible.

It’s a story that hasn’t made me the most conventional candidate. But it is a story that has seared into my genetic makeup the idea that this nation is more than the sum of its parts – that out of many, we are truly one.

Throughout the first year of this campaign, against all predictions to the contrary, we saw how hungry the American people were for this message of unity. Despite the temptation to view my candidacy through a purely racial lens, we won commanding victories in states with some of the whitest populations in the country. In South Carolina, where the Confederate Flag still flies, we built a powerful coalition of African Americans and white Americans.

This is not to say that race has not been an issue in the campaign. At various stages in the campaign, some commentators have deemed me either “too black” or “not black enough.” We saw racial tensions bubble to the surface during the week before the South Carolina primary. The press has scoured every exit poll for the latest evidence of racial polarization, not just in terms of white and black, but black and brown as well.

And yet, it has only been in the last couple of weeks that the discussion of race in this campaign has taken a particularly divisive turn.

On one end of the spectrum, we’ve heard the implication that my candidacy is somehow an exercise in affirmative action; that it’s based solely on the desire of wide-eyed liberals to purchase racial reconciliation on the cheap. On the other end, we’ve heard my former pastor, Reverend Jeremiah Wright, use incendiary language to express views that have the potential not only to widen the racial divide, but views that denigrate both the greatness and the goodness of our nation; that rightly offend white and black alike.

I have already condemned, in unequivocal terms, the statements of Reverend Wright that have caused such controversy. For some, nagging questions remain. Did I know him to be an occasionally fierce critic of American domestic and foreign policy? Of course. Did I ever hear him make remarks that could be considered controversial while I sat in church? Yes. Did I strongly disagree with many of his political views? Absolutely – just as I’m sure many of you have heard remarks from your pastors, priests, or rabbis with which you strongly disagreed.

But the remarks that have caused this recent firestorm weren’t simply controversial. They weren’t simply a religious leader’s effort to speak out against perceived injustice. Instead, they expressed a profoundly distorted view of this country – a view that sees white racism as endemic, and that elevates what is wrong with America above all that we know is right with America; a view that sees the conflicts in the Middle East as rooted primarily in the actions of stalwart allies like Israel, instead of emanating from the perverse and hateful ideologies of radical Islam.

As such, Reverend Wright’s comments were not only wrong but divisive, divisive at a time when we need unity; racially charged at a time when we need to come together to solve a set of monumental problems – two wars, a terrorist threat, a falling economy, a chronic health care crisis and potentially devastating climate change; problems that are neither black or white or Latino or Asian, but rather problems that confront us all.

Given my background, my politics, and my professed values and ideals, there will no doubt be those for whom my statements of condemnation are not enough. Why associate myself with Reverend Wright in the first place, they may ask? Why not join another church? And I confess that if all that I knew of Reverend Wright were the snippets of those sermons that have run in an endless loop on the television and You Tube, or if Trinity United Church of Christ conformed to the caricatures being peddled by some commentators, there is no doubt that I would react in much the same way

But the truth is, that isn’t all that I know of the man. The man I met more than twenty years ago is a man who helped introduce me to my Christian faith, a man who spoke to me about our obligations to love one another; to care for the sick and lift up the poor. He is a man who served his country as a U.S. Marine; who has studied and lectured at some of the finest universities and seminaries in the country, and who for over thirty years led a church that serves the community by doing God’s work here on Earth – by housing the homeless, ministering to the needy, providing day care services and scholarships and prison ministries, and reaching out to those suffering from HIV/AIDS.

In my first book, Dreams From My Father, I described the experience of my first service at Trinity:

“People began to shout, to rise from their seats and clap and cry out, a forceful wind carrying the reverend’s voice up into the rafters….And in that single note – hope! – I heard something else; at the foot of that cross, inside the thousands of churches across the city, I imagined the stories of ordinary black people merging with the stories of David and Goliath, Moses and Pharaoh, the Christians in the lion’s den, Ezekiel’s field of dry bones. Those stories – of survival, and freedom, and hope – became our story, my story; the blood that had spilled was our blood, the tears our tears; until this black church, on this bright day, seemed once more a vessel carrying the story of a people into future generations and into a larger world. Our trials and triumphs became at once unique and universal, black and more than black; in chronicling our journey, the stories and songs gave us a means to reclaim memories that we didn’t need to feel shame about…memories that all people might study and cherish – and with which we could start to rebuild.”

That has been my experience at Trinity. Like other predominantly black churches across the country, Trinity embodies the black community in its entirety – the doctor and the welfare mom, the model student and the former gang-banger. Like other black churches, Trinity’s services are full of raucous laughter and sometimes bawdy humor. They are full of dancing, clapping, screaming and shouting that may seem jarring to the untrained ear. The church contains in full the kindness and cruelty, the fierce intelligence and the shocking ignorance, the struggles and successes, the love and yes, the bitterness and bias that make up the black experience in America.

And this helps explain, perhaps, my relationship with Reverend Wright. As imperfect as he may be, he has been like family to me. He strengthened my faith, officiated my wedding, and baptized my children. Not once in my conversations with him have I heard him talk about any ethnic group in derogatory terms, or treat whites with whom he interacted with anything but courtesy and respect. He contains within him the contradictions – the good and the bad – of the community that he has served diligently for so many years.

I can no more disown him than I can disown the black community. I can no more disown him than I can my white grandmother – a woman who helped raise me, a woman who sacrificed again and again for me, a woman who loves me as much as she loves anything in this world, but a woman who once confessed her fear of black men who passed by her on the street, and who on more than one occasion has uttered racial or ethnic stereotypes that made me cringe.

These people are a part of me. And they are a part of America, this country that I love.

Some will see this as an attempt to justify or excuse comments that are simply inexcusable. I can assure you it is not. I suppose the politically safe thing would be to move on from this episode and just hope that it fades into the woodwork. We can dismiss Reverend Wright as a crank or a demagogue, just as some have dismissed Geraldine Ferraro, in the aftermath of her recent statements, as harboring some deep-seated racial bias.

But race is an issue that I believe this nation cannot afford to ignore right now. We would be making the same mistake that Reverend Wright made in his offending sermons about America – to simplify and stereotype and amplify the negative to the point that it distorts reality.

The fact is that the comments that have been made and the issues that have surfaced over the last few weeks reflect the complexities of race in this country that we’ve never really worked through – a part of our union that we have yet to perfect. And if we walk away now, if we simply retreat into our respective corners, we will never be able to come together and solve challenges like health care, or education, or the need to find good jobs for every American.

Understanding this reality requires a reminder of how we arrived at this point. As William Faulkner once wrote, “The past isn’t dead and buried. In fact, it isn’t even past.” We do not need to recite here the history of racial injustice in this country. But we do need to remind ourselves that so many of the disparities that exist in the African-American community today can be directly traced to inequalities passed on from an earlier generation that suffered under the brutal legacy of slavery and Jim Crow.

Segregated schools were, and are, inferior schools; we still haven’t fixed them, fifty years after Brown v. Board of Education, and the inferior education they provided, then and now, helps explain the pervasive achievement gap between today’s black and white students.

Legalized discrimination - where blacks were prevented, often through violence, from owning property, or loans were not granted to African-American business owners, or black homeowners could not access FHA mortgages, or blacks were excluded from unions, or the police force, or fire departments – meant that black families could not amass any meaningful wealth to bequeath to future generations. That history helps explain the wealth and income gap between black and white, and the concentrated pockets of poverty that persists in so many of today’s urban and rural communities.

A lack of economic opportunity among black men, and the shame and frustration that came from not being able to provide for one’s family, contributed to the erosion of black families – a problem that welfare policies for many years may have worsened. And the lack of basic services in so many urban black neighborhoods – parks for kids to play in, police walking the beat, regular garbage pick-up and building code enforcement – all helped create a cycle of violence, blight and neglect that continue to haunt us.

This is the reality in which Reverend Wright and other African-Americans of his generation grew up. They came of age in the late fifties and early sixties, a time when segregation was still the law of the land and opportunity was systematically constricted. What’s remarkable is not how many failed in the face of discrimination, but rather how many men and women overcame the odds; how many were able to make a way out of no way for those like me who would come after them.

But for all those who scratched and clawed their way to get a piece of the American Dream, there were many who didn’t make it – those who were ultimately defeated, in one way or another, by discrimination. That legacy of defeat was passed on to future generations – those young men and increasingly young women who we see standing on street corners or languishing in our prisons, without hope or prospects for the future. Even for those blacks who did make it, questions of race, and racism, continue to define their worldview in fundamental ways. For the men and women of Reverend Wright’s generation, the memories of humiliation and doubt and fear have not gone away; nor has the anger and the bitterness of those years. That anger may not get expressed in public, in front of white co-workers or white friends. But it does find voice in the barbershop or around the kitchen table. At times, that anger is exploited by politicians, to gin up votes along racial lines, or to make up for a politician’s own failings.

And occasionally it finds voice in the church on Sunday morning, in the pulpit and in the pews. The fact that so many people are surprised to hear that anger in some of Reverend Wright’s sermons simply reminds us of the old truism that the most segregated hour in American life occurs on Sunday morning. That anger is not always productive; indeed, all too often it distracts attention from solving real problems; it keeps us from squarely facing our own complicity in our condition, and prevents the African-American community from forging the alliances it needs to bring about real change. But the anger is real; it is powerful; and to simply wish it away, to condemn it without understanding its roots, only serves to widen the chasm of misunderstanding that exists between the races.

In fact, a similar anger exists within segments of the white community. Most working- and middle-class white Americans don’t feel that they have been particularly privileged by their race. Their experience is the immigrant experience – as far as they’re concerned, no one’s handed them anything, they’ve built it from scratch. They’ve worked hard all their lives, many times only to see their jobs shipped overseas or their pension dumped after a lifetime of labor. They are anxious about their futures, and feel their dreams slipping away; in an era of stagnant wages and global competition, opportunity comes to be seen as a zero sum game, in which your dreams come at my expense. So when they are told to bus their children to a school across town; when they hear that an African American is getting an advantage in landing a good job or a spot in a good college because of an injustice that they themselves never committed; when they’re told that their fears about crime in urban neighborhoods are somehow prejudiced, resentment builds over time.

Like the anger within the black community, these resentments aren’t always expressed in polite company. But they have helped shape the political landscape for at least a generation. Anger over welfare and affirmative action helped forge the Reagan Coalition. Politicians routinely exploited fears of crime for their own electoral ends. Talk show hosts and conservative commentators built entire careers unmasking bogus claims of racism while dismissing legitimate discussions of racial injustice and inequality as mere political correctness or reverse racism.

Just as black anger often proved counterproductive, so have these white resentments distracted attention from the real culprits of the middle class squeeze – a corporate culture rife with inside dealing, questionable accounting practices, and short-term greed; a Washington dominated by lobbyists and special interests; economic policies that favor the few over the many. And yet, to wish away the resentments of white Americans, to label them as misguided or even racist, without recognizing they are grounded in legitimate concerns – this too widens the racial divide, and blocks the path to understanding.

This is where we are right now. It’s a racial stalemate we’ve been stuck in for years. Contrary to the claims of some of my critics, black and white, I have never been so naïve as to believe that we can get beyond our racial divisions in a single election cycle, or with a single candidacy – particularly a candidacy as imperfect as my own.

But I have asserted a firm conviction – a conviction rooted in my faith in God and my faith in the American people – that working together we can move beyond some of our old racial wounds, and that in fact we have no choice is we are to continue on the path of a more perfect union.

For the African-American community, that path means embracing the burdens of our past without becoming victims of our past. It means continuing to insist on a full measure of justice in every aspect of American life. But it also means binding our particular grievances – for better health care, and better schools, and better jobs - to the larger aspirations of all Americans -- the white woman struggling to break the glass ceiling, the white man whose been laid off, the immigrant trying to feed his family. And it means taking full responsibility for own lives – by demanding more from our fathers, and spending more time with our children, and reading to them, and teaching them that while they may face challenges and discrimination in their own lives, they must never succumb to despair or cynicism; they must always believe that they can write their own destiny.

Ironically, this quintessentially American – and yes, conservative – notion of self-help found frequent expression in Reverend Wright’s sermons. But what my former pastor too often failed to understand is that embarking on a program of self-help also requires a belief that society can change.

The profound mistake of Reverend Wright’s sermons is not that he spoke about racism in our society. It’s that he spoke as if our society was static; as if no progress has been made; as if this country – a country that has made it possible for one of his own members to run for the highest office in the land and build a coalition of white and black; Latino and Asian, rich and poor, young and old -- is still irrevocably bound to a tragic past. But what we know -- what we have seen – is that America can change. That is true genius of this nation. What we have already achieved gives us hope – the audacity to hope – for what we can and must achieve tomorrow.

In the white community, the path to a more perfect union means acknowledging that what ails the African-American community does not just exist in the minds of black people; that the legacy of discrimination - and current incidents of discrimination, while less overt than in the past - are real and must be addressed. Not just with words, but with deeds – by investing in our schools and our communities; by enforcing our civil rights laws and ensuring fairness in our criminal justice system; by providing this generation with ladders of opportunity that were unavailable for previous generations. It requires all Americans to realize that your dreams do not have to come at the expense of my dreams; that investing in the health, welfare, and education of black and brown and white children will ultimately help all of America prosper.

In the end, then, what is called for is nothing more, and nothing less, than what all the world’s great religions demand – that we do unto others as we would have them do unto us. Let us be our brother’s keeper, Scripture tells us. Let us be our sister’s keeper. Let us find that common stake we all have in one another, and let our politics reflect that spirit as well.

For we have a choice in this country. We can accept a politics that breeds division, and conflict, and cynicism. We can tackle race only as spectacle – as we did in the OJ trial – or in the wake of tragedy, as we did in the aftermath of Katrina - or as fodder for the nightly news. We can play Reverend Wright’s sermons on every channel, every day and talk about them from now until the election, and make the only question in this campaign whether or not the American people think that I somehow believe or sympathize with his most offensive words. We can pounce on some gaffe by a Hillary supporter as evidence that she’s playing the race card, or we can speculate on whether white men will all flock to John McCain in the general election regardless of his policies.

We can do that.

But if we do, I can tell you that in the next election, we’ll be talking about some other distraction. And then another one. And then another one. And nothing will change.

That is one option. Or, at this moment, in this election, we can come together and say, “Not this time.” This time we want to talk about the crumbling schools that are stealing the future of black children and white children and Asian children and Hispanic children and Native American children. This time we want to reject the cynicism that tells us that these kids can’t learn; that those kids who don’t look like us are somebody else’s problem. The children of America are not those kids, they are our kids, and we will not let them fall behind in a 21st century economy. Not this time.

This time we want to talk about how the lines in the Emergency Room are filled with whites and blacks and Hispanics who do not have health care; who don’t have the power on their own to overcome the special interests in Washington, but who can take them on if we do it together.

This time we want to talk about the shuttered mills that once provided a decent life for men and women of every race, and the homes for sale that once belonged to Americans from every religion, every region, every walk of life. This time we want to talk about the fact that the real problem is not that someone who doesn’t look like you might take your job; it’s that the corporation you work for will ship it overseas for nothing more than a profit.

This time we want to talk about the men and women of every color and creed who serve together, and fight together, and bleed together under the same proud flag. We want to talk about how to bring them home from a war that never should’ve been authorized and never should’ve been waged, and we want to talk about how we’ll show our patriotism by caring for them, and their families, and giving them the benefits they have earned.

I would not be running for President if I didn’t believe with all my heart that this is what the vast majority of Americans want for this country. This union may never be perfect, but generation after generation has shown that it can always be perfected. And today, whenever I find myself feeling doubtful or cynical about this possibility, what gives me the most hope is the next generation – the young people whose attitudes and beliefs and openness to change have already made history in this election.

There is one story in particularly that I’d like to leave you with today – a story I told when I had the great honor of speaking on Dr. King’s birthday at his home church, Ebenezer Baptist, in Atlanta.

There is a young, twenty-three year old white woman named Ashley Baia who organized for our campaign in Florence, South Carolina. She had been working to organize a mostly African-American community since the beginning of this campaign, and one day she was at a roundtable discussion where everyone went around telling their story and why they were there.

And Ashley said that when she was nine years old, her mother got cancer. And because she had to miss days of work, she was let go and lost her health care. They had to file for bankruptcy, and that’s when Ashley decided that she had to do something to help her mom.

She knew that food was one of their most expensive costs, and so Ashley convinced her mother that what she really liked and really wanted to eat more than anything else was mustard and relish sandwiches. Because that was the cheapest way to eat.

She did this for a year until her mom got better, and she told everyone at the roundtable that the reason she joined our campaign was so that she could help the millions of other children in the country who want and need to help their parents too.

Now Ashley might have made a different choice. Perhaps somebody told her along the way that the source of her mother’s problems were blacks who were on welfare and too lazy to work, or Hispanics who were coming into the country illegally. But she didn’t. She sought out allies in her fight against injustice.

Anyway, Ashley finishes her story and then goes around the room and asks everyone else why they’re supporting the campaign. They all have different stories and reasons. Many bring up a specific issue. And finally they come to this elderly black man who’s been sitting there quietly the entire time. And Ashley asks him why he’s there. And he does not bring up a specific issue. He does not say health care or the economy. He does not say education or the war. He does not say that he was there because of Barack Obama. He simply says to everyone in the room, “I am here because of Ashley.”

“I’m here because of Ashley.” By itself, that single moment of recognition between that young white girl and that old black man is not enough. It is not enough to give health care to the sick, or jobs to the jobless, or education to our children.

But it is where we start. It is where our union grows stronger. And as so many generations have come to realize over the course of the two-hundred and twenty one years since a band of patriots signed that document in Philadelphia, that is where the perfection begins.

La forza dei democratici, le strategie e i danni del triangolo

Gli aggettivi sulle primarie democratiche si sprecano. Il partito democratico ha diversi buoni motivi per fregarsi le mani in vista delle elezioni di novembre. Se non fosse per il guaio che pur avendo in Hillary Clinton e Barack Obama due candidati di prima grandezza, non gli riesce di sceglierne uno. Come e quando i democratici riusciranno a prendere una decisione sarà determinante per far tornare uno di loro nello studio ovale della Casa Bianca e ottenere una maggioranza significativa in Congresso.
Sono passati quasi tre mesi dal voto in Iowa, quando Obama spiazzò l'establishement del partito e i commentatori e Clinton arrivò terza. Da allora i senatori duellanti hanno raccolto più soldi che mai per le loro campagne e, con molte primarie ancora da fare, sono i candidati più votati della storia avendo superato entrambi i 12 milioni di consensi - Bush è terzo con 10 milioni, ma dominò le primarie nel 2000. Alla corsa democratica hanno partecipato più giovani, più donne, più latinos, più afroamericani che non nel 2004. Ci sono Stati in cui il voto di una di queste categorie, o quella degli indipendenti - ci si registra al voto dichiarando le proprie preferenze politiche - può far vincere sia la presidenza che seggi al Congresso. Quel che più fa sorridere il partito riorganizzato da Howard Dean è che la tendenza a raccogliere più voti tra giovani, neri, donne e ispanici sembra essere consolidata: tra presidenziali del 2004 ed elezioni di medio termine del 2006 il voto delle donne è salito del 4%, quello dei giovani del 5, dei latinos del 14. Consolidando la propria presa e l'alta partecipazione su questi segmenti e mantenendo il proprio elettorato tradizionale, i democratici possono sperare di fare grandi cose a novembre.
Il fatto che tra gli elettori democratici ci siano anche più persone con un reddito superiore a 100mila dollari ha fatto dire a diversi osservatori che è la composizione sociale della coalizione democratica che sta cambiando: il voto dei maschi bianchi sindacalizzati sarebbe a rischio. Specie contro uno come McCain, che è un outsider nel suo partito, ha forti credenziali in materia di sicurezza e politica estera ed è un maschio bianco che parla schietto. L'osservazione è giusta se si guarda ai redditi e alla categoria sociale solo mentre si osservano i bianchi. Afroamericani e latinos sono lavoratori e disoccupati e non votano solo o necessariamente in base al colore della loro pelle.
La faccenda che toglie il sonno all'establishement del partito è il rebus su come risolvere la battaglia tra Obama e Clinton per la nomination. Tutto sembra far pensare che lo scontro si concluderà alla convention di Denver ad agosto. Un'ipotesi che l'ex governatore di New York Mario Cuomo ha definito «rovinosa». Se si arrivasse davvero all'estate avremmo altri mesi di colpi bassi e fango. Altre allusioni al «candidato nero» come quelle di Bill Clinton o Geraldine Ferraro potrebbero far crollare la partecipazione afroamericana nel caso Hillary venisse nominata alla convention grazie al voto dei 795 superdelegati - 350 dei quali non è ancora schierato. Questo potrebbe far perdere Stati come la Virginia che nel 2004 hanno votato per Bush dove i democratici sperano di farcela. Clinton può sostenere una tesi simile a suo favore parlando della necessità di ripetere le primarie in Florida, per non umiliare uno Stato a rischio - il voto di quest'anno è stato invalidato perché tenuto troppo presto, contro le regole del partito.
La scelta dei superdelegati verrà anche a partire da considerazioni come queste e le due campagne stanno facendo di tutto per trovare argomenti a loro favore. Obama è in vantaggio per numero di voti (anche tenendo conto di Florida e Michigan), per numero di Stati e, quel che conta, per numero di delegati. Clinton ha vinto in più Stati grandi e raccoglie i consensi dell'elettorato democratico tradizionale.
E allora conta più l'Ohio o la Virginia? Il tentativo di conquistare qualche Stato del Sud come teorizza Obama o la necessità di consolidare quello che c'è? La prima ipotesi è una scommessa sul futuro, la seconda è quella sulla quale si giocano le presidenziali da decenni. E su chi si può contare per costruire una solida maggioranza? I giovani e i latinos o la base in crisi di identità degli Stati industriali? I democratici hanno una grande opportunità di mettere tutti assieme inventando un'ipotesi per il futuro americano che faccia uscire il Paese dalle secche politiche ed economiche in cui l'ha portato la maggioranza conservatrice che domina la scena politica dal 1968. Obama, con i suoi appelli al cambiamento e l'ossessivo richiamo alla partecipazione dal basso è sicuramente messo meglio per incarnare il domani. Clinton avrebbe bisogno del sostegno del senatore dell'Illinois e di prendere le distanze dagli anni del marito (che le portano i voti dell'elettorato tradizionale). Come che vada i democratici devono sbrigarsi a trovare una faccia che li rappresenti. I repubblicani, con la loro guerra e i loro tagli alle tasse per i ricchi guardano al passato. Ma McCain ha il tempo dalla sua per provare a raccogliere i voti dei bianchi democratici spaventati dal futuro. Quelli che mai e poi mai voterebbero per il negro e la puttana.

(Martino Mazzonis)

17 marzo 2008

Era il partito, bellezza.. La crisi della coalizione conservatrice

«It's the Party, stupid!» poteva essere lo slogan dell'artefice delle vittorie elettorali di George W. Bush, Karl Rove. Il cosiddetto "boy genius" della destra conservatrice - che a quanto pare sta tornando in pista con McCain - aveva capito poche, semplici cose: per vincere le elezioni servono idee, soldi, militanti, giocare sporco e qualcuno che sappia leggere le statistiche elettorali. E poi l'attimo fuggente che, se colto, trasforma le grandi crisi in opportunità politiche. E l'11 settembre è stato il capitale politico della destra Usa, come la Grande Depressione lo fu per i democratici. Rove ha fatto propria l'esperienza di Reagan, godendo delle intuizioni politiche della generazione di conservatori formatasi negli anni '70 all'ombra di Richard Nixon - ma anche contro, nel caso della politica estera. Il ciclo elettorale dei conservatori si aprì con la vittoria alle presidenziali del '68, mentre il partito democratico cominciava a cambiare: la vecchia coalizione del New Deal di Roosevelt (sindacati a nord e notabilato razzista a sud) era in via di disfacimento, la Great Society di Lyndon Johnson in panne e il disastro del Vietnam manifesto.
Di Nixon molti conservatori parlano male, e non a causa del Watergate: feroce a parole contro i liberal, avrebbe avuto la colpa di perpetuare le politiche stataliste e assistenziali ereditate dai democratici. In realtà Nixon, un politico tanto abile quanto ossessionato e paranoico, aveva un obbiettivo: costruire una coalizione conservatrice che prendesse il posto di quella democratica e aprisse un ciclo repubblicano, come non avveniva dalla Grande Depressione. Per questo servivano le idee - le fornirono i think tank fondati negli anni '70 per costruire egemonia culturale - e una base elettorale nuova. I think tank potevano garantire che i "quadri" repubblicani elaborassero il pensiero conservatore, preparando il terreno per la prossima battaglia politica; la base elettorale doveva essere costruita attorno a una coalizione di gruppi sociali nuovi che avrebbero dovuto identificarsi con il partito repubblicano.
Anzi, essi dovevano divenire l'asse costituente del partito: i religiosi - gli evangelici, che per la prima volta subivano un inquadramento politico su così larga scala - e quelli anti-tasse, la classe media che negli anni '70 sentiva cadere sulle proprie spalle la crisi economica. La grande ondata di vittorie elettorali conservatrici del dopo Watergate prende avvio proprio da un referendum anti-tasse - il Proposition 13 - che si tenne in California nel 1978. Quasi tutto l'establishment politico dello stato si schierò contro il referendum, che ottenne invece il 65% dei consensi: era l'inizio di un'ondata populista di destra a guida della quale si pose Ronald Reagan negli Stati Uniti.
Il partito repubblicano rappresentava una classe imprenditoriale arrembante e cannibale che si rafforzava soprattutto nel sud e nell'ovest del paese; al tempo stesso era divenuto il partito della Bibbia, degli evangelici e dell'incarnazione della nuova missione civilizzatrice degli Stati Uniti, il Bene assoluto contro il Male assoluto, l'Unione sovietica. Una grande narrazione collettiva che sostituiva l'ammaccato progressismo americano: a Washington un centro ideologico, capace di controllare la macchina federale tramite il presidente e di disciplinare il messaggio del partito e dei suoi eletti; nella periferia gruppi di interesse alleati in modo (quasi) definitivo con i nuovi conservatori alla Reagan o alla Newt Gingrich, il grande oppositore di Clinton negli anni ‘90. Il sogno di Gingrich, e poi di Rove, era quello di rendere la coalizione reaganiana permanente attraverso il mezzo del partito, uno strumento che in America era stato considerato morto e sepolto.
In un paese dove si vota poco e si vince con scarti anche minimi come gli Usa, conta mobilitare uno zoccolo duro che trascina tutti gli altri, e su questo Rove aveva costruito la fortuna dei repubblicani e aveva contribuito ulteriormente alla polarizzazione ideologica dell'elettorato. Una struttura che potrebbe persino reggere l'urto di Obama o di Clinton, ma che non sembra in grado di reagire ai problemi americani dell'oggi. Incredibile a dirsi solo tre anni fa, quando una nuova era conservatrice sembrava emergere dalle statistiche elettorali e demografiche. Oggi, queste sembrano favorire i democratici, anche se un nuovo paradigma culturale e politico è ben lungi dall'affermarsi. Aspettando di vedere come andrà a finire, godiamoci il corto circuito della coalizione conservatrice.

(Mattia Diletti)

7 marzo 2008

Storie democratiche

Provate a digitare www.leftinalabama.com e scoprirete che il partito democratico dell’Alabama possiede un’agguerrita ala sinistra. Il sito, infatti, è un vero manifesto dell’orgoglio progressista in Alabama, che non è un posto qualsiasi in cui essere di sinistra, ma lo stato più segregazionista degli Stati uniti, quello di Rosa Parker (la madre del movimento per i diritti civili) e di George Wallace, ricordato, tra le altre cose, per lo “Stand in the Schoolhouse Door” del 1963, quando si oppose fisicamente all’ingresso di due studenti neri nell’Università dell’Alabama.

Da leftinalabama.com parte una disamina feroce della strategia del Democratic Leadership Council (il DLC), la quinta colonna di Hillary Clinton nel partito democratico, firmata dal blogger locale mooncat. Nell’atto d’accusa di mooncat (che, a dispetto del nome, in questa storia ha un ruolo assai più importante di quanto si possa pensare) troverete la sintesi della battaglia politico/culturale oggi combattuta all’interno del partito democratico americano.

FARE I REPUBBLICANI: DLC VS NETROOTS

La coalizione conservatrice è al limite del tracollo, e le attuali gravissime difficoltà dell’amministrazione Bush potrebbero essere il segnale di una crisi dell’intero movimento conservatore, diviso per la prima volta da parecchio tempo a questa parte, alle prese con una pletora di candidati alle primarie che stentano a emergere e privo di un leader, un “king maker” capace di tenere insieme le diverse componenti del movimento e il suo establishment. “Is America turning left?”, si è domandato The Economist all’inizio di agosto. E’ la crisi di un presidente o una crisi di egemonia?

Per i democratici il problema è chiaro: per tornare non solo a vincere un’elezione presidenziale, ma soprattutto a influenzare le coordinate politico/culturali del paese, bisogna comportarsi come i repubblicani in questo passato prossimo. Ironia della sorte, quarant’anni fa e a parti invertite, questi ultimi pensavano si dovesse guardare all’avversario e alla sinistra, persino quella europea, per capire come riuscire a vincere di nuovo. “Fare come i repubblicani”, però, vuol dire cose diverse a seconda di come ci si colloca all’interno del partito democratico: per il DLC significa essere anche un po’ conservatore (o, come è uso sostenere, restare nell’ “American mainstream”), e cioè avere posizioni più moderate allo scopo di sottrarre all’avversario gli elettori di centro (la chimera di ogni sistema bipartitico). Per altri significa combattere una guerra culturale permanente per ricostruire la base del partito democratico e riconquistare il controllo dell’agenda politica, come fecero i repubblicani attraverso i loro formidabili apparati culturali, ossia i think tank, le riviste, gli “esperti” d’assalto che hanno invaso radio e tv.

Le infrastrutture culturali furono inventate di sana pianta negli anni ’70 a sostegno della spettacolare mobilitazione dei militanti della destra cristiana, dei gruppi contro le tasse, dei difensori del diritto al possesso delle armi, dei quali Reagan divenne terminale istituzionale. Ma imporre un paradigma culturale è una cosa complicata, che non si improvvisa: intanto bisogna averne uno, fare in modo che sia vincente prima di tutto nel proprio campo, avere il tempo di affermarlo e farlo emergere nel dibattito generale, organizzare gruppi che lo sostengano con denaro, costanza e dedizione, e infine avere la fortuna di trovarsi di fronte a quei casi della storia che permettono l’eclissarsi dell’universo valoriale del proprio contendente (come accadde durante la crisi economica e sociale degli ’70 che decretò la fine del neo-keynesismo).

Il corrispettivo democratico del “movimento dei movimenti” conservatore è oggi rappresentato dalle centinaia di migliaia di mooncat attivi in rete. Il web gioca un ruolo importantissimo, in una misura forse non immediatamente comprensibile al pubblico italiano. E nella rete il punto di snodo dell’organizzazione democratica sono i blog: piazze virtuali di un paese nelle cui città la piazza non è mai stata prevista da alcun piano regolatore. Nelle primarie democratiche del 2004, Howard Dean è stato il primo a puntare su questo “sommerso” della partecipazione, promuovendo una campagna dai toni populisti direttamente rivolta all’uomo qualunque (anzi, al “liberal” qualunque) che ormai trovava solo nella rete un mezzo di espressione contro le élites di partito. Tra Dean e “il popolo dei blog”, che i media definiscono i “netroots”, è nata così una naturale alleanza.
Il Democratic National Committee (DNC) che Dean oggi presiede attua una strategia definita “50-states”, in quanto basata sul sostegno economico e politico a tutti i candidati e le strutture del partito democratico presenti nei 50 stati, compresi quelli irrimediabilmente repubblicani. L’idea di Dean è semplice: riorganizzare il partito dalle fondamenta e con obiettivi di radicamento di lungo periodo, allo scopo di rafforzare la struttura organizzativa dei democratici in ogni stato e armonizzarne il messaggio, anche là dove sono considerati perdenti. Data la profondità della crisi dell’amministrazione Bush, questa strategia ha prodotto risultati immediati in diversi stati già a partire dalle elezioni di mid-term del 2006.

I blogger liberal si sentono “la base” del partito democratico: la loro mobilitazione nelle elezioni del 2006 è stata considerata decisiva in alcuni collegi. E da uno di loro è partito l’assalto all’establishment democratico di Washington: si tratta di Markos Moulitsas, che è riuscito a costruire in cinque anni il blog liberal più frequentato del paese, ovvero Dailykos.com (Kos è il diminutivo di Markos), forte di 600 mila contatti giornalieri e 500 mila dollari raccolti per i democratici nelle elezioni del 2004. Moulitsas (36 anni, un’infanzia nel Salvador materno, ex repubblicano, ex militare, alle spalle qualche insuccesso nella new economy: oggi può intervenire su Washington Post e New York Times) è una sorta di portavoce del movimento dei bloggers e ha organizzato nel 2006 il loro primo incontro annuale, la YearlyKos Convention. Quest’anno, al secondo appuntamento (il prossimo si chiamerà “Netroots Nation”) sono arrivati tutti i candidati delle primarie democratiche, inclusa Hillary Clinton che nelle primarie virtuali della convention ha preso un misero 9%.

LA RIVINCITA DEI NERDS

Qual’è la novità culturale di questo movimento? Qual’è il suo limite?
Si tratta senz’altro di un movimento “dal basso”, con molto seguito, che ha trovato i giusti canali politici per emergere e che appare più radicale della media riguardo a molte questioni del “democratic mainstream”, suo principale spunto polemico insieme all’amministrazione Bush. Esso denuncia, infatti, il potere della “consultantocracy” (“la consulentocrazia”, l’espressione è di Joe Klein), ovvero l’esercito di specialisti e consulenti politici che, a detta dei bloggers, contano ormai più degli elettori. E proprio per questo suo odio verso i professionisti che vivono “attorno” alla politica, il movimento non ha scelto la strada del think tank, laboratorio di idee istituzionalizzato, rifiutando di disciplinare il messaggio o di promuovere in modo univoco e chiaro proposte per l’azione di governo. A suo modo Moulitsas è però anche un impolitico, per di più assai moderato e contraddittorio su alcune questioni, che rappresenta a meraviglia un’ampia fetta della generazione nata tra i ’70 e gli ’80: scarsa alfabetizzazione politica e tanta frustrazione per una vita da classe media ai margini, lontana dagli odiati circoli “che contano” di Washington. Questo genuino populismo è una delle ragioni del successo di Moulitsas, che ha dato voce alla rivolta di uomini e donne con buona preparazione lavorativa e scolastica, mezzi economici incerti, futuro ancora più incerto, i quali, per la prima volta dopo anni, guardano al partito democratico e chiedono più stato, più intervento pubblico, meno privilegi per i ricchi. E Moulitsas ammette ironicamente di essere un emarginato un pò nevrotico, un“nerd” (termine che appartiene all’immaginario di questa generazione), che ce la sta facendo, senza rinnegare se stesso e grazie ai suoi fratelli.

Quello che DailyKos e un’altra miriade di siti e blog domandano a gran voce è di venire rappresentati da politici che affermino orgogliosamente di essere democratici, che stiano in mezzo alla “gente comune” e che lo facciano mobilitando la base del partito e non i tecnici del consenso. Quest’ultimo dev‘essere trovato sui grandi temi e sulla costruzione dei punti principali dell’agenda politica (“subito fuori dall’Iraq”, “sanità gratuita”, “più tasse ai ricchi per ricostruire le infrastrutture del paese”), e non su come si costruisce una “exit strategy”, questa sì lasciata ai politici e ai loro think tank.

Il punto debole è proprio qui. In questa sorta di “outing” democratico, di orgogliosa riscoperta di un’identità politica, le idee a volte stentano ad emergere. Lo strumento - internet e la sua “orizzontalità”, la libertà di espressione e accesso che esso consente – si trasforma nel contenuto, per il semplice fatto di essere “open”, democratico. E di questo caos si fa vanto: la democrazia è confusione. A vincere è però il candidato più disciplinato e organizzato, il nemico Hillary Clinton, che continua a salire nei sondaggi per le primarie democratiche grazie alla costruzione di un’immagine “presidenziabile”. La macchina elettorale della Clinton, com’è ormai abitudine del sistema politico americano, è un’organizzazione a sé, che nulla ha a che vedere con il partito democratico: del DNC di Dean, Hillary Clinton non avrà bisogno di utilizzare neanche un dollaro, una lista di potenziali elettori, un volontario, una conferenza stampa, un focus group, un memo, un sondaggio. Per ognuna di queste cose la Clinton ha un suo specifico staff. Il sogno di Dean (un rampollo dell’alta borghesia di New York, come Bush imparentato alla lontana con la corona inglese) è, forse, diventare un giorno il candidato del “partito”, con un milione di Moulitsas come base militante.

I NUOVI INTELLETTUALI ORGANICI

Oggi abbiamo quindi due visioni opposte del partito democratico: da una parte l’idea di tenere saldamente il centro, perché i liberal sono minoranza e bisogna accettare il fatto che l’America è un paese fondamentalmente conservatore; dall’altra l’idea che la mobilitazione politico/culturale e l’affermazione di un’identità forte siano volano del rafforzamento elettorale, e che le tendenze socio/demografiche degli Stati Uniti dovrebbero favorire sul medio periodo il partito democratico, come quelle dell’ultimo trentennio hanno favorito i repubblicani.

Per anni i democratici hanno osservato, con invidia e rancore, la perfetta macchina da guerra repubblicana, che ha dimostrato di dare il meglio di sé quando era all’opposizione, lontana dall’esecutivo (tenuto comunque in pugno per 28 degli ultimi 40 anni), ma in grado di riconquistare entrambe le camere del Congresso nel 1994, per la prima volta dopo un quarantennio. Ancora: già nel dopo Watergate i repubblicani erano stati in grado di costruire una strategia di rafforzamento globale del partito fin dalla sua base, stringendo alleanze con gruppi emergenti in tutto il paese, quali appunto la destra cristiana e il movimento contro le tasse. E a questo modello dice di essersi ispirato Howard Dean: un processo di “nazionalizzazione” e in certo senso di europeizzazione dei partiti americani, che smentisce il vecchio detto di Tip O’Neill “All politics is local”.

Al partito repubblicano erano stati forniti dei muscoli, il movimento conservatore, e al tempo stesso un cervello, i think tank. Se negli anni ’70 la sola idea dell’esistenza di “intellettuali conservatori” era considerata come una sorta di ossimoro, negli anni ’80 e ’90 essa diviene realtà. E’ proprio negli anni ’70, tuttavia, che un piccolo e coeso gruppo di finanziatori, in accordo con una esigua schiera di ricercatori sociali, professionisti e membri del partito repubblicano, fonda la terza generazione dei think tank americani. In quell’epoca i conservatori inventano la versione americana dell’intellettuale organico, un esperto che sa fare ma è anche ideologicamente schierato (e questa è la novità della nuova generazione di think tank). Uno strumento di rilegittimazione culturale delle politiche del laissez faire, dove il nemico è sempre lo stesso: lo stato, la regolamentazione pubblica. Una complessa macchina di marketing dell’ideologia conservatrice che, dai volumi accademici agli slogan elettorali, acquista finalmente una sua dignità nazionale. E questo sistema appariva ancora invincibile appena due anni e mezzo fa.

LA LUNGA CAVALCATA DEI CERVELLI DI HILLARY E BILL

Il primo tentativo di rovesciamento dell’egemonia conservatrice nasce negli anni ’80 e ha una matrice moderata: si tratta del suddetto Democratic Leadership Council, creato da Al From e Will Marshall - entrambi con anni di lavoro alle spalle in diverse strutture del partito democratico - a partire da un gruppo di eletti democratici centristi, i cosiddetti New Democrats. Il loro immediato obiettivo è quello di presentare alle presidenziali del 1988 una candidatura che rompa col recente passato (lo spunto nasce dalla pesantissima sconfitta elettorale di Walter Mondale, che nel 1984 sfida Reagan con una piattaforma considerata molto tradizionale e “old democrat”). La vittoria di Bush a danno di Dukakis nel 1988 conferma la bontà delle loro tesi, e, guardando al modello vincente dei repubblicani, il DLC fonda un suo think tank, il Progressive Policy Institute (PPI). I News Democrats cercano il loro principe e finalmente lo trovano in un outsider del sud, Bill Clinton, mentre il deus ex machina del DLC diviene un altro uomo del sud, questa volta di sangue politicamente nobile: Al Gore. Il DLC e soprattutto il PPI sono un laboratorio di idee per la Terza Via: ancora oggi il manifesto del think tank dei New Democrats si intitola Third Way, definita “La filosofia politica dell’età dell’informazione”, quasi a voler congelare l’effimero status quo degli anni ’90.

La Clinton ha quindi il suo laboratorio di idee, anzi ne ha più di uno: c’è anche il Center for American Progress (CAP), che il giornalista di The Nation Robert Dreyfuss ha definito “la Casa Bianca di Clinton in esilio – o lo staff in pectore della Casa Bianca del presidente Hillary Clinton”. Il CAP nasce nel 2003, dopo la pesante sconfitta dei democratici alle elezioni di mid-term del 2002: come ha pubblicamente ammesso il presidente John Podesta, ex capo dello staff del presidente Bill Clinton, il modello di riferimento è la Heritage Foundation, il più importante think tank conservatore, di cui Podesta ammira la capacità di produrre idee e, soprattutto, saperle vendere. Per sostenere questo “marketing della idee” è nata nel 2005 la Democracy Alliance, un gruppo di ricchi finanziatori - tra i quali George Soros e Mark Buell, uno dei principali sostenitori di Hillary Clinton che ha deciso di sostenere i think tank, le organizzazioni e i gruppi liberal. Con tre scopi: razionalizzare gli investimenti dopo la fallimentare esperienza del 2004, quando in molti elargirono notevoli contributi a Kerry, convinti di vincere; condizionare questi gruppi al fine di avere un messaggio più omogeneo ed efficace che emerga sul lungo periodo; ripetere il successo della Philanthropy Roundtable, un’organizzazione conservatrice che da trent’anni finanzia la sua galassia culturale di riferimento con gli scopi appena citati. Il motore della creazione di Democracy Alliance è stato Rob Stein, un altro ex dell’amministrazione Clinton, mentre la nuova direttrice è Kelly Craighead, già nello staff di Hillary Clinton quando svolgeva il ruolo di first lady.

CONGELARE GLI ANNI ‘90

La Clinton sta costruendo attorno a sé un sistema di relazioni molto coeso, e da tempo. Come per Bush nel 2000, la fedeltà al candidato è stata richiesta molto prima che cominciassero le primarie. In un sistema politico centrato sul candidato come quello americano, le “macchine politiche” devono edificare un complesso sistema di cooptazione che non lascia spazio alle improvvisazioni. Il nuovo presidente dev’ essere certo, prima di entrare in carica, della fedeltà di alcune centinaia di persone che occuperanno i posti di maggior rilievo nell’amministrazione, il suo “core executive”: tra queste le “ideas people” dei think tank. L’imprenditore politico si appoggia a un consulente che, per quanto la cosa possa apparire paradossale, è insieme imprenditore di se stesso e “militante”, un esperto di politiche pubbliche che mette sul mercato le sue capacità e si affilia al suo mecenate. Si scommette a vicenda l’uno sull’altro. Il sostegno evidente di almeno un paio di grandi think tank di Washington serve a confermare il possesso di conoscenze e capacità di governo da parte di Hillary Clinton, in un intreccio complesso tra business (vedi la Democracy Alliance), consiglieri del principe ed élites politiche. Il risultato? La semplice e insopportabilmente noiosa riproposizione, nel momento di maggior crisi della storia del movimento conservatore, di un usato sicuro, il brand Clinton, una macchina di potere già oliata. Gradito all’establishment economico/finanziario - che ha bisogno a intervalli regolari di un democratico capace di mettere i conti in ordine dopo i disastri compiuti dai repubblicani - e accettabile per il popolo, sia pure senza eccessivo entusiasmo ( ma l’importante è far fuori Bush).
Tutto ciò vi ricorda qualcosa?

(Mattia Diletti - settembre 2007)